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Seneca: l’alienazione negli anni dell’Impero – Luigi Morrone

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Seneca ha analizzato in pagine che hanno veramente il sapore della vita, e con uno stile drammatico di grande intensità, sia le situazioni, le scelte e le non-scelte che meglio attestano l’ambivalenza dell’uomo, sia le “figure” fenomenologiche che sono proprie di una vita alienata: l’attivismo inconsulto e l’inerte “guardarsi vivere”; l’omologazione che massifica e tende a ridurre gli “io” a uno zero; la perdita del significato a cui si arriva a forza di guardare le cose e i nostri simili solo con l’occhio di una ragione strumentale, attenta a usare gli esseri e non ad apprezzarne il valore; lo sbriciolamento del nostro tempo, la fuga da sé stessi, la vertigine e la nausea del vuoto spirituale.

Due sono le forme di esistenza che sono alla base di ogni nostro atteggiamento: da una parte, c’è una vita alienata, e quindi un tempo sprecato; dall’altra, una vita di cui ci riappropriamo a ogni istante e dunque un tempo ritrovato. «Fa’ – dunque- mio Lucilio, quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va»[1]. Per fare ciò che consiglia il filosofo spagnolo al suo discepolo, prende in esame la tripartizione di passato, presente e futuro. Il passato è sottratto al dominio della fortuna e può essere da noi rivisitato nei suoi momenti più significativi, anche se dolorosi. Abbiamo bisogno, infatti, di interrogarci sul nostro passato, per mettere a profitto del presente e del futuro la lezione dell’esperienza. All’insensato e al malvagio, però, il passato è molesto, perché ridesta in essi un senso di colpa messo accuratamente a tacere. Ma fingere che il proprio passato non esista è ancora un modo per fuggire da sé stessi; del resto non c’è redenzione possibile senza pentimento, e dunque, senza un giudizio sul male compiuto. Giova immensamente, invece, all’animo ricordare, e spesso, i benefici ricevuti. «Memoriam gratum facit»[2]. Un individuo e una società che non abbiano coscienza della loro storia, sono senza radici e, dunque, in balia di impressioni del momento e di pulsioni istintive; né può esserci vera cultura senza conoscenza dell’eredità che ci è stata trasmessa. Bisogna, però, evitare sia l’assenza di memoria storica, sia la fuga all’indietro, che è tipica dei laudatores temporis acti, inguaribili nostalgici di un passato che non è mai esistito e che non si vuole effettivamente conoscere, ma in cui sicerca un riparo per le proprie illusioni. Anche al futuro ci si può rapportare in maniera patologica, sacrificando ad esso la serenità da conquistare oggi e gli impegni concreti da adempiere giorno dopo giorno. È molto diffuso l’atteggiamento di chi vive fuori di sé perché totalmente preso dall’ossessione del futuro, ardentemente temuto o sperato. Seneca, però, tiene a distinguere dall’assillo di ciò che ancora non è, e che potrebbe anche non esserci mai, l’esercizio della capacità razionale di collegare fenomeni e avvenimenti in modo da prevederne, entro certi limiti, i possibili sviluppi e gli esiti. L’uomo, insomma, è pur sempre un essere capace di progettare e di lavorare alla costruzione del futuro per sé e per i suoi simili. È bene poi esercitarsi a prevedere – Tacito[3] racconta che Seneca praticasse addirittura di esercizi di praemeditatio futurorum malorum [4] – soprattutto le avversità più dolorose, e in primo luogo la morte. Soffriremo di meno, o non soffriremo affatto, se esse non si abbatterannoa sorpresa su di noi [5]: «Perché non ci immaginiamo nessun male prima che esso avvenga, ma come se noi ne fossimo immuni e percorressimo la nostra strada più tranquillamente di altri e non ci accorgiamo, dalle altrui disgrazie, che esse sono comuni a tutti»[6]. Passato e futuro non si dissolvono, dunque, nel nulla del “non è più” e del “non è ancora entrato nell’esistenza”: essi esistono perché esiste colui che li pensa e perché il ricordo e l’attesa sono presenti allacoscienza di un io. Tutto riconduce, quindi, alla realtà vivente e pensante di quell’io che, essendo qui e ora presente a sé stesso, può ricordare ciò che è stato, quod fuit, e prevedere o preparare ciò che sarà, quid futurum est[7]. Tuttavia è proprio riguardo al presente, più ancora che al passato e al futuro, che l’uomo non sa rapportarsi nel modo giusto. Il più grave e diffuso atto di irresponsabilità nei confronti del presente è l’incredibile, sconsiderato spreco di esso: «Mi stupisco sempre quando vedo alcuni chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse niente lo si concede»[8]. Come l’uomo si lascia derubare del presente dagli altri e come egli stesso lo sprechi, Seneca lo ha descritto in pagine memorabili. Molti sono i modi in cui la stoltezza si manifesta, ma il denominatore comune è e rimane sempre lo stesso: la dissipazione della propria esistenza attraverso la perdita di quel tempo di cui dovremmo, invece, assicurarci il possesso.

Ed “occupare il tempo” con ciò che non porta ad una crescita interiore è “perdere tempo”: gli “affaccendati” sprecano il loro tempo e si accorgono di ciò solo nel momento della malattia o della morte: «Però quando qualche infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne fossero tirati fuori!» [9].

Ma anche gli “sfaccendati”, che hanno il loro “tempo libero”, occupandolo in attività inutili sono, in fondo degli “affaccendati”, appunto, in cose inutili, con le quali “sprecano” il loro tempo: «Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolati da tutti, sono fastidiosi a sé stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi … Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbie-re, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell'ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po' disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? … Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose … Sento che uno di questi delicati - se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana -  trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: "Sono già seduto?". Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo» [10].

Ed è unica la via per trasformare il tempo in un bene tangibile e fecondo: solo la riscoperta dell’interiorità e la socratica “cura dell’anima” possono farci uscire da uno stato di alienazione e restituirci finalmente a noi stessi: «Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda, perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito. Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo» [11].

Allora il tempo – passato, presente, futuro – non fa più paura:«È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita»[12]. Il passato non è più da temere perché è stato vissuto bene, o è redento dalla consapevolezza dell’errore e dalla sua espiazione; e al futuro l’uomo saggio e buono può rivolgersi. E il presente? Il presente diventa quello che i greci designano col termine kairós e Seneca, rende con tempus captatum, afferrato a volo, al giusto momento: un tempo, quindi, su cui letteralmente bisogna saltare addosso: «“… ma quando si presenta l'occasione a lungo attesa, bisogna balzare su prontamente»[13]. Ci vuole, però, una coscienza desta e una volontà tesa per trasformare le circostanze in materia e strumento di iniziativa morale. Qui non si tratta solo diaccettare con coraggio l’inevitabile, cosa che pure ha grande importanza, ma di lasciar spazio alla creazione di una vita più alta che prima del nostro agire non c’era.

E questa “missione interiore” dell’Uomo costituisce l’unica e sola ragione di vivere. Vivere, non sopravvivere o trascorrere il lasso di tempo dalla vita alla morte.

Note: [1 Seneca, Ad Luc. 1, 2 [2]“La memoria fa riconoscente” - Ben. 3, 4, 2 [3]Ann., XV, 62 [4] La previsione di mali futuri, di cui già aveva parlato Antifonte (technealypias), in questo duramente confutato da Euripide (Al., vv. 779 ss.) [5] Seneca, Ad Luc. 46, 33-35; 78, 21; 107, 3-4 [6] Seneca, Ad Marc. 9, 1 [7] Seneca, Brev. 10, 2 [8]“” ibid. 8, 1 [9] Seneca,  Brev., 11, 1 [10] Ibid., 12.2-7 [11]  Ibid., 11.2 [12] Ibid. 10, 5 [13] Seneca, AdLuc. 22,6.   Luigi Morrone

Roma e il Platonismo, la sfida interiore di Casalino alle tenebre – Paolo Casolari

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Nel suo ultimo saggio, Sigillum Scientiae, l’autore ci consegna un vero percorso guidato sulla via del risveglio

Non aspettatevi il classico saggio filosofico monografico alla Giandomenico Casalino: condensato, poliedrico e sapientemente raggomitolato nei concetti, da sbrogliare e assaporare a poco a poco, con pazienti riletture (e medio-alte conoscenze). Quest’ultimo libro ha un taglio diverso e più agile. Non per questo il livello si abbassa; grazie infatti al modello editoriale proposto - la raccolta di interventi col medesimo filo conduttore osservato da diverse angolature - il libro riesce nell’intento di offrire un fascio di linee di vetta che pagina dopo pagina si depositano, decantano e si trasformano in un accompagnamento iniziatico del lettore sulla via del risveglio. E anche chi è a digiuno di filosofia può affrontare il cimento: 150 pagine in tutto, che si bevono con il piacere di una birra fresca nell’arsura dell’anima.

Il volume s’intitola Sigillum Scientiae - l’essenza vivente ed ermetica della Romanità e il Platonismo (pubblicato per i tipi di Arcana, con l’introduzione di Luca Valentini) ed è tripartito in proemio, una corposa prima parte e una breve seconda parte a chiudere. Si svolge tutto in un crescendo di squarci sulla Tradizione indoeuropea, sul disastro della Modernità e sulla via da seguire, una Weltanschauung, per uscire dalla secche dell’odierno deserto spirituale e per ritrovare, nei fondamenti, anche reconditi, della Romanità e del Platonismo, un rinnovato senso dell’esistenza e dell’agire.

Già nel Proemio si intende il tono del saggio. Nel capitolo sulla Visione spirituale e l’Ideologia moderna l’Autore delinea senza mezze parole la cifra di Chi Siamo e la cifra dell’Altro, leggi l’abisso progressivo in cui siamo precipitati a partire dal Protestantesimo sino all’odierno Genderismo dell’indistinto sessual-genetico, passando per la Rivoluzione francese, il Bolscevismo e il Globalismo. Ma è nel successivo Bando che si delinea il peso della sfida che ci attende: se le tenebre avanzano la strada è la consapevolezza, la tensione sempre alta e ferma, nonché la battaglia, anche in solitudine, nella costruzione di limes quotidiani, nella consapevolezza che l’infezione settaria instillata del nostro mondo è l’arma più sottile in mano al nemico.

Poi, ecco aprirsi l‘orizzonte del pensiero: tutta la Prima parte del saggio è dedicata a tracciare l’affresco di chi siamo noi, ovvero la Tradizione classica e la Filosofia platonica. Perché la filosofia nasce in Grecia, perché il diritto nasce a Roma, cosa significa visione asiatica, deserto, talassocrazia e come mai questi concetti sono applicabili oggi per leggere la contemporaneità. Così Casalino delinea, con poche ma essenziali pennellate, la spiritualità indoeuropea, il significato del rito, di libertà ed equilibrio, la concezione organica della comunità e le Radici spirituali dell’Europa. Particolarmente illuminante il capitoletto che segue sull’Epifania di Roma dove l’Autore ha l’intuizione, per primo nel suo campo, di chiarire compiutamente la scaturigine di quella che è l’essenza dell’Urbe: il concetto di Pubblico (da cui poi il Diritto tout court e la Res Pubblica come prima forma del politico e di bilanciamento dei poteri). Ebbene Casalino lo spiega con la rivoluzionaria, per allora, doppia inversione del significato di “privato” e di “pro-fano” - ancor oggi incompresa dai più, ma straordinaria nella sua semplicità - che l’irruzione di Roma impose al mondo, capovolgendo il corso della storia. Una rivoluzione che oggi, incredibilmente, si ripropone di nuovo, ma parimenti invertita di 180 gradi nei suoi fondamenti (e che qui non anticipo per non togliere il gusto della lettura).

Il testo procede con due approfondimenti di sapore esoterico sulla Natura della Romanità - la via eroica al sacro e l’ascesi dell’azione - e l’Origine della Romanità, sull’oggettivismo ermetico del jus e del rito, che accendono i riflettori sul significato dell’agire nella storia, del plasmare la storia e del “voluto come dato”, passaggi necessari per capire lo spirito degli Antenati e le ragioni della mancanza di miti a Roma. Si passa poi a Platone, al suo Alcibiade Maggiore che ci racconta perché tutto si risolve nell’anima e al Timeo che, riletto oggi alla luce della fisica dei quanti, consente addirittura di balenare l’identificazione dei campi gravitazionali con la Chora, con tutte le conseguenze - invalidanti - che ne derivano per le scienze sperimentali. Dopo una digressione di nuovo esoterica su Kremmerz e il mistero di Roma, è la volta di un altro caposaldo per capire la Romanità: la differenza tra sacer e sanctus, ovvero cosa comporta affrontare “le forze nude e pure” fuori dalla quotidianità del rito, che invece consente il loro riconoscimento e l’identificazione. Qui in Casalino esce il fine giurista: Sacer è un campo delimitato, inviolabile, sotto al protezione degli Dei (mons sacer); sanctus è il perimetro che questo campo circoscrive (murus sanctus), reso tale e ordinato dalla parola e dal gesto. Per questo Remo è ucciso da Romolo, punizione molto più grave rispetto a quella che colpiva i violatori di luoghi sacri, che erano consacrati agli Dei inferi e banditi dalla comunità. Tutto ciò - scrive l’Autore - spazza via lo sciocchezzaio moderno sull’ambivalenza del sacro, essendo quest’ultimo una dimensione invisibile, ma reale e al massimo grado di potenza, del mondo. E lo conferma tra le righe, aggiungiamo noi, anche il grande Virgilio, quando nell’Eneide descrive la fine di Turno, ucciso sì da Enea ma per aver perso di colpo le forze a causa del suo contatto irrituale col divino, rappresentato dal cippo votato a Terminus, imprudentemente svelato.

Tornando ai capitoli, non poteva mancare il riferimento a Evola e alla quaestio della scelta delle Tradizioni, che Casalino ricorda non essere nostra ma del demone avuto in sorte, il quale ha già scelto ciò che dobbiamo fare e come operare per ricordare il divino che è in noi. La scelta delle Tradizioni è quindi la scelta del Dio che sceglie se stesso. Casalino sottolinea come Evola identifichi tre strade tradizionali per restaurare la regalità divina: la via ultrasecca/ascesi dell’azione/via romana al sacro, la via secca/ascesi della contemplazione/via platonico ermetica al sacro, la via umida/estasi passiva/via egualitaria al sacro, che anticipa già l’approccio cristiano. Una via quest’ultima, femminile, lunare, mediterraneo-orientale, ben rappresentata in antico dal Pitagorismo, che tanta fortuna conobbe con la sua caratteristica di matematizzare il mondo e condurre ad una religiosità fredda e lunare, propria delle gradi civiltà semitiche (Caldei, Babilonesi, Ebrei e Arabi) e in decisa opposizione alla luminosa spiritualità indoeuropea.

Uno spartiacque primario, dunque, che l’Autore ritrova nella qualificazione dei misteri da parte di Aristotele: ouk mathein, allà pathein. Dove mathema, la Conoscenza, è Occidente ed Europa, Roma e Apollo, pathema, l’emozione, è la psiche, l’acosmico giudaico-cristiano, la fede, la passione senza conoscenza. E’ nel pathein che Casalino individua, e spiega, il nucleo fondante dell’attuale concezione materialistica e dell’economicismo indifferenziato della modernità. Sempre con l’obiettivo di illuminare sulla interpretazione (e la dimensione) dell’attuale sfida, l’Autore affronta poi il tema dell’inesistenza dell’attuale dualismo anima/corpo nella concezione indoeuropea e parimenti della potenza che questa unitarietà esprime. E accompagna il lettore a scoprilo, motivando sul perché i greci non conoscessero la parola “materia” o la parola “corpo”, ma solo quella di cadavere (soma) e perché i romani non edificassero necropoli, ma città per i vivi.

Prosegue ancora Casalino aiutandoci a comprendere la radicale differenza tra le due modalità principali di pensiero, più volte ricordate, presenti anche in Hegel e Guenon: il primo con la visione indoeuropea, il secondo con quella acosmica e asiatica. L’autore qui torna con un suo cavallo di battaglia, battendosi per una interpretazione (ancora minoritaria nella critica) di Hegel come platonico. Per Casalino, infatti, Hegel sa che la verità è la realtà dell’atto in cui essenza coincide con l’esistenza, che è il risultato dell’apparire come nella sapienza greca. Nella spiritualità indoeuropea la polarità è rappresentata sia dal visibile, sia dall’invisibile, che sono manifesti da sé. Per Guenon, invece, il Vero è il non manifesto, il mondo è apparenza, zero: da qui la fede dualista e l’impotenza dell’Intelletto a conoscere l’Assoluto. L’origine di tale visione proviene dall’Oriente, ma è all’origine del dualismo moderno che ci cela la possibilità del “risveglio”. Da qui la successiva confutazione della tesi sull’immortalità dell’anima, intesa come semplice sopravvivenza personale dell’anima: nella visione indoeuropea il soggetto come individuo non è pensato e ciò che è eterno in esso ha a che fare con l’oggettività dello spirito, che è  riflesso del principio divino, mentre è con Agostino che nasce l’io moderno come soggetto singolo, Ego, anticipando Cartesio e il soggettivismo moderno.

Ma chi è dunque l’uomo indoeuropeo al quale rifarsi? Lo spiega l’Autore nell’ultimo capitolo della prima parte. Oggi l’uomo, dopo aver conquistato la libertà, ha perduto la universalità della coscienza e la stessa si è ridotta al piccolo io che crede di decidere e, convinto di essere autonomo, guarda con sufficienza all’Uomo Omerico/Vedico/Romano che (si) considera schiavo degli Dei. Ma è proprio quest’ultimo che è l’Uomo Cosmico, aperto al mondo, serenamente consapevole della sua essenza divina, lungi dal sentirsi schiavo, possiede la convinzione ferma di essere un tutt’uno con l’Universo, Uomo di Luce che considera  Spes, Fides, Felicitas e Concordia potenze spirituali e non solo sentimenti e non necessita di iniziazioni e misteri. E’ quindi l’inganno catastrofico della Modernità che impedisce di vedere tutto questo e che ci fa credere che l’Idea del Mondo provenga da “fuori”.

E arriviamo alla conclusione del libro, che l’Autore chiama Seconda parte: Sigillum Scientiae. Siamo alle chiavi di volta, di natura religiosa ed ermetica, per superare la Modernità. Roma e Platone. Casalino qui evidenzia, come ha già fatto nel suo dirompente “Il Nome segreto di Roma”, la dimensione profonda dell’Opera eroica romana (ermeticamente intesa), raffrontando analogicamente la dottrina alchemica descritta nella spirale di Stefanio con la metastoria di Roma e del suo mito, costruito da uomini, templi e leggi realizzati per mezzo della Virtus necessitante del rito. Una veduta che corrisponde all’insegnamento di Plotino, degli Stoici e, soprattutto, di Platone, il cui insegnamento è veramente di natura magico sacrale. L’idea, per il fondatore dell’Accademia, non è frutto del pensiero ma Ente eterno più vero e concreto di ciò che crediamo di conoscere coi sensi. Non differente è il Sapere indoeuropeo dell’Intero, che è il Vero. Sapere che riappare nella corrispondenza ermetica Astri/Numi/Metalli, sia nel macrocosmo sia nel microcosmo. Pertanto per l’Autore il platonismo, realizzato nella Res Publica Romana, è l’unica scienza sacra di tutte le civiltà che lo rende centrale per il destino della Civiltà europea e di stringente “modernità” se pensiamo all’analogia tra il suo momento storico e quello attuale e la somiglianza tra la crisi spirituale dell’uomo greco, cui Platone di rivolgeva, e quella di oggi.

Ecco dunque: abbeverarsi alla fonte di Mnemosine, non bagnarsi nel Lete, sono i fondamenti che Casalino, nel suo solito stile estremo e definitivo, ci consegna con questo suo saggio regalandoci l’avvertenza che soltanto il faticoso cammino nei sentieri dell’anima può farci ri-cordare l’Apollo che c’è in noi e permetterci l’uscita dalla caverna in cui siamo, inconsapevolmente, confinati.

Paolo Casolari

Paolo Casolari è un giornalista professionista e saggista. Autore di “Roma dentro” (MMC Edizioni, 2013), L’Anima muore di sera (Irradiazioni 2006), Saturnia Tellus (Edizioni L’Orbicolare, 2004). Dirigente del Movimento Tradizionale Romano, curatore del sito www.saturniatellus.com. Cultore della Tradizione romana e della storia militare italiana del ‘900.

Pietas et Religio (sive Superstitio) – Elio Ermete

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Gli antichi romani sostenevano una forte distinzione tra pietas e religio, considerando le due cose di per sé in maniera alquanto differente rispetto ai nostri concetti di pietà e religione. La pietas romana è il rispetto della tradizione, delle regole del diritto sacro che sancisce la pace tra gli uomini e le divinità. Colui il quale rispetterà i giorni sacri del calendario romano, osservando diligentemente la rituaria preposta e le regole è un pio. Chi invece svolgerà un’ecatombe per far piacere agli dei, quando questa non fosse prescritta, egli sarà tacciato di religiosità, allo stesso modo chi non dovesse rispettare i dettami prescritti dal diritto sacro verrà considerato un empio (1). Il religioso è visto dal romano come un superstizioso, perché in realtà gli antichi sanno benissimo che le divinità altro non sono che una proiezione che nasce da noi stessi. Certo è difficile dire chi realmente avesse una coscienza culturale del sé a Roma, ma rimane ovvio che i dettami del diritto sacro davano la completa possibilità di comprendere gli arcani più alti. L’uomo pio è un tipo morigerato, egli divide la sua vita tra la famiglia, il lavoro, la pietas e l’attività civica. Nella casa vi è un angolo molto intimo, dove il pater familias svolge i doveri rituali a lui assegnati, rispettando le regole del culto gentilizio cui appartiene. In questo angolo è posto il larario, la riproduzione di un tempio o di un’edicola in piccole misure, dove collocare all’interno le immagini e le figurine degli antenati e degli dei onorati dalla famiglia (i Lari e i Penati). Sempre in quest’ angolo è solitamente posto un tripode o un braciere, per accendere il fuoco in cui si gettano le offerte per gli dei: questi pare che si manifestino nella fiamma stessa e che attraverso di essa comunichino e abbiano contatti con gli uomini.

Il rito viene svolto al mattino, quando il Sole/coscienza si eleva nel cielo. L’apertura viene effettuata a Giano, si svolge la preghiera alla divinità del luogo o della casa (spesso i Lari e gli antenati) e si esegue poi il rituale prescritto, non tralasciando la salutatio alla divinità gentilizia e al proprio Genio. La chiusura può essere preceduta o meno da una formula piacolare che permetta di non scontare colpe nell’eventualità di errori accidentali durante il rito. L’apertura prevedeva il beneplacito del dio che presiede alle porte di ogni cosa (2), l’antico Giano, il dio bifronte che fa si che l’uomo esca dal caos della vita materiale per entrare, durante il rito, nella sintonia con gli dei affinché essi lo ascoltino. Perché non interferisse al risultato del rito, e permettesse la comunicazione coi divini, ci si propiziava anche la genialità del luogo. L’intelligenza del luogo potrebbe essere anche uno spirito elementare (degli elementi) come un elfo, uno gnomo, un nano, o una ninfa. Comunque sia l’intervento di questi è necessario perché non si manifestino similnature astrali, cioè entità che si spaccino per la divinità che noi cerchiamo di evocare. Così come la divinità è presente in noi, lo è anche fuori, ed essa è un’energia della natura con una specifica funzione. L’orazione alla genialità della propria gens avveniva solamente dopo essersi assicurati i primi beneplaciti. Ma perché eventuali risultati non restassero infruttuosi, ci si assicurava anche alla propria divinità, che presiede allo sviluppo personale, affinché non si opponesse a fenomeni di luce psichica derivanti dall’operare i misteri di Ercole cosicché, se la si conosceva (e solamente gli iniziati sono in grado di conoscere il proprio Genio), le si chiedeva d’esser propizia in cambio di un grano d’incenso o di quanto altro le aggradasse. E per riconfermare la volontà del beneplacito divino si chiudeva con la detta formula “ciò sia buono e fausto. Così è”. L’ita est, a differenza del “così sia” cristiano non è una speranza di buoni auguri, bensì è la certezza dell’aver operato nel giusto e dello aver seguito i dettami della pietas. Certo il pio non è solamente colui che comprende le leggi del diritto sacro, ma lo è pure colui che le mette in atto anche senza conoscerle, essendo queste una conquista di consapevolezza personale. Lo svolgere il rituale, perfino senza comprenderlo nei suoi significati ermetici, è pietas; il cambiarlo sulla base del sentimento mistico è religio, e la religio è superstitio, poiché la religione lega due volte (re-ligo = ri-lego = lego ancora) quella che è la reale essenza delle cose e quello che è il sapere mantenuto dalle alte caste sacerdotali che l’alimentano. La legge si comprende solamente quando vi si entra in sintonia purificandosi da tutto, non solamente dalle impurità, ma anche dalle impressioni assorbite sul corpo lunare, come per esempio le convinzioni religiose, che ci legano alla coscienza razionale impedendoci di spostarla sul cuore, dove Anco Marzio ci farebbe dono di comprenderla. I sacerdoti assegnavano ai gentili le pratiche da eseguire, se questi operavano secondo i dettami, piamente, raggiungevano la purificazione dell’anima ed erano poi in grado di raggiungere diversi livelli di consapevolezza e di comprensione delle cose. Ovviamente tali pratiche potevano essere sostenute solamente rispettando le regole del diritto sacro: nei determinati giorni prescritti, astenendosi da Venere il giorno precedente e seguendo un eventuale regime alimentare prescritto, come ci insegna anche Macrobio nei “Saturnalia”.

Il Tempio

Il Templum romano è un luogo di contatto tra l’umano e il divino. Esso è un quadrato, forma geometrica derivante dall’idea (ripresa anche dai pitagorici) di riordino dei quattro elementi della natura. Ogni lato del quadrato indica uno degli elementi della natura separati e distinti, e lo spazio che esso circonda è permeato dal rimanente quinto elemento (3), essenza che permette il contatto tra il mondo umano e divino. Per tale sua qualità il templum in terra veniva usato dagli auguri per la tratta degli auspici, i messaggi divini interpretati sulla base del volo degli uccelli. All’università di Roma “La Sapienza”, l’archeologo Andrea Carandini, così come l’epigrafista Silvio Panciera, hanno svolto alcuni studi su tali pratiche antiche. Grazie alle fonti si conosce il modo di svolgimento dell’augurio, ma non erano risaputi i valori d’interpretazione fin quando non si è ritrovato un templum in terra con nove cippi, uno al centro indicante il sole ed altri otto delimitatori indicanti i principali punti cardinali. Nella mostra di Andrea Carandini sulla fondazione di Roma, svoltasi nel 2753 ab urbe condita nelle terme di Diocleziano, è stato ricostruito l’esempio di un templum augurale con la riproposizione rituale della tratta auspicale. Al templum in terra corrisponde un analogo templum in coelo: esso è il riflesso del primo, ed è la porzione di cielo nella quale si manifestano i segni divini, interpretati dall’augure. Gli auspici venivano consultati dai magistrati prima d’intraprendere qualunque decisione importante ed ogni qual volta dovessero passare la linea del pomerium, limite tra l’imperium domi e l’imperium maius, quindi prima d’intraprendere campagne militari o di svolgere funzioni politiche in città; similmente altre volte si consultavano i libri sibillini. Tito Livio ci tramanda che Numa Pompilio, prima di assumere la carica di re, avesse tratto gli auspici per mezzo di un augure:

“fatto venire a Roma, come Romolo nel fondar la città aveva assunto il regno dopo aver tratto gli auspici, così volle che anche per lui si consultassero gli dei. Onde fu da un augure […] condotto su la rocca e fatto sedere sopra una pietra, volto verso il mezzogiorno. L’augure sedette alla sua sinistra, con la testa velata e in mano un bastoncino adunco senza nodi, che fu chiamato lìtuo. Indi, poiché, abbracciate con lo sguardo la città e le campagne, e invocati gli dei, ebbe segnato lo spazio da oriente ad occidente, e proclamate fauste le parti verso mezzogiorno, infauste quelle verso settentrione, determinò mentalmente innanzi a sé un punto, il più lontano a cui potessero giungere gli occhi; allora passato il lituo nella mano sinistra e imposta la mano destra sul capo di Numa, così pregò: Iuppiter Pater, si est fas hunc Numam Pompilium, cuius ego caput teneo, regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines, quos feci. (4) Enunciò poi gli auspici che desiderava ricevere, e avutili, Numa discese dal luogo augurale proclamato re”. (5)

L’esempio qui riportato, tratto dalla storia di Roma di Tito Livio, ci fa comprendere la funzione del templum in terra e del templum in coelo, nei cui limiti si esprimono gli dei. Ma il templum può essere usato in altri modi, per qualunque altro rituale da qualunque sacerdote. Ai profani è vietato entrare nei quadrati inaugurati, appunto i templi, poiché con le loro impurità potrebbero contaminarlo e fargli perdere la sua funzione magica. Fra il tempio architettonico e quello augurale, un semplice quadrato recintato, non esiste nessuna differenza, se non quella che il tempio architettonico si trova sempre su un podio rialzato e che in questo, a causa della presenza delle mura, non è possibile sedersi e volgere lo sguardo all’orizzonte per poter trarre gli auspici. Ma nei templi architettonici l’interpretazione del consenso divino avviene in altri modi, di efficace interpretazione quanto per gli auspici. Gli aruspici erano in grado di leggere il futuro tramite le viscere delle vittime sacrificate per i banchetti rituali. Su tale arte sacra ritorneremo più avanti. Il tempio è quindi un luogo fisico di contatto colle dimensioni supere ed infere. I templi dedicati ad Ade si trovavano a ridosso di grotte o in ambienti semi-ipogei. La cosa non dovrebbe sorprendere e l’osservazione nostra non deve fermarsi sulla semplice e superstiziosa convinzione del contatto con le entità che abitano l’interno della terra o degli inferi: questi luoghi non esistono nella nostra realtà esterna, bensì in un mondo secreto difficile da percepire e da penetrare, ma tale dimensione è più vicina a noi di quanto possiamo pensare: Ulisse trova facilmente una porta per andare a sacrificare un ariete nero agli dei inferi. Oltre ai luoghi fisici, creati nei luoghi dove gli dei hanno manifestato i loro favori, vi è una creatura nella natura capace di penetrare il mondo secreto, che è permeata dall’essenza divina attiva più di quanto la nostra mente o i nostri sogni possano immaginare; questa creatura è il punto d’incontro tra il pan e gli astri divini più alti e più lontani dal nostro pianeta, invisibili perfino ai nostri telescopi, ella ha in sé la potenzialità dell’androginato e del divino per eccellenza: questi è l’uomo. Con le sue capacità di adattamento e di modificare la natura circostante perché a lui si adatti, l’essere umano è stato considerato dagli antichi la creatura perfetta, l’eccellente creazione degli dei olimpici, la potenzialità del divino. Ed è sull’uomo, da quanto ci tramanda Vitruvio nel suo De Architettura, che l’ordine dorico basa le sue proporzioni, così come invece il più leggiadro, snello e delicato ordine ionico basa le sue proporzioni sulle dimensioni della donna, meno imponente dell’uomo nel suo corpo(6). La necessità, quindi, di rendere il luogo dove presiede il divino perfetto, ha fatto sì che gli antichi trovassero la perfezione nell’essere dominante per eccellenza la natura.

Oltre ai sacerdoti, nei templi romani potevano entrare anche i senatori, i quali erano liberi svolgervi riunioni e prendere decisioni alla presenza delle divinità. Un consiglio di guerra si sarebbe facilmente tenuto nel tempio di Marte, poiché l’esperto per eccellenza in questo campo, avrebbe giustamente ispirato coloro i quali si fossero riuniti nella cella del suo tempio. Così fece ad esempio Cicerone, che dovendo disporre in difesa dei rodii, i quali nonostante la loro fedeltà a Roma rischiarono di perdere la propria libertà, decise di convocare il Senato nel tempio di Giove Statore, al quale dio, in precedenza Romolo fece voto d’erezione del tempio affinché i romani, durante la battaglia mitica svoltasi in città contro i sabini, non indietreggiassero ma mantenessero con orgoglio e fede la posizione. Allo stesso modo i rodii si mantennero fedeli a Roma, e chiesero al famoso oratore di prendere le loro difese: e proprio in quel tempio Cicerone convinse i padri romani della causa rodia con la famosa oratio pro Rohdiensibus. Come già accennato il tempio veniva fondato e dedicato ad una divinità nel luogo in cui questa si manifestasse, o tramite un’apparizione (epifania) o tramite un suo favore, come per esempio realizzare immediatamente la richiesta di un fedele. Altre volte i templi vengono fondati per la necessità di avere un luogo di contatto con le dimensioni superiori. Queste ultime sono ben descritte nel Somnium Scipionis di Cicerone. Per prima cosa, quando si decideva di erigere un tempio romano, un augure doveva esorcizzare il luogo da qualunque tipo d’impurità, per poi tracciare e consacrare il quadrato ove si sarebbe poi costruita la cella. Veniva quindi realizzata l’opera architettonica, sempre secondo dei criteri esoterici perché il luogo sacro portasse in sé simboli sacri. Il tempio poteva essere dedicato ad una o più divinità, e in questo si svolgevano i riti appropriati alle suddette, dai sacerdoti appositamente preposti. Fondazione rituale e organizzazione del tempio veniva decisa dai pontefici, detentori delle regole e delle leggi del sacro.

Esoterismo ed Exoterismo

Il termine esoterismo è di origine greca e viene ben spiegato da Platone il quale lo contrappone all’exoterismo. La parola ermetismo è il sinonimo più vicino al significato che Socrate volle attribuire a esoterismo. Ciò consiste nella reale interpretazione dei simboli, spesso manifestati nelle ritualità pubbliche, come nelle processioni delle Dionisie (7) o in quelle Eleusine, e sempre presenti nei miti. Il filosofo greco è molto sicuro di sé quando dice che i miti non sono per tutti. Un laico od un fervente cristiano, direbbero che la mitologia è cosa per bambini e, come hanno scritto molti storici delle religioni un po’ faziosi, che è solamente il prodotto di menti primitive e superstiziose. Certamente siamo tutti concordi nel dire che solamente delle menti primitive possano aver concepito dei sistemi sociali come la democrazia greca e la repubblica romana, certamente siamo tutti quanti concordi nel considerare primitive delle civiltà che sono riuscite a portare l’acqua nel deserto (8), quando oggi l’umanità non è in grado di affrontare la siccità perenne di alcuni luoghi del mondo odierno. Il diritto romano è la base del diritto moderno, la filosofia antica è stata la prima vera ricerca razionale che l’uomo abbia mai affrontato sulle cose che lo circondano e lo permeano ed esiste qualcuno che osa affermare che questi uomini siano stati dei primitivi…E la filosofia degli antichi non ha delle basi semplicistiche, poiché ciò che dicono i greci, cioè che l’uomo è formato da quattro elementi di base è verità pura: noi siamo fatti di “terra”, cioè di un corpo fisico; di “acqua”, cioè di un’anima che come i fluidi entra nei recipienti (i corpi fisici); di “aria”, cioè dell’intelligenza che è ancora più impalpabile dell’anima; e di “fuoco”, cioè dello spirito, che quando si manifesta in noi lo fa attraverso il calore… e così come ho potuto verificare personalmente, pertanto parlo per esperienza e non per cultura fatta, anche voi potete verificare autonomamente l’esistenza di questi corpi lavorando sulla vostra persona: svolgendo orazioni nei periodo giusti, astenendosi dai cibi e dalla venere quando è necessario, mantenendosi in un equilibrio esterno ed interno, porterà al momento in cui si risveglierà la coscienza dei corpi sottili, e potrete confermare a voi stessi che l’antico sapere del mediterraneo fosse permeato di verità, purtroppo poi travisate da coloro i quali hanno preferito la creazione di religioni servili, per poter meglio controllare il potere sul volgo… che vergogna! Uomini liberatevi, non rimanete nel significato exoterico delle cose, cioè in quello simbolico, come il calice del Cristo che conteneva il sangue del figlio di Dio… perché Ponzio Pilato dice: “preferite che io liberi Barabba… o Gesù il nazareno, figlio dell’uomo?” Ma non era figlio di Dio? San Giovanni sembra molto curioso quando gli chiede: “chi sei veramente ?” ed egli è molto esplicito nel rispondergli pressappoco: “io sono figlio di Dio, ed io e il padre siamo la stessa cosa, e voi siete i mie fratelli…”. Ecco il mistero ermetico…

Ogni simbolo ha dunque un doppio significato: uno exoterico, cioè per l’esterno, per coloro i quali non sono iniziati, ed uno esoterico, indirizzato a coloro i quali vengono iniziati ai misteri. Prendiamo qualche esempio banale. Romolo exotericamente rappresenta il bene e la giustizia nel dualismo universale, esotericamente rappresenta la prima delle sette rotae, il primo chakra degli yogi. Così Penelope exotericamente rappresenta la fedeltà coniugale, ma nella realtà ermetica delle cose, cioè esotericamente parlando, lei è l’anima pura che l’iniziato eroe deve ritrovare e riabbracciare, ma prima di ciò deve affrontare una sequela di prove. Allo stesso modo il viaggio di Odisseo rappresenta la ricerca della verità da parte dell’uomo, ma esotericamente l’Odissea, libro sacro della cultura greca (successivamente adottato anche dai latini per la sua estrema dovizia di particolari veritieri), rappresenta una serie di ritualità e di prove che l’iniziato/eroe deve affrontare, per potere realizzare la prima parte dell’opera. Tutt’ oggi esistono correnti esoteriche che diffondono verità per simboli celati, pertanto è necessario andare sempre oltre il simbolo, per poter penetrare la verità esoterica delle cose, percepibile solo nel mondo delle idee.

Note:

1 - Il figlio di Pompeo offrì un’ecatombe di tori a Nettuno sperando così di avere il favore nelle naumachie contro Ottaviano, ma la cosa non gli diede ampi risultati, poiché svolse il rito nel momento sbagliato, quando non era prescritto, forzando determinate energie e creando uno squilibrio che cedette di fronte alla potenza sprigionata dalla pietas di Augusto, suo fattore vincente nella lotta al potere di Roma.

2 - Il dio Giano potrebbe essere ben paragonato al S. Pietro dei cristiani, detentore delle chiavi del paradiso, e al guardiano della soglia degli steineriani;

3 - Motivo per il quale il tempio era definito abitazione fisica della divinità cui era dedicato;

4 - “Giove Padre, se è divino decreto che questo Numa Pompilio, di cui tocco il capo, sia re di Roma, voglia tu manifestarci sicuri segni tra quei limiti che io ho tracciati”;

5 - Tito Livio, Ab Urbe Condita, I, XVIII;

6 - Vitruvio, De Architettura, IV, 15.

7 - Le Dionisie erano le feste dedicate a Dioniso (particolarmente sentite ad Atene), durante le quali si svolgevano prima una serie di rituali pubblici ed una processione in cui venivano esposti i simboli sacri, come per esempio le viti in terra cotta e le erme e il cratere del vino. Si svolgevano poi una serie di attività culturali agonistiche di tipo teatrale, come cori, commedie e tragedie, dove originariamente venivano rappresentati temi inerenti al mito del dio.

8 - Si vedano città dell’impero romano come Palmira, o i numerosi centri sparsi nella Meseta spagnola, fornite costantemente di acqua grazie alle imponenti opere idrauliche che questi uomini “primitivi”(come vergognosamente vengono definiti dagli studiosi faziosi) erano in grado di costruire.

Estratto dal testo “Aspetti Esoterici nella Tradizione Romana Gentile”, di Elio Ermete. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione.

XX SETTEMBRE! – Ausonio (Massimo Chiapparini Sacchini)

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XX Settembre, torna il sorriso sulle labbra del Nume, immortale; le aquile di ROMA rinnovano il loro volo maestoso e l'anima di Marco Aurelio Valerio Massenzio trova, finalmente,. la Pace; in questo giorno gli epigoni di Costantino l'Apostata imparano l'amara lezione: in quel segno si può anche perdere! XX Settembre, secondo Natale di Roma, tu che hai restituito Roma agli Italici e gli Italici a Roma, per te, te aspettando sono morti gli Eroi del Gianicolo, per te ha pugnato il biondo leone d'Italia, novello Cincinnato. Fisso a te lo sguardo da Campo dei Fiori un martire muore esultando! Lontano, ma vicino nel cuore, il Gran Maestro De Molay benedice. Benedice l'italico gladio, vendetta del Medioevo templare e ghibellino, che l'infame rogo ha occultato, ma non poté piegare. SACRO XX SETTEMBRE !!! Chi ti disonora, chi non ti ama sangue d'Italia non ha nelle vene, Virgilio e Dante non per lui scrissero versi. E mai i suoi avi innalzarono gli occhi al cielo, pieno della gloria di Juppiter; mai videro il trionfo dei Cesari e il Fascio littorio annunziare l'incedere grave dei Consoli e l'apollineo Pentalfa risplendere nel cielo della mente. Ettore, Enea, e tu Romolo padre, liberate la Saturnia Tellus dai punici feroci, dai barbari nemici delle Muse, dai traditori della, tremo a pronunciarne il nome, tanto è solenne, PATRIA. VIVA L'ITALIA. Ausonio ovvero Massimo Chiapparini Sacchini in una poesia giovanile dalla rivista il Ghibellino n. 7/8, anno 1982 - 83

La Tradizione di Giandomenico Casalino: Romanità, Ermetismo e Platonismo – Giovanni Sessa

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Da tempo, i libri di Giandomenico Casalino si muovono attorno al significato ultimo del concetto di Tradizione. In questo sforzo va inserita anche la sua ultima fatica, Sigilum Scientiae. L’essenza vivente ed ermetica della Romanità e il Platonismo, da poco nelle librerie per la casa Editrice e Libraria edit@ di Taranto (per ordini: editaonline@libero.it, fax, euro 15,00). Il libro, una raccolta di saggi comparsi sulla rivista telematica EreticaMente, è impreziosito dall’ Introduzione di Luca Valentini. Questi esordisce sostenendo che la Via dell’autore “è quella sanguigna, eroica e solare della Tradizione di Roma, quale espressione marziale di una trasmutazione interiore” (p. 11-12). La definizione è, da un punto di vista generale, propedeutica all’effettiva comprensione dell’esegesi presentata da Casalino. Il libro muove dal Proemio, per svilupparsi in due ulteriori momenti. L’autore, preliminarmente, spiega il senso del titolo: il testo non fa altro che “sigillare” e custodire i principi della Scienza, e testimonia un’esperienza sofferta e vissuta di autentica conoscenza.

Nel Proemio, lo studioso leccese presenta, in modalità dicotomica, la visione del mondo tradizionale e quella moderna. La prima è qualcosa che va necessariamente “ri-cordata”, recuperata, in quanto consustanziale, da sempre, all’essere uomini. Consiste sostanzialmente nel riconoscere che microcosmo e macrocosmo hanno lo stesso logos, lo stesso ordine che è forma, cosmo, spazio ordinato da leggi e misure. L’uomo, dio mortale, può ri-conoscere tale ordine. L’ universo è ciò che tende all’Uno, che, sulla terra, si mostra nell’ordinamento giuridico-religioso e politico. All’ordine solare e virile si accompagna quello femminile, che preside alla funzione tellurica, riproduttiva, economica e, grazie ad Eros, congiunge la Terra al Cielo, unisce in Uno i due mondi. Sul piano macrocosmico, nel caos, abisso originario, penetra il raggio solare, principio della verticalità, obelisco divino che, illuminando la Caverna caotica, dà luogo al Cosmo. L’ordine politico tradizionale svolge la medesima funzione anagogica “ricondurre l’uomo quanto più possibile vicino al Cielo, verso Juppiter” (p. 18), come Roma seppe fare con Leggi e Rito.

A ciò si contrappone la visione moderna: individualista, utilitarista, economicista e materialista. Per Casalino la Modernità “è una progressione evidente di sovversioni che gradualmente hanno scardinato l’ordine tradizionale” (p. 23). Da ciò discende il compito prioritario assegnato ai combattenti dello spirito. Quanti si muovano in tale ambito hanno contezza, con Hegel, letto dall’autore quale estremo rappresentante della Verità platonica, che il Vero è l’Intero. La Tradizione, quindi, è viva non soltanto nell’Età dell’Oro ma anche in quella della Distruzione. In essa va “ri-cordata”, riportata nel cuore “la lucida e ferma mistica intellettuale apollinea, evitando tanto la deriva sacerdotale quanto il dionisismo cristianista” (p. 27). Mentre la concezione “asiatica” interpreta il mondo quale deserto, o mare senza limiti e confini, la visione pluralista indoeuropea, greco-romana, dà luogo ad una Città augēscens che espandendosi, non solo accoglie l’estraneo, ma diffonde se stessa, i propri valori e la propria visione del mondo. Roma ha illuminato il mondo con la concezione organica e gerarchica dell’Autorità. Nel sapere filosofico tale idea si è mostrata da Eraclito ad Hegel. In essi “la parte è vista quale ‘momento’ […] del viaggio verso il Risultato che è l’Assoluto cioè l’Idea” (p. 37).

Roma giunse, lungo tale iter, ad identificare la dimensione pubblica con quella sacra ed il privato con il profano. Ciò avvenne nel momento in cui, argomenta Casalino, gli abitanti dei villaggi sorti lungo il Tevere rinunciarono a concedere il primato religioso al fanum, il tempio locale, e al patres delle gentes, assumendo finalmente la coscienza di essere divenuti Populus “riconoscendo come propri gli dei poliadi[…]Juppiter, Mars, Quirinus” (p. 43). Allora nacque il Pubblico, che fu subito Sacro. Per questo i Romani seppero sollevare la moralità all’Eticità “con la spiritualità dello jus, divenendo Mos Maiorum, realtà metafisica […] sovrapersonale, sacra e quindi immodificabile ed indiscutibile” (p. 54). Roma si presenta con valore onfalico, Tradizione che consente il contatto divino-umano nel mondo e nell’eternità. Come riconobbe Giuliano Kremmerz, la Città Eterna realizza la realtà fenomenica in forza della sua Azione sull’Realtà invisibile, con un Atto dello Spirito attivo e magico “l’Ordine, il Fas che è la Divina armonia musicale si manifesta e si riverbera […] nel visibile come Jus: la coincidentia oppositorum, l’abbraccio ermetico degli Elementi dell’ Athanor è l’Impero” (p. 80).

Un simbolo domina l’esegesi di Casalino, più di altri: la Spirale di Stefanio. Essa è al medesimo tempo icona dell’universo, delle civiltà in espansione e della Via. La storia di Roma, in senso ermetico, si è realizzata agitando Mercurio e fissandolo in Marte, per giungere con guerre e conquiste, a Giove. A tanto riuscì Cesare che chiuse l’Età degli eroi. Quello di Cesare fu però Regno senza stabilità. Seguendo la Spirale, dopo Cesare ci fu la discesa nella regione lunare, e la successiva risalita a Saturno, Re della Prima Età. Augusto rifonda la Città. “E’ il ritorno di Amor, ‘sposato’, posseduto, dal puro principio apollineo[…] che è tale proprio per l’avvenuta riconquista di Amor-Venere” (p. 136). A dire dell’autore in Filosofia tale via è stata testimoniata da Platone, che riunificò momento Religioso e Conoscenza. Ciò permise di superare i rischi della sofistica e del misticismo orfico e il ripristino del cosmoteocentrismo ellenico Il Sapere platonico è così sintonico a quello ermetico per la corrispondenza tra “Astri-Numi-Metalli sia interiori che esteriori”(p. 143). Sapere riproposto a beneficio dai moderni da Evola e da Hegel. Esso si differenzia dalle riemersioni della matematizzazione del mondo, di origine pitagorica che, al contrario, Casalino ritiene essere la matrice “femminile” da cui sarebbe sorta la Modernità, come attesta il Discorso del metodo di Cartesio. Per Platone e la Tradizione sapienziale, invece, è solo la Dualità ad essere numero, mentre “il Tre[…] è l’Uno” (p. 93). Il numero platonicamente inteso è l’Indeterminato, l’hegeliana “cattiva infinità”. Questi, tra gli altri, alcuni dei plessi teorici presenti nel libro che ci auguriamo aprirà il dibattito intorno al pensiero di Tradizione.

Giovanni Sessa

Rex Mundi: Federico II, custode dell’Impero – Carlomanno Adinolfi

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In molti conoscono la Kyffhäuser Saga, la leggenda che vuole il Barbarossa dormiente nel monte della Turingia in attesa del momento propizio per la rinascita, quando i corvi voleranno intorno alla vetta annunciando il ritorno del Re, pronto per la battaglia finale per riportare la Germania al suo antico splendore. Ma non tutti sanno che, in realtà, questa leggenda dai contorni insieme odinici e arturiani nacque non intorno alla figura del Barbarossa bensì a quella di suo nipote, lo Stupor Mundi Federico II. La leggenda fu adattata in pieno romanticismo e risorgimento tedesco nel XIX secolo: il Barbarossa era infatti più adatto al sentimento nazionale e alla rinascita della Germania rispetto al nipote, la cui vita lontana dalla nazione tedesca lo rendeva meno digeribile ai combattenti per l’identità e unità nazionale germanica. La leggenda originale infatti non aveva a che fare con il risorgere della grandezza di una singola nazione, ma aveva un respiro molto più ampio annunciando la Renovatio di un principio universale: quello dell’Impero, Sacro e Romano e dunque sovranazionale.

Federico II Hohenstaufen è stato indubbiamente il sovrano che più di tutti ha incarnato, dopo Augusto, la figura del Sovrano Universale. Lo stesso termine “ghibellino” usato come seguace dell’Imperatore e dell’Impero Universale in contrasto con le pretese di sovranità temporale da parte dei papi, nasce proprio con lo Stupor Mundi, dato che prima di lui il termine veniva usato solo in ambito di disputa dinastica, indicando i sostenitori della casa degli Hohenstaufen, originari del castello di Weiblingen, contro i sostenitori della casata sassone degli Welfen, da cui in origine il termine “guelfo”, il cui ultimo discendente Ottone IV fu il principale avversario di Federico II per l’ascesa al trono imperiale.

La figura dell’ultimo grande sovrano degli Hohenstaufen fu ammantata di miti e leggende. Nato il giorno di Santo Stefano e quindi a ridosso del giorno di Natale, nella città di Jesi il cui nome ricorda quello di Cristo e partorito da una donna quarantenne, evento quasi miracoloso in epoca medievale, fu ben presto associato tanto a Cristo stesso quanto all’Anticrtisto. Eppure Federico fu il primo grande sovrano medievale a spogliarsi di tutta la simbologia cristica e messianica in voga nei re e negli imperatori di quei secoli. A differenza dei suoi predecessori che provavano tramite iconografia biblica e apocalittica a sottrarre al pontefice il ruolo di rappresentante di Dio sulla terra, facendosi raffigurare troneggianti e circondati da angeli e santi, Federico II fece emergere una nuova iconografia nascente dagli echi delle grandi tradizioni di Roma, degli antichi e mitici re germanici e dei grandi condottieri celtici che avrebbero ispirato il ciclo arturiano. Federico fu il primo dei grandi imperatori germanici, se escludiamo in parte la breve ma splendente parabola di Ottone III, a dare maggior peso al titolo di “Imperatore dei Romani” piuttosto che a quello di sovrano del regno germanico. E per Romani Federico faceva intendere ovviamente l’intero Orbe occidentale e cristiano. Anziché un Imperatore novello Cristo sulla Terra, Federico iniziò a farsi rappresentare sempre più frequentemente come Augusto redivivo. Questo risulta palese in una delle iconografie più importanti e diffuse dell’epoca medievale, quella numismatica. Federico fece coniare una nuova moneta aurea chiamata appunto Augustale che in uno dei due versi aveva il busto dell’Imperatore con il capo laureato, con chiaro riferimento ai Cesari di Roma. Anche l’Aquila Imperiale simbolo del Sacro Romano Impero fu trasformata da Federico che la modificò con l’aquila ad ali spiegate classica dell’iconografia imperiale romana. Sull’altro lato dell’Augustale campeggiava proprio un’aquila simile, così come nel mezzo denario della zecca brindisina e messinese. Anche nel far costruire il proprio monumento sepolcrale Federico fece una scelta chiara e consapevole, scegliendo una tomba di porfido rosso, quel Lapis Porphyrites di color porpora associato alla dignità imperiale dei Cesari. La figura dell’Imperatore come erede dei Cesari fu enfatizzata anche da un’opera storico-cronologica compilata a Firenze in cui venivano riportate le vite dei grandi imperatori partendo da Cesare fino ad arrivare proprio a Federico II. Gli fu anche associata una profezia della Sibilla che lo voleva come restauratore della Roma dei Cesari, ponendolo come ultimo nella linea di successione degli eroi della storia di Roma partendo da Enea.

Ma il grande Hohenstaufen andò anche oltre l’iconografia cesariana e augustea. In numerose occasioni i figli Corrado e Manfredi si riferirono a lui come manifestazione del Sole, riprendendo la tradizione pre-cristiana dei grandi Re che identificandosi con l’astro diurno affermavano il loro ruolo di sovrani universali, a partire dai faraoni egizi, tutti figli di Ra e incarnanti Horus, passando per i Re persiani e arrivando fino ai Cesari che da Augusto restauratore del Regno di Apollo presero poi a partire da Aureliano a identificarsi con il Sol Invictus. Il ruolo del sovrano-sole come luce e polo – come Apollo – dell’intero cosmo si ritrova anche nella stessa leggenda del re che, al giungere della notte del mondo, dorme in attesa di ridestarsi in un monte che svetta al di là del regno materiale. Chiaro il riferimento alla leggenda arturiana in cui il leggendario possessore di Excalibur non è morto ma si è “ritirato” dormiente ad Avalon in attesa della sua prossima venuta. Al di là dell’immagine messianica della seconda venuta di Cristo, quello del Re dormiente in attesa di essere svegliato, del Re ferito in attesa di essere guarito, questo è un tema che affonda le sue origini in un passato indoario molto antico che potrebbe trovare riscontri anche nel rito del Rex Nemorensis. Il riferimento è proprio quello di un principio immortale – il re non è mai morto, dorme – che deve essere restaurato, rinnovato – il re che va ringiovanito, o guarito o la sua spada spezzata che va riunita o il suo albero sacro, secco, che va fatto rifiorire – e che proprio in quanto principio immortale ha sede al Centro di tutto, nell’Asse cosmico, nella terra polare: per questo l’isola al centro del lago o del mare o la stessa Montagna Sacra, come nei casi di Artù e Federico. Lo stesso nome di Artù, da Arktos che vuol dire orso, rimanda alla simbologia polare dell’Orsa, l’astro attorno a cui ruota il mondo intero. E tutta la saga arturiana, nata proprio durante il regno degli Hohenstaufen, quando il Barbarossa da Magonza fece partire un nuovo mecenatismo sotto il vessillo imperiale che avrebbe fatto rifiorire la letteratura cavalleresca, è imperniata tutta sulla figura di un Re polare e sovrano universale.

Pur se nato nel contesto celtico-britanno della Cornovaglia, forse ispirato a un condottiero realmente vissuto nel VI secolo dopo Cristo, il mito arturiano per come fu codificato a partire dal XII secolo abbatte i limiti nazionali per divenire la saga di un Rex signore dell’intero Orbe e intorno a cui si siedono i cavalieri provenienti da tutto il mondo – la Tavola Rotonda chiaro emblema dell’intera volta cosmica, i dodici cavalieri come ipostasi microcosmiche dello Zodiaco – e a cui spetta di diritto, il calice del Sacro Graal contenente il Sangue Reale. Il mito di Artù, anche se cristianizzato con la leggenda del Graal come calice dell’Ultima Cena contenente il sangue di Cristo, segna in realtà il re-irrompere della tradizione pagana e pre-cristiana nell’immaginario medievale e fu non a caso utilizzato come “contro-mito” da parte imperiale contro le pretese dei papi che infatti cercarono sempre, da allora, di depotenziare il mito arturiano e del Graal facendo aleggiare intorno ad esso un sospetto alone di eresia. Federico II attinse a piene mani al mito arturiano tanto che sotto il suo imperio circolarono i Verba Merlini, profezie attribuite al celebre mago mentore di Artù che profetizzavano lo scontro tra la Roma imperiale e quella dei Papi con chiaro riferimento allo scontro tra Federico e Gregorio IX prima e Innocenzio IV poi. Impossibile poi non ricordare, oltre al mito postumo del suo sonno nel monte Kyffhäuser, la leggenda secondo cui in delegazione a omaggiare Federico venne lo stesso Re Pescatore, mitico custode del Graal, proprio a testimoniare il riconoscimento di Federico come Rex Mundi da parte del Principio regale-cosmico stesso. Sempre secondo la leggenda, il Re donò a Federico un anello capace di renderlo invisibile e quindi di portarlo al di là del mondo materiale trasportandolo in quello spirituale, da cui deriva la stessa Auctoritas imperiale. Anche il mito del Sangue Reale fu spesso utilizzato da Federico: gli Hohenstaufen vennero definiti stirpe divina il cui sangue imperiale era esso stesso divino, e in questo la diretta discendenza degli imperatori svevi da Enea, Cesare e dalla gens Iulia enunciata dalla profezia sibillina che circolava in quegli anni ebbe un ruolo non di poco conto. Il fatto stesso che poi Federico facesse raffigurare sui braccioli del suo trono non le solite figure apostoliche o angeliche bensì tutti i suoi predecessori, dimostra come egli volesse manifestare una trasmissione dinastica e “di sangue” tra i sovrani che sono tali non tramite intercessione papale ma che fanno derivare la loro Dignitas dall’autorità imperiale medesima che discende essa stessa dal Divino, senza intermediari.

Catalizzando tutto questo simbolismo su di sé Federico II ovviamente si spogliava della figura dell’Imperatore come protettore della Chiesa, come vicario di Cristo o come controparte del papa per diventare qualcosa di assolutamente nuovo e, simbolicamente, più alto. L’Imperatore diventa egli stesso una figura divina, al pari dei divi Cesare, Augusto e dei loro successori, Pontifex lui medesimo in quanto punta della piramide gerarchica sulla terra e quindi punto di incontro con il Cielo. Il Sovrano assoluto diventa il fulcro attorno a cui ruota l’Impero senza confini che abbraccia tutto il mondo, il perno intorno a cui gira la civiltà stessa e le vite degli uomini. Anche le famosissime costituzioni di Melfi del 1231, il cui codice fu chiamato Liber Augustalis con ovvio e rinnovato riferimento al divo Augusto, vanno lette in quest’ottica. In esse Federico riconosce nella Pace e nella Giustizia il “fondamento di tutti i regni” riprendendo tanto il concetto di Pax Augusta quanto il ruolo della figura indoaria del Cakravartî, il “signore di Pace e Giustizia” che garantisce la Legge come Ordine Cosmico (Rta), nonché quella della misteriosa figura biblica di Melchisedek, re del mitico regno di Salem e primo re universale della mitologia ebraica pre-mosaica nonché capostipite di una tradizione regale superiore e in qualche modo contrapposta a quella abramitica – che ne sarebbe una derivazione o una deviazione – e il cui nome vuol dire proprio “Re di Giustizia” mentre il nome del suo regno, Salem, secondo alcune tradizioni vuol dire proprio “Pace”. È interessante poi notare che proprio il nome Federico derivi dall’antico germanico Frithu-Rik che vuol dire appunto “Sovrano di Pace”. Le costituzioni di Melfi poi segnano un momento cardinale per la storia del diritto poiché pongono fine al dualismo post-ambrosiano e medievale tra il diritto divino che si evince dalle Scritture e il diritto umano, tramandato, mutevole, scaturito da abitudini claniche e tribali e comunque poco codificato ma pur sempre sottoposto al primo. Con il Liber Augustalis l’Imperatore sale sul vertice del mondo e diventa garante della “giustizia che emana direttamente dal Cielo”. Tramite la formula sempre presente nel codice Deus et Iustitia Federico annuncia al mondo un nuovo diritto, seppur mutuato dall’antico mondo pagano e soprattutto romano, per cui chi serve la Giustizia serve anche Dio e soprattutto radicando il principio per cui chi serve lo Stato in tutte le sue forme e nelle singole mansioni particolari non serve soltanto un regno terrestre ma compie la volontà divina, arrivando quindi nuovamente a identificare la Lex con il Rta e l’Impero con il Cosmo.

L’identificazione dell’Imperatore con il centro del mondo che garantisce un Ordine divino sulla terra ebbe una portata politica e spirituale senza precedenti. L’Impero di Federico II davvero non ebbe confini. Oltre ai regni cristiani vennero a rendergli omaggio anche delegazioni dal mondo orientale – forse la leggenda della visita del Re Pescatore nacque grazie a tali ambascerie – e noti sono i contatti con il mondo arabo, con la settima crociata, unica nella storia, ad essere risolta senza che fosse versata una sola goccia di sangue grazie al patto d’amicizia sancito con il sultano ayyubideMalik al-Kamil, nipote del Saladino, che garantì a Federico, oltre alla celebre armata di mercenari saraceni più volte decisiva nelle sue guerre, anche la corona di Re di Gerusalemme, considerata allora il centro del mondo al pari di Roma e che contribuì ancor più a dare all’Hohenstaufen l’aura di sovrano cosmico.

La sovranità universale di Federico si riversò anche sull’aspetto religioso. Il superamento della forma cristiana non si attuò solamente sull’iconografia e sulla politica: sono documentati i rapporti e i dialoghi filosofico- religiosi di Federico tanto con Michele Scoto, filosofo scolastico e dunque cristiano ma che fu anche astrologo e alchimista con fama di “mago”, quanto con il filosofo arabo IbnSab’in. Le sue domande sulla sopravvivenza dell’anima e il suo continuo ribattere polemico e spesso irriverente alle risposte dogmatiche dei sacerdoti cristiani e islamici furono usati come pretesto per dimostrare l’eresia o perfino l’ateismo dell’Imperatore che invece fu tutt’altro che “materialista” come volle la vulgata guelfa e filo-papale, ma che fu piuttosto un cercatore di una Unità trascendente e divina al di là delle singole forme particolarie dei dogmi, che per Federico erano mere superstizioni che ostacolavano la vera Scienza divina.

Questo fece nascere ulteriori dicerie e leggende che si intrecciarono con quelle sui Templari. In molti vollero Federico in rapporti segreti esoterici con l’Ordine del Tempio – ch invece ebbe rapporti travagliati con il sovrano che gli preferì sempre l’Ordine Teutonico – che si espressero soprattutto nell’architettura magico-simbolica di alcuni edifici tra cui il celebre Castel del Monte, sotto al quale si diceva che Federico intrattenesse, in una stanza segreta all’interno del monte il cui tetto era dipinto a imitazione della volta celeste, discorsi sapienziali con i più alti rappresentanti delle tre grandi religioni monoteistiche. Ovviamente l’intreccio di leggende templari e arturiane fece nascere anche la leggenda secondo la quale il sovrano custodisse egli stesso il Sacro Graal. Fu sempre Castel del Monte al centro di queste leggende. Il castello fu e resta un unicum nell’architettura medievale: tanto il luogo lontano dalle frontiere quanto l’assenza di soluzioni e meccanismi difensivi e soprattutto le scale che salgono in senso antiorario favorendo l’assalitore invece del difensore rendono palese che l’iconico castello ottagonale non avesse scopo militare. La complessa architettura basata su rapporti geometrici e matematici e direzionata scientemente secondo direttive astronomiche rendono il castello più simile ai templi pagani e agli antichi cerchi megalitici o alle cattedrali gotiche. Un edificio così particolare e dalla geografia sacra così palese non poteva che essere costruito per un motivo molto importante e fu ovviamente indicato come uno dei tanti luoghi in cui il Graal era custodito.

Leggende, ovviamente, che possono far sorridere chi sia convinto che il Graal non sia tanto un calice fisico quanto ciò che contiene: il Sangue Reale che riconnette al Principio e che pertanto non può essere qualcosa di materiale. Sangue Reale e Principio che sicuramente furono incarnati dal grande Federico, Rex Mundi, Imperatore a cui si possono tranquillamente applicare le parole dell’Artù del film Excalibur di John Boorman: “non ero destinato ad una vita umana ma ad essere l’essenza di memorie future”.

Bibliografia essenziale dei temi trattati: - Ernst Kantorowicz, Federico II Imperatore, Garzanti; - Cristian Guzzo, Federico II Storia e metafisica politica di un messia ghibellino tra spiritualità e politica, Edit@; - Ernst W. Wies, Federico Barbarossa, Bompiani; - Julius Evola, Rivolta contro il Mondo Moderno, Mediterranee; - Julius Evola, Il Mito del Graal, Mediterranee; - Paul-Georges Sansonetti, Graal e Alchimia, Rusconi; - Aldo Tavolaro, Astronomia e geometria nell'architettura di Castel del Monte, F.lli Laterza Editori; - Aldo Tavolaro, Castel del Monte e il Santo Graal, F.lli Laterza Editori; - Werner Eck, Augusto e il suo Tempo, Il Mulino.

  Carlomanno Adinolfi

Lingua degli dèi e tradizione oracolare – Luca Valentini

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Martedì 10 ottobre 2017 si è svolta la lectio magistralis del prof. Marcello De Martino, presentato dalla prof.ssa Rosa Ronzitti, presso l’aula di Glottologia dell’Università di Genova, gremita da un notevole numero di studenti e docenti, interessati al tema della tradizione oracolare nell’ambito della religiosità indoeuropea e specificatamente romana.  L’impianto del seminario si è sostanzialmente basato sull’enucleazione particolareggiata di una tradizione perenne di alcuni Sophoi (Sapienti) quale conoscenza sacrale nella civiltà occidentale che si manifestava nell’ambito della lingua oracolare e della poesia. La lingua oracolare, nello specifico, avrebbe avuto le stesse caratteristiche della lingua poetica indoeuropea (allitterazione, ecc.). Odino, il dio-vate, come i druidi, e le sortes della Fortuna Primigenia avevano un particolare ductus frastico dotato di capacità enfatica: la parola del Vate è magica perché suona in modo diverso, tramite la ripetizione ossessiva dei suoni. Vi era una continuità fonosimbolica da cui emergeva un vero e proprio incantamento di natura enigmatica.  Nel “Responso di Arezzo” dei Ludi Grandi in Aulo Gellio, Noctes Atticae III, 3, 7-8:

Ex qua duo versus exscripsismus, ut historiam quaereremus oraculi Arretini: nunc illud est, quod “responsum Arreti” ludis magnis dicitur: peribo si non fecero, si faxo vapulabo, come in Dione Cassio (Historia Romana XLIII, 20.3), in cui si riporta che durante il trionfo di Cesare nel 46 a. C. i soldati urlavano al vittorioso condottiero il ritornello [caption id="attachment_25062" align="alignright" width="180"] La prof.ssa Rosa Ronzitti ed il prof. Marcello De Martino[/caption] si male faxis vapulabis, si bene faxis rex eris,

così come in altri e numerosi riferimenti documentali si presenta una medesima struttura linguistica e sintagmatica non casuale. La lingua poetica arcaica e indoeuropea, secondo il prof. De Martino, è la lingua dei Vati, come si evince da un celebre passo di Plutarco:

"Il dio è indovino, inoltre, e l’arte divinatoria prevede il futuro sulla base del presente e del passato: nulla infatti si crea senza una causa, e nulla si predice senza una ragione. Anzi, poiché tutto il presente deriva e dipende dal passato e tutto il futuro è legato al presente secondo un processo che corre da un principio a una fine, colui che possiede la scienza di connettere e porre in relazione le cause tra loro secondo il rapporto naturale, è anche in grado di annunciare il presente e il futuro e il passato (riferimenti similari si ritrovano in Esiodo).

E giustamente Omero ha collocato al primo posto il presente e poi il futuro e il passato, perché dal presente nasce il sillogismo ipotetico, come “se esiste questo, è esistito quest’altro”, e poi “se questo esiste, esisterà quest’altro”. L’arte della logica consiste infatti nella conoscenza del nesso causale, mentre la sensazione offre all’intelletto la percezione dei fatti. Perciò, sebbene l’espressione riesca forse strana, non esiterò ad affermare che questo tipo di argomentazione è il tripode della verità che, stabilendo il legame tra causa ed effetto e aggiungendo la constatazione del reale, porta a termine la dimostrazione. Apollo Pizio per amore della musica si diletta al canto dei cigni e al suono della lira, non c’è da sorprendersi se per amore della dialettica egli predilige quella parte del discorso di cui vede che i filosofi fanno uso più costante e significativo. Eracle, quando non aveva ancora liberato Prometeo e non si era ancora intrattenuto con i dotti della scuola di Chirone e di Atlante, ancora giovane e assolutamente beota, disprezzava la dialettica e rideva di frasi come “se c’è il primo, c’è il secondo”. Decise quindi di impossessarsi del tripode con la violenza e contendere al dio la sua arte; ma pare che con il tempo sia divenuto anche lui esperto nella divinazione e nella dialettica"

(De E apud Delphos, il 90, 387.A.9-D.8).

Chi diventa Sapiente deve apprendere l’arte della logica e della predizione del futuro, cioè perseguire la via della tradizione arcaica oracolare. In tale ambito è stata posta una similitudine tra il concetto nordico nell’Hávamál e quello greco del dio indovino di Delfi nell’ambito di una visione sapienziale che ricomprende sia il pitagorismo iniziatico di Filolao, sia lo stretto rapporto simbolico esistente tra le Moire in Esiodo e le Norne della tradizione del Nord, sia l’aristotelismo che deriva dalle dottrine non scritte di Platone (di natura misterica ed orfica), fino a giungere alla dottrina della trasmigrazione dell’anima nel mito di Er.  In ambito prettamente romano, nel corso del seminario del prof. De Martino è stato citato un distico composto da due esametri tratto da un libro di Varrone e da questi attribuito a Valerio Sorano:

"Iuppiter omnipotens regum rerumque deumque progenitor genetrixque deum deus unus et omnes

Giove Onnipotente, di re, realtà e dèi Progenitore e genitrice, Dio degli dèi, Uno e tutti"

(Sant’Agostino, in De civitate Dei VII, 9.)

Si evince, da quanto riportato, la possibilità dell’utilizzo della lingua latina in maniera espressiva, oracolare e magica, esprimendosi nel distico citato una vera e propria androginia, come nel mondo indù tra Shiva e Shakti, in cui Giove si manifesta quale progenitore asessuato del cosmo, un po’ come nell’inno a Zeus dello stoico Cleante o nelle concezioni solari di un Crisippo o di un Plotino. Brevemente possiamo accennare a come il prof. De Martino abbia trattato il tema nel suo libro L’identità segreta della divinità tutelare di Roma. Un riesame dell’affaire Sorano (Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2011) e come il tema dell’androginia archetipica si sia riproposto per il Genius urbis Romae sive mas sive femina (p. 36ss). Il riferimento di Valerio Sorano, appartenente ad un cenacolo iniziatico di natura pitagorica, ha condotto al termine del seminario glottologico ad analizzare la figura divina e duplice della Fortuna Primigenia. Nell’ambito di una conoscenza riservata a colui che è Padre ed è contemporaneamente anche Madre, e a colui che è Padre è anche Figlio, si inserisce l’arcano di colei che era madre di Zeus ed allo stesso tempo figlia di Zeus, cioè, appunto, la Fortuna Primigenia.

Infine, un’altra similitudine posta dal prof. Marcello De Martino è stata quella tra Vesta e la dea dell’Aurora, a cui l’insigne docente dedica due approfonditi capitoli (V-VI) nella sua ultima fatica editoriale, ossia Le divine gemelle celesti. Sacertà del Fuoco centrale e semantica dell’Aurora nella religione indoeuropea (Agorà & Co., Lugano 2017). Nella disamina di Vesta quale “la Bruciante” e della dea dell’Aurora quale “la Brillante” è stato sottolineato come tali appellativi abbiano certamente un valore enigmatico e di natura mantica. Dal nostro punto di vista, emerge la complementarietà tra ciò che si vede – la luce – e ciò che si percepisce – il calore del fuoco –, essendo la visione aurorale intesa non solo in termini temporali, ma essendo anche la prima accensione di un fuoco interno che gradualmente entra e divampa nella dimensione del sentire, e perciò non viene più percepito come altro da sé, ossia da poter essere osservato, ma assume una profonda valenza interiore cioè quale entità ignea che è in sé perché natura di se stessa e del Sapiente che lo rimanifesta. Ritorna la dottrina espressa sia da Filolao che da Eraclito circa il potere igneo presente in un punto ed ugualmente in tutti gli altri punti dello spazio e del tempo, che il prof. De Martino magistralmente riconnette prima alla greca Hestia, ma soprattutto all’aedes non inaugurata e circolare (non casualmente) di Vesta.

Al termine di questo resoconto, possiamo con soddisfazione manifestare il fecondo spirito di collaborazione creatosi tra la prof.ssa Ronzitti, il prof. Marcello De Martino e la Redazione di EreticaMente, affinchè manifestazioni come la suddetta e pubblicazioni di vario genere come quelle realizzate possano ripetersi in futuro per la fruizione libera e consapevole di un sapere occultato della civiltà indoeuropea da parte di studenti e di liberi ricercatori.

Luca Valentini per la Redazione di EreticaMente

Ad Altaforte, un simposio sui Saturnalia e sul Solstizio d’Inverno – Valerio Avalon

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Riassumere in poche parole la conferenza su "I Saturnalia e il mito dell'Età dell'Oro", che si è svolta venerdì 8 dicembre 2017, presso la libreria Altaforte di Massa, non è cosa semplice, soprattutto per via dello spessore dell'argomento trattato. Il tema trattato fin da subito dimostra come una cultura vastissima e una conoscenza molto approfondita degli argomenti trattatati non si manifestano in una semplice sfilza di citazioni sterili e di nozioni, bensì nella grandissima capacità e abilità di comprendere connessioni e collegamenti tra elementi che apparentemente sono confinati all'interno di sacche culturali specifiche, lontane tra di loro, ma che in realtà affondano tutte in una radice unica e comune di natura tradizionale.

Partendo dal contesto di base e fondamentale della Tradizione Romana, sono stati affrontati anche elementi appartenenti all'ambito dell'esoterismo egiziano, greco, nordico, pagano e vedico. In quest'ottica è emersa prepotentemente l’evidenza che il calendario romano, e tutte le sue festività annesse, non fossero solo una lista di momenti dell'anno di natura cultuale. Nel mito di Saturno o in alcune ritualità sacerdotali il riferimento agreste, per esempio, non era confinato ad una concezione meramente materiale ovvero attraverso alcune cerimonie non erano atte solo a garantire l'aratura, la semina e il raccolto, ma ci restituiscono una visione precisa e una cadenza che ha a che fare con un lavoro di "trasmutazione dell'anima". Un'operatività che va condotta sul piano interiore di pari passo a ciò che avviene a livello astronomico nel cielo seguendo il ritmo del Sole, della Luna, delle stelle e del Cosmo intero. Di volta in volta, di mese in mese, ecco che si manifestano i Numi e le divinità del pantheon romano per indicarci la via da percorrere. Un sentiero duro che richiede attitudine, volontà, disciplina, sacrificio, applicazione e costanza, ma anche gioia, passione e amore.

Affrontando in questo modo il percorso che ci si svela a partire dal Solstizio d'Inverno, impariamo prima di tutto l'umiltà: riconoscere i propri limiti, fermarsi, lavorare e perfezionarsi su di essi per poi riprendere il cammino e procedere oltre. Questo è l'unico modo nell'ambito di un processo evolutivo, scandito da equinozi e solstizi, per far emergere la "romanità" che è in noi, ossia imparare a sottrarre spazio al caos, al disordine e all'informe, per restituirlo all'ordine e al disciplinato. Un atteggiamento di natura eroica e marziale: diventare come un fabbro che non si arrende mai e continua a battere incessantemente il suo martello sull'incudine, finchè la materia oscura e inerte non abbia preso una forma viva e ordinata in base a ciò che vuole la sua volontà.

In cinque parole: contrapporre il marmo alla palude. Un insegnamento fondamentale è rappresentato dal non poter rimanere solo sul piano mentale e della speculazione, ma imponendosi la ricerca di una dimensione pragmatica sia interiore che materiale: recuperare l'archetipo di Roma dentro di noi, renderlo vivente cominciando con l'eliminazione delle scorie del nostro ego. È necessario partire dalla costruzione interiore di un piccolo "Castrum", cominciando a piantare il seme di una forma ideale, rendendo attiva quella qualificazione interiore "romana" con l'intento di mettere ordine e pace dentro se stessi e nel mondo. Darsi norma e regola. Roma quindi diventa un mito che si fa storia.

L’intento di questo simposio è stato quello, infatti, di partire dai Saturnalia e proiettarsi verso il Solstizio imminente con l'intento di ritrovare la vera Luce, che non è quella manifesta, ma quella interiore che si vede solo nella profondità del buio. Ma c'è bisogno di fare un ulteriore sforzo. Come un atleta si allena e si prepara ad affrontare una sfida, allo stesso modo va condotto un periodo di preparazione e di avvicinamento al Solstizio, affinchè quel giorno si possa essere pronti a cogliere quello che si manifesterà non fuori, ma dentro di noi. Nell'ottica tradizionale quindi diventa quasi più importante la preparazione in queste dodici notti sacre che precedono il 21 dicembre piuttosto che il rito in sè. Per indicazioni precise sull'operatività da seguire, si è fatto riferimento a quanto pubblicato dall'associazione culturale Fons Perennis, nell’ambito del proprio calendario romano al mese di Dicembre. Cominciamo ad attendere fin da ora con trepidazione il sorgere del nuovo Sole, perchè così come Mithra nasce dalla dura pietra nel giorno più oscuro, allo stesso modo la vera luce ri-nasce nel momento di maggiore tenebra.

"Prepara il terreno, semina e riceverai i doni del cielo" EX TENEBRIS ORITUR LUX Valerio Avalon

Sul Gruppo di Ur e la Tradizione di Roma – prima parte – Luca Valentini

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Ognuno deve partecipare alla catena come una individualità, come una forza distinta” (Istruzione di catena, Introduzione alla Magia, vol. II, Edizioni Mediterranee, Roma 1987, p. 38)

Quando si ebbe l’idea e sorse la concreta intenzione con gli amici dell’associazione culturale di Napoli Il Cervo Bianco di dedicare gli studi del III Simposio internazionale di studi ermetici al 90° anniversario del Gruppo di Ur, fu già messo in contatto che prima e dopo tale manifestazione (che ha visto la gioiosa partecipazione di 200 persone provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa) si sarebbe scatenata la gara all’appropriazione indebita, intellettualmente intesa, tra le varie sette neoevangeliche del neospiritualismo italiano. Quando scientemente si pone in essere un’operazione di riscoperta dottrinaria, operativa e documentale di uno dei più famosi sodalizi esoterici italiani del ‘900, evidenziando la caratura prismatica, cioè compartecipativa di più filoni diversificati dell’esoterismo italiano, ed a-religiosa di tale esperienza, è quasi fisiologico che i dogmatici del sottobosco di natura cristianeggiante o neopagano abbiano un fastidioso travaso di bile, perché ogni falsa legittimazione viene a sciogliersi come neve al sole e perché emerge inevitabilmente la natura devozionale e mistica di un novello approccio al Sacro, che molto sa di moderno e poco di arcaico.

In questo nostro scritto che si comporrà di due parti, infatti, ci occuperemo prima del rapporto reale che Ur ebbe con la Tradizione di Roma e successivamente delle esperienze associative del dopoguerra che ebbero, vollero o provarono a perseguire un medesimo indirizzo realizzativo, e non per uno sterile spirito polemico, ma per riconsegnare l’autorità in tali materie agli unici riferimenti che ne possono essere autentici depositari ovvero le fonti, gli scritti, le testimonianze dirette, tralasciando le panzane di taluni che ogni tanto, urbi et orbi, online su facebook, si autoproclamano detentori della vera sapienza iniziatica o della vera tradizione romana. Nel merito, se è vero che nell’ambito delle monografie e della catena operativa di Ur riemerse uno specifico connotato pagano e bene intendersi sui termini e sui significati che i protagonisti assegnarono agli stessi termini. Il direttore della rivista, Julius Evola, nella sua autobiografia spirituale fu al quanto circostanziato nel sintetizzare il senso di tale sodalizio:

Tornando dunque al periodo in cui fu scritta l’edizione di Imperialismo pagano, questo libro uscì quando si era già costituito (al principio del 1927) il Gruppo di Ur (la parola Ur era tratta dalla radice arcaica del termine <<fuoco>>, ma vi era anche una sfumatura additiva, pel senso di <<primordiale>>, <<originario>>, che essa ha come prefisso in tedesco). Ciò che riporta al dominio dell’esoterismo. Già il Reghini, quale direttore della rivista Atanor e poi Ignis (due pubblicazioni che ebbero brevissima vita), si era proposto di trattare le discipline esoteriche e iniziatiche con serietà e rigore, con riferimenti a fonti autentiche e con uno spirito critico. Il Gruppo di Ur riprese la stessa esigenza, però accentuando maggiormente il lato pratico e sperimentale” (J. Evola, Il Cammino del Cinabro, Edizioni Mediterranee, Roma 2014, p. 157).

Dal nostro punto di vista già questo breve passo evoliano basterebbe a chiarire moli voluti malintesi su Ur, che si proponeva essere una realtà esoterica e non religiosa, che aveva nel proprio appellativo la volontà di riferirsi alla Tradizione nella sua dimensione trascendente ed originaria, senza un riferimento specifico ad una delle tante formulazioni storiche della stessa: in merito non si comprende, altrimenti, perché non si sia voluto dare come appellativo quello di “Gruppo di Cristo”, “Gruppo di Marte” oppure “Gruppo di Buddha”. Lo stesso Evola fu al quanto chiaro in merito:

Comprendiamo dunque perché Guénon dica che non si possa essere antireligiosi senza essere antitradizionali, ma non possiamo certamente seguirlo. Affermiamo invece il contrario, ossia che quanto prima gli occidentali si sbarazzeranno della «religiosità», tanto meglio sarà per essi, e tanto più prossima, forse, sarà una soluzione di salvezza sulla loro linea. Dinanzi alla «tradizione», arbitrariamente identificata ad un legame di carattere religioso, gli occidentali dovranno ben tenere ad essere «senza tradizione»; ma appunto in questo esser «senza tradizione» ne costituiranno una — improntata dal carattere libero, guerriero, nordico-mediterraneo una volta che il necessario contatto con ciò che nell'uomo va di là dall'uomo sia avvenuto” (EA, Sul “Sapienziale” e l’“Eroico” e sulla Tradizione Occidentale, n. 11-12 ANNO II di UR, novembre-dicembre 1928, ora ristampato da Arcana di Edit@ in Julius Evola, La Tradizione Occidentale…).

Dinanzi alle accuse di individualismo e magismo spurio di qualche pontefice marginalizzato, è possibile constatare come ci sono i testi a rispondere, ci sono le famose Istruzioni di Catena dello stesso Gruppo di Ur che si rendono chiarificatici, che denotano come la pratica, oltre la dottrina, fosse volta ad un risveglio individuale del singolo operatore (la nostra citazione d’incipit) tramite una maieutica tanto rituale tanto ascetico – meditativa, comune alle scuole che in Ur fornirono il proprio contributo: si pensi, per esempio, alla pratica del Sole di Mezzanotte che assumeva una valenza primaria sia nella scuola pitagorica (si rammenti il famoso esperimento di Reghini ed Armentano seduti al caffè), sia in quella antroposofica che in quella ermetica.

Ma, allora, cosa si volle intendere per Paganità? Il recupero da fonti frammentarie, incomplete (di ciò fu già testimone Varrone nel suo De Lingua Latina) di una religiosità popolare e privata? Nulla di tutto ciò albergava nella mente di Reghini, di Parise, dello stesso Evola. La prima risposta ci giunge dal Maestro di Arturo Reghini, cioè da Amedeo Rocco Armentano, quel Reghini che un giorno viene osannato come epigono della Roma pagana ed il giorno seguente osteggiato per aver ravvisato nella stessa una chiara matrice magico – pitagorica, di natura sapienziale:

“Imperialismo Pagano non significa un ritorno al Paganesimo, ma alla Romanità, cioè a quell’idea dell’Unità che nacque in Roma ma che è Universale ed Eterna…un movimento riallacciantesi sul serio all’antica sapienza pitagorica, occidentale e, più che mediterranea, tirrenica” (AR Armentano, in Le interviste ad Ara, Così tacque Pitagora, in Massime di Scienza Iniziatica, Ass. Culturale Ignis, Ancona 2004, p. 331).

Anche nelle parole di ARA ritorna il principio dell’universalità e della sapienzialità a-religiosa che veniva conferito alle loro esperienze iniziatiche, che per essere tali, appunto, non potevano presentare alcun connotato di misticismo. Oltre ad ARA, poi, la dimensione mediterranea riferita all’Imperialismo Pagano non presentava quei connotati religiosi e dogmatici tipici del neopaganesimo contemporaneo, se sempre lo stesso Reghini scriveva riferendosi a Cagliostro e Mosè:

…nella tradizione esoterica mediterranea (ebraica, cristiana, pagana ed ermetica) in relazione alla grande opera della rigenerazione iniziatica” (A. Reghini, Sulla quaresima iniziatica, Ignis, nr. 11-12 Novembre-Dicembre 1925).

In verità, il connotato misticheggiante non era caratteristica neanche della Roma Arcaica, se il più importante antropologo italiano nei suoi studi sulla classicità, ha potuto magistralmente notare come la cosmopoiesi prospettata della Civitas Romana come istituzione sacralmente e giuridicamente fondatrice di una visione nuova della vita, realizzasse un nuovo Patto con gli Dèi, potendo i Romani essere considerati “facitori” del Sacro, coloro che noeticamente poterono alchimicamente “costruirli”i Numi, in quanto espressione dell’anima del Popolo e la Patria non  essendo espressione di Divinità teisticamente distaccate nel trascendente:

Una specifica divinità nasce per la comunità che la onora…in coincidenza con la cerimonia pubblica che ne consacra il tempio e ne sancisce l’ingresso nella Città” (Maurizio Bettini, Déi e uomini nella Citta, Carocci Editore, Roma 2015, p. 21).

Si conosceva la Vis, in ambito di quella che era la “interpretatio deorum”, come metodo congetturale di trasposizione cultuale tra religiosità differenti, quale entità unica per il riconoscimento del Numenico. Essa era, è la natura interna del Dio, la conoscenza di esso, che non si configura tramite comparazioni formalistiche o cerimonialistiche, ma tramite la sperimentazione del proprio potere, l’identificazione con esso. Il rigorismo romano, cioè la pretesa secondo la quale ci fosse una norma immodificabile nei secoli, non solo è stato rigettato da un esimio studioso come John Scheid che ha scritto di “religioni romane” (Rito e religione dei Romani, Sestante Edizioni, Bergamo 2009), ma ha condotto a deliranti deduzioni secondo le quale neanche la riforma augustea, Virgilio o Macrobio potrebbero essere annoverati nel prisco purismo romano.

Sorge, a tal punto, un quadro al quanto in contrasto con certe ricostruzioni maldestre che pretendono che Ur fosse stata una manifestazione di un risorgente paganesimo di natura fideistica (si osservi, in merito, quanto fu stucchevole una certa polemica sulla celebre affermazione plutarchea sulla morte di Pan, che un ottundimento palese non può sospettare essere non la dichiarata morte del Divino, che è metafisicamente impossibile, ma la profonda difficoltà dell’uomo moderno di percepirlo come nei primordi), semplicemente perché il piano di riferimento, essendo essenzialmente di natura magica, ha paradigmi differenti rispetto alle litigiosità religiose, di cui il Sapiente magistralmente non si cura. Sempre in riferimento a Reghini ed alla Schola Italica spesso chiamati in causa a sproposito, si dovrebbe spiegare come mai il simbolo della stessa paganissima compagine sia stato San Giorgio, santo cristiano prefigurazione allegorica del Marte Romano, come mai in tutti i testi del Pitagorico fiorentino vi sia un continuo riferimento all’alchimia, alla cabala, come mai in un saggio di Giulio Parise (Luce, Le parole di Potenza e i caratteri degli enti, Ur 1927) , discepolo diretto del Reghini si presenti un’attenta descrizione della palingenesi in chiave cabalistica, o come nel rituale riportato dallo stesso Parise (Luce, Istruzioni di Magia Cerimoniale, Ur 1927) si operi l’invocazione dell’Arcangelo Solare usando il riferimento di Pietro d’Abano, lo stesso dei novizi myriamici nella pratica primaverile del rito d’Ariete, ma soprattutto in cui viene evocato il terribile spirito del deserto Adonay, spauracchio dei farisei pagani. E’ necessaria, a tal punto, una chiarificazione: o Reghini e Parise erano anch’essi posseduti da tale demone sublunare oppure il riferimento magico (le monografie di Ur si intitolano non casualmente Introduzione alla Magia e non come fanno intendere taluni Introduzione alla Religione oppure Introduzione al Paganesimo) declinava una portata originaria, primordiale, come ci ricordava all’inizio Evola, tale da trascendere ogni riferimento etnico – religioso, ma centrandosi appunto sull’Io, sul suo risveglio interiore e non su culti e preghiere. Qui si palesa un latente bipolarismo psicologico o una semplice malafede interpretativa. Oppure vi è stato un altro Arturo Reghini, di cui non abbiamo notizie, non essendo la stessa personalità che, non solo all’inizio degli anni ’40 aderì al kremmerziano Circolo Virgiliano di Roma, ma fu iniziato nel 1902 a Palermo al rito egizio di Memphis, ma soprattutto fu VI grado onorario dell’Ordo Templi Orientis di Aleister Crowley (R.A. Gilbert, Baphomet and Son: A Little Known Chapter in the life of 666, Holmes Pub Group 1997, p. 6; l’OTO figura anche tra le filiazioni affratellate del Rito Filosofico Italiano di Frosini, a cui furono iniziati sia Reghini che Armentano, come si evince dagli Annuali dello stesso RFI, vol. 1, Aprile 1913 ), oltre che tra i fondatori della Lega Teosofica Indipendente d’Italia.

D’altronde quando in Ur si accenna alla Paganità ci si riferisce al caldeo – egizio Giamblico, al neoplatonico Plotino (Massime di Saggezza Pagana, Krur 1929), ci si riferisce ad una Romanità Arcana (i saggi di Reghini sulla Tradizione Occidentale in Ur 1928, di Evola sul Sacro nella Tradizione romana in Krur 1929, del kremmerziano Abraxa sulla Magia della Vittoria in Krur 1929), in cui non vi sono Divinità da onorare o supplicare, ma ci sono forze interne da riconoscere e sperimentare:

Si può dunque parlare con diritto di una concezione attiva-intensiva del sacro, specificatamente romana…noi sappiamo anche che questi modi di una esperienza mediata e mitologizzata sono inferiori rispetto ad una esperienza diretta e assoluta, cioè senza forme e senza immagini…muta, essenziale” (Ea, Sul <<sacro>> nella Tradizione Romana, Krur 1929);

Sul piano della magia conoscerai un mondo ritornato allo stato libero, intensivo ed essenziale, in uno stato, in cui la natura non è natura, né, lo spirito, <<spirito>>, in cui non esistono né cose, né uomini, né ipostasi di <<dèi>> - ma poteri” (EA, Sulla visone magica della vita, Ur 1927).

Come predetto, le fonti e i documenti sono cristallini e non concedono spazio alle fantasiose ricostruzioni del neopaganesimo contemporaneo, adesso che anche il famoso affare Ekatlos (La scena e le quinte, Krur 1929) , dopo le ricerche di studiosi di vario orientamento, è stato ricondotto nell’ambito che le testimonianze dirette hanno qualificato, cioè l’ambiente ermetico della Roma dei primi anni del ‘900 e non casualmente un acuto studioso ha annotato:

...si sarebbero manifestate all' interno della Fratellanza Terapeutica di Myriam, fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro Formisano) - che la definì talvolta come Schola Italica - determinate influenze derivanti dall' antica tradizione romano – italica” (Renato Del Ponte, Il movimento tradizionalista romano nel Novecento, SeaR Edizioni, Scandiano 1987, p. 26).

Non è, infatti, casuale che un altro acuto studioso del tradizionalismo romano, quale è Sandro Consolato, nell’articolo “La Grande Guerra degli Esoteristi”, apparso sul settimanale Tempi, nello scorso Ottobre, abbia ricordato, oltre l’affare Ekatlos, come nell’ambito del mondo myriamico ci fosse “il rito del Pretium, forse di origine romana, comunque antichissimo ed assai complesso”, affidato da Kremmerz ai suoi sodali che partivano per il fronte, celato ora negli archivi della Fratellanza, appellando, inoltre, Reghini ed Armentano quali “nostri Magi”.

In questa prima parte, un ultimo chiarimento va posto in essere inerente la catena operativa di Ur. Sulla questione vari orientamenti si presentano, ma principalmente due visuali si contrappongono: l’interpretazione che ritiene la catena di Ur formata, come la rivista, dall’apporto di esoteristi di provenienza diversificata (pitagorici, kremmerziani, antroposofi, …) e la decifrazione che ritiene che essenzialmente la catena di Ur fosse stata coincidente con la catena pitagorica facente riferimento alla Schola Pitagorica. Noi non entreremo nel merito della questione sia perché non è questo l’ambito in cui si possa argomentare sufficientemente in merito sia perché la documentazione di accompagnamento che verrà prodotta nella pubblicazione degli atti del convengo di Napoli del 14 Ottobre 2017 su Ur reputiamo possa contribuire ad un notevole sviluppo della ricerca. Nel merito del nostro discorso, però, essendo la seconda interpretazione spesso usata ad usum delphini da chi vagheggia di una religiosità romana e pagana rediviva, è importante chiarire che quanto è conosciuto e posseduto in ambienti ermetici circa la ritualità attestata ed attribuita alla Schola Italica, di dottrinalmente confermato della stessa ci riconduce ad una prospettiva pitagorica, come preannunciato, ma soprattutto magico – rinascimentale. Nei testi di Giulio Guerrieri – esponente di massimo rilievo di tale filiazione -, della figlia Viviana, negli scritti di vari esponenti pitagorici riemerge la famosa palestra spirituale con pochissimi riti (anche con l’uso di salmi davidici) di reghiniana memoria, riemerge la pratica dell’estasi filosofale dello pseudo - Campanella (probabilmente Bruno), del quale a Torre Talao si conservavano raffigurazioni alle pareti, riemerge la passione per il cabalista Cornelio Agrippa a cui Reghini dedicò una splendida introduzione al De Occulta Philosophia, per l’alchimista Sendivogius, riemerge tra i componenti della catena pitagorica e di Ur un certo Procacci, definito “cabalista” ed “ebraista” (tutte le informazioni riportate si possono ritrovare in Roberto Sestito, Il figlio del Sole, vita e opere di Arturo Reghini, Associazione culturale Ignis, Ancona). Infine, quando si ricollega la filiazione italica - come fa anche Roberto Sestito in un modo però prudentemente saggio - ai cosiddetti Fratres Lucis, facendo intendere l’esistenza di chissà quale continuità romanissima e paganissima, ci si guarda bene dallo specificare la derivazione degli stessi Fratres Lucis, cioè inerente un latomismo anglosassone prettamente rosacrociano, cioè un po’ proto-cristiano come lo Steiner, su cui si argomenta spesso a sproposito.

Dopo tutto ciò ci si domanda, insieme ai tanti lettori di EreticaMente, dove emerge la tradizione avita di religiosa e mistica memoria? Forse semplicemente nella fantasia tolkieniana di chi abbisogna di una giustificazione, di una consacrazione che non vi è e non esiste e che andrebbe ricercata dall’Alto o nella pratica interiore e non rubacchiando a casa d’altri. Ur, pertanto, torni ad essere il riferimento della Scienza dell’Io, della trasmutazione animica, in senso interiormente ed ermeticamente romano, concependo tale aggettivo come una qualità dello spirito, come ha magistralmente esplicitato l’amico Giandomenico Casalino nei suoi saggi sul Nome Segreto di Roma e sul rapporto tra Tradizione Ermetica e Tradizione Romana (leggere anche gli scritti di Pio Filippani Ronconi in merito) e non come un formalismo neopaganeggiante di sfondo pretistico. Chi oggigiorno persegue una via sacrale alla Romanità ha tutta la libertà e la dignità di perseguirla, come fatto con scrupolo e profondità dagli amici fraterni dell’Ass. Tradizionale Pietas e dell’Ass. culturale Fons Perennis, che ai Sacra Privata, al Calendario, al “colere Deos” assegnano la doverosa dimensione introspettiva, coniugando la Tradizione Una quale espressione dello Spirito originario e primordiale. D'altronde, che l'Aeternitas Romae non potesse essere confinata in un passatismo esteta delle ceneri e non della sua perennità spirituale, avendo come unica opportunità di valorizzazione la dimensione magico - teurgica (senza, qui, entrare nel merito di ciò che tecnicamente accomuna ma anche differenzia questi due aggettivi), è ciò che un brillante Mario Basile ha espresso ultimamente sul sito Saturnia Tellus, in cui archeologia e filologia  siano intese come scienze necessarie (e quindi affidate agli specialisti delle materie e non ad avventurosi interpreti) ma non sufficienti alla comprensione dell'essenza viva ed intima della Romanità, che è fondamento magico - giuridico. Pertanto, la nostra devesi intendere non come un’accusa alla Romanità ma una strenua difesa della stessa, dal materialismo, dall’ateismo formalista, dalle sette marginali e sparute del neospiritualismo in cui il livore personale, l’invidia, l’isterismo anti – iniziatico manifestano l'infondatezza di una presunta  e senatoria gravitas romana, acquisita purtroppo solo sulle bacheche di facebook. Rispetto a tutto ciò, Ur segna una direzione semplicemente diversa:

"Sta bene attento e guarda in giro che non abbia a sentirci uno dei non iniziati. Questi sono coloro che credono che non ci sia niente altro se non quello che possono saldamente afferrare con le mani: ma azioni, generazioni, e tutto quello che è invisibile, non lo accettano come parte dell'Essere..."

(Platone, Teeteto, 155e) (continua…) Luca Valentini

Ianus Pater il più antico degli dèi – Anna MB

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Giano annuncia l’anno nuovo e dà inizio a ogni cosa. Fu considerato dai romani come il custode del mondo, preposto alle porte del cielo, cioè all’oriente e all’occidente, della terra e a tutto quello che ha principio e fine. Era raffigurato con due facce, i suoi attributi erano una chiave nella mano sinistra e un bastone nella destra perché egli era guida di tutte le strade e aveva facoltà di aprire e chiudere ogni porta, così come di dar fine a un periodo di pace e inizio alla guerra. Da lui iniziava l’anno che scorre silenzioso (tacite labentis, Ovidio, Fasti, III, 65) senza che i mortali se ne accorgano; il primo mese (Ianuarius) era a lui sacro; il primo giorno dell’anno nuovo era dedicato alle celebrazioni pubbliche in onore di Esculapio. Dio del passaggio e della transizione – non della nascita, nel qual caso vi presiederebbe Giunone, è patrono degli inizi in senso anche più astratto dell’atto di attraversare un confine (è uno “stato dell’essere). È associato al mattino: Orazio lo apostrofa «Padre mattutino (matutine pater), [...] Giano [...] apri tu il mio poema» (Satyrarum libri, 2, 6, 20-23). Curiosamente, gli si attribuisce l’epiteto «dio dei dolci» e delle feste (Cibullius: Giovanni Lido, de Mensibus, 4, 2) poiché si era soliti offrirgliene (πόπανα) ed esisteva un dolce chiamato proprio ianual preparato in occasione delle Calende di gennaio a lui dedicate e di cui Ovidio (Fasti, 1, 127 ss.) ci fornisce persino la ricetta¹:

"Quindi il mio nome è Giano. Ma quando il sacerdote mi offre una torta d’orzo e farro mescolati con un pizzico di sale, sorrideresti nel sentire che egli con tono sacrificale mi invoca chiamandomi Patulcio e Clusio". 

(Epiteti che vengono da pateo, aprirsi, e claudo, chiudersi, alludendo alla sua funzione di soglia e porta.) Veniva festeggiato anche il 30 marzo; Ovidio dice (Fasti, 3):

"Poi, per quattro volte il pastore avrà rinchiusi i capretti pasciuti, per quattro volte i prati avranno brillato di fresca rugiada, e si dovrà venerare Giano, e con lui la mite Concordia e la Salvezza di Roma e l’altare della Pace".

Il suo tempio era di marmo bianco con ornamenti di bronzo dorato e candide le vesti dei fedeli che vi accedevano per pregare, consentendo che la cerimonia si svolgesse in maniera ritualmente propizia con parole e pensieri che fossero di fausto presagio (linguis animisque favete, letteralmente: favorite le lingue e gli animi, Fasti, 1, 71). Il tempio del dio sorgeva sul Campidoglio perché, nella tradizione romana non solo poetica (anche Livio lo afferma, 1, 55), Roma è caput rerum e nulla c’è al mondo che non sia romano. Dinanzi al tempio del dio si svolgeva il rituale, descritto da Ovidio (Fasti, Libro I, cap. II), di insediamento dei consoli che inaugurava la loro magistratura presso il tempio di Giove Ottimo Massimo. Le fiamme dei sacrifici splendono e odorano di incenso e di aromi, illuminando di riflessi e bagliori del predetto tempio di Giove Capitolino che sorgeva di fronte, e sugli altari crepitano i fili del più pregiato zafferano di Cilicia (3).

Chaos e bicefalia

Dio di ogni inizio e di ogni fine, è perciò identificato, nella dotta ricerca ovidiana, con il vuoto originario da cui ebbe origine il mondo:

"Me Chaos antiqui vocabant" (Fasti, 1, 101 ss.).

Colui che si manifesta al poeta non trova riscontro in nessun dio greco, e a questo proposito il suo bifrontismo ne è una caratteristica precisa e inconfondibile: il caos o condizione primordiale, memoria delle “origini” in cui ancora non era stato fondato il mondo come lo si conosce (nel caso di Roma l’“ordine”, anche rituale, corrisponde alla civitas), può implicare uno “sconfinare” da una condizione all’altra, allora può avvenire che alcune divinità che risalgono a quei tempi anteriori portino ancora le tracce di un’esistenza caotica e indifferenziata, come certi dèi primigeni che presentano entrambi i generi sessuali (l’orfico Phanes), oppure oscillano da una natura umana a una ferina, mostrandosi a volte in aspetto teriomorfo, altre antropomorfo. Così sarebbe anche la bicefalia di Giano, simbolo di una funzione «precisa e del tutto peculiare»² di questo dio del passaggio, e alla luce di questa considerazione appare più chiaro anche il passo ovidiano. Ancora nel V secolo ev si afferma vi fosse presso il foro di Nerva una statua di Giano rappresentato nella sua quadriplice forma, che rispecchia la quadripartizione dell’anno secondo solstizi ed equinozi (statua che, secondo Macrobio e Servio, sarebbe stata portata a Roma da Faleria); lo riporta il bizantino Giovanni Lido (490 ev) nel già citato de Mensibus (su roger-pearse.com il link della versione inglese, da cui sono tratte anche la traduzione e le note del testo che segue), dove nel libro IV, dedicato a gennaio, descrive anche gli epiteti del dio:

"è chiamato Janus Consivius per via del consiglio o Senato; Janus Cenulus e Cibullius, che pertiene alle feste, da cui la parola romana cibus; Patricius ovvero del luogo, indigeno; Clusivius, che pertiene ai viaggi; Junonius, “aereo”; Quirinus, campione e combattente; Patulcius e Clusius, come di una porta; Curiatius, patrono dei nobili...".

Gli epiteti Cenulus e Cibullius lasciano sorpresi e non trovano riscontro in nessun’altra fonte, e potrebbero essere connessi a una funzione agricola sottintesa alla complessa figura divina di Giano. Patricius sta per pater, da cui il legame con la patria, rientrando in quella schiera di di patrii indigetes (dèi indigeni) a cui i romani riconoscevano uno status specifico. Ma Giano, continua Lido, è chiamato anche Aeonarius, per essere il padre di Aeon, poiché i greci chiamano l’anno enos [...] Messalo invece ritiene che Giano sia Aeon stesso, per questo gli antichi celebravano una festa a Aeon il quinto giorno di questo mese [quinto prima delle Idi, i.e. il 9 gennaio]; [...] è chiamato anche Saturno,cioè Crono [...] oppure è il Sole, secondo la sua capacità di guardare in ogni direzione, a levante come a ponente.

Dio, daimon ed eroe

Aeon (Aiôn, greco Αἰών) può essere inteso qui anche come nome comune nel senso di tempo, eternità, ma non convince l’ipotesi che il nome di Giano (Ianuarius) derivi da una qualche forma di Aeon; altra ipotesi è l’etimo da eo, prima persona del verbo ire (andarsene), riferito al suo rappresentare un passaggio, un attraversamento; l’Aeon citato da Lido potrebbe alludere anche al dio leontocefalo dei misteri orfici e mitraici, e l’atto di “andare” di Giano si configurerebbe ora in uno scenario cosmico, ciclico, dove l’ἴα ὤν (essere uno) diventa αἰών. Lido riporta inoltre un’altra spiegazione del nome, secondo cui la radice rimanderebbe a ianua, porta, perché, stando all’interpretazione di certe fonti del nostro autore, Giano sarebbe stato un eroe civilizzatore, che per primo ha costruito case e porte d’ingresso nelle dimore e nei centri abitati. Secondo un altro punto di vista, invece, [gli hierophantes romani] ritengono che sia un daemon che governa sulle due Orse [le costellazioni Ursa Major e Ursa Minor] e che in lui si esprimano le più alte e divine anime del coro lunare. Il termine greco daimôn designava da principio ogni sorta di divinità, ed è solo con Platone che assume il significato più specifico di entità intermediaria tra gli dèi e gli uomini. Giano è «una delle divinità centrali» del politeismo romano e tra queste è il “meno greco”¹; nel culto pubblico è contraddistinto da tratti del tutto specifici: nel sistema calendariale non solo occupa la prima posizione rispetto all’inizio dell’anno solare, ma il suo culto è continuo poiché viene invocato in apertura di tutti i sacrifici – oltre che ogni primo giorno delle Kalendae.

Il primo di quattro re

La funzione iniziale di Giano è espressa anche in un mito che, sorprendentemente, per 5-6 secoli non ha subito variazioni sostanziali e che viene riportato dalle principali fonti classiche (cfr. Virgilio, En., 7, 45 ss., 177 ss.; 8, 319 ss.): si tratta di uno dei miti che riguardano l’origine della romanità, ovvero della città di Roma intesa come fondamento dell’ordine “cosmico” (prendendo a prestito un abusato termine greco) e racconta dei primi quattro mitici re latini che sono stati (in successione) Giano, Saturno, Pico, Fauno e dopo di lui Latino, re eponimo. I quattro re avrebbero condotto la popolazione da una condizione semiselvaggia alla “civiltà” attraverso la fondazione di città e culti religiosi, l’introduzione di tecniche agricole, di una legislazione ecc. Fin qui nessuna contraddizione con quanto sappiamo di Giano e delle sue funzioni iniziali né con la sua interpretazione quale eroe civilizzatore. Quello che interessa a un’analisi storico-religiosa è piuttosto, nota Angelo Brelich, l’accostamento di queste quattro figure divine molto diverse tra loro: durante il regno di Giano sarebbe arrivato via mare Saturno esule, scacciato dal proprio pantheon dalla vittoria di Zeus e degli Olimpi, e nel Lazio avrebbe trovato accoglienza da parte di Giano, stabilendosi questi sul monte Ianiculus (Gianicolo), l’altro sul monte Saturnio. Anche di Giano si diceva provenisse da oriente via mare, dalla Tessaglia per la precisione, ma questo non vuol dire che il suo culto fosse stato “importato” da un politeismo straniero, quanto piuttosto che le sue qualità di “re civilizzatore” e fondatore possono aver attratto elementi mitici caratteristici, nella tradizione romana, di questa tipologia di personaggi (Enea ne è un altro celebre esempio).

Dunque due re, due capi di pantheon, due divinità solenni legate alla sfera cittadina; poi, però, la successione genealogica prosegue con Fauno, figlio di Saturno, e Pico: il primo popolarissimo dio del bosco, del secondo, il cui nome rimanda a una origine teriomorfa (il picchio), manca invece ogni traccia che ne attesti la presenza – una festa, un tempio, insomma mancano del tutto documenti che ne rivelino un culto. Entrambi, però, sono legati alla sfera oracolare: Ciò disse Fauno; uguale è il parere di Pico. «Liberaci dai legami», Pico aggiunge tuttavia; «Giove verrà qui, condotto dalla nostra valida arte. L’oscuro Stige mi sarà testimone della promessa». Che cosa facessero, liberi dai legami, quali formule pronunciassero, con quale arte traessero Giove dalle sedi celesti, è vietato all’uomo sapere. (Ovidio, Fasti, III, 319-325, trad. di L. Canali)

Anch’essi mitici fondatori (di culti, leggi, cioè della vita civile), quello che accomuna i quattro re sarebbe, ciascuno nel proprio ordine, di svolgere una funzione civilizzatrice, di aver permesso il passaggio (qui Giano doveva essere il primo) da quel periodo “arcaico”, caotico, di cui via via si va perdendo la memoria, e che il mito riattualizza.

Appendice: januae caelestis aulae Aggiornamento del 4 01 2017. A seguito di una discussione su Facebook (si vedano i commenti a questo post) ho avuto modo di approfondire l’occorrenza di “porte del cielo” (januae caelestis aulae) in connessione con il percorso del sole nella volta celeste da est a ovest. Ovidio (Fasti, 1, cap. 2, 70) afferma: «[parla Giano] Sic ego perspicio caelestis janitor aulae, Eoas partes, Hesperiasque simul», così io, quale custode (delle porte) della reggia celeste, vedo a un tempo le parti dell’oriente (Eeo) e dell’occidente (Espero).

Quando Lido, nel de mensibus (IV), parla di Giano e della sua quadruplice forma, scrive: «A causa di questo [si riferisce sopra al rapporto di Giano con tutto l’anno solare e non solo con il suo inizio] [sottinteso μυθολογοῦσι, è detto essere] di quadruplice forma per via delle quattro mutazioni». Il termine greco è τροπῶν, che significa rivolgimento, ritorno, mutazione, cambiamento e anche, quando è solo, in maniera specifica solstizio d’inverno (cfr. vocabolario Rocci, ad vocem).

Note:

1. Cfr. G. Dumézil, La religione romana arcaica, Bur 2001, pp. 290-5.

2. A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, cap. 3: I primi re latini, in particolare parr. 1, 4-5, Editori Riuniti university press, Roma 2010, pp. 83 ss.; sul bifrontalismo in particolare cfr. ivi, p. 130.

3 - Non si vuole qui affrontare il tema della esatta ubicazione dei templi di Giano, né accomunare Giove e Giano in un rito di inaugurazione ‒ semmai suggerire una analoga funzione di garanti delle fondamenta della tradizione romana per via della loro relazione con la regalità; piuttosto si segue il narrato ovidiano, che dopo la presentazione di Giano nel contesto dell’inaugurazione del nuovo anno “approfitta” per una digressione sulla grandezza di Roma e del suo popolo, della magistratura e del senato, per poi tornare a parlare del dio bifronte e, anzi, far prendere direttamente a lui la parola. Il filo che unisce i versi del poeta sembra essere il tempo, più che lo spazio, la sua scansione e i suoi «determinatori», e in particolare quell’inizio dell’anno di gennaio che «si contrappone» all’altro capodanno, più antico, di marzo, e che è sancito dall’ingresso in carica dei consoli: «Se il re sacerdote faceva con il suo rito il capodanno di marzo, così [...] il magistrato faceva con il suo ingresso nella carica il capodanno di gennaio», nello stesso modo in cui «il calendario tende a farsi autonomo dalla funzione regale, finché lo diventa del tutto con la riforma di Cesare. A definire il tempo in senso “regale” sopravvengono i consoli; al posto delle “liste dei re”, in tale funzione, si tengono [...] fasti consulares registrati e conservati dai pontefici. Al posto di un capodanno lunisolare, sopravviene il capodanno consolare: saranno i consoli a “fare capodanno” con il loro ingresso in carica» (cfr. D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, Bulzoni, Roma 1978, pp. 480, 473). Del tempio di Giano «nel Foro di contro al Senato» Procopio (De bello gothico, 1, 25, p. 184) dice essere tutto di bronzo, di forma tetragona; il bronzo che orna il marmo dei templi è citato in Cantarella, Roma nelle Metamorfosi e nei Fasti di Ovidio, p. 106, in nota, dove l’aurum templorum del v. 39 è spiegato come “bronzo dorato” delle decorazioni.

* Fonti classiche: i Fasti di Ovidio; Liber de mensibus, Giovanni Lido.   Anna MB (https://lamisuradellecose.blogspot.it/)    

Civitas Sapientiae – Pietas

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Carissimi lettori, vi annunciamo il nuovo numero della rivista Pietas: “Civitas Sapientiae”. Un numero dedicato agli aspetti arcani e misterici della Romanità, in cui sono stati raccolti gli atti dei convegni svolti a Roma e Milano nel 2016 dall'Associazione Pietas con la stretta collaborazione della nostra Redazione e di tante realtà amiche. Indice:
  • Editoriale a cura di Luca Valentini;
  • Giuseppe Barbera – De Misteriis Urbis;
  • Fabrizio Giorgio – A-Thalia. Il mito della terra primigenia;
  • Andrea Anselmo – Polemos e il nuovo inizio. La fondazione di Roma e il mondo indoeuropeo;
  • Giandomenico Casalino – Roma e la Sapienza magico giuridica;
  • Francesco Boco – Cesare e Augusto, l’origine inesauribile di Roma;
  • Paolo Galiano – Il ciclo dell’anno;
  • Stefano Mayorca – Divinum Secretum;
  • Luca Valentini – Essere il Nume, la dimensione magica Romana;
  • Umberto Bianchi – Il gruppo di Ur, una storia italiana tra Magia e Tradizione Romana.
  Per gli interessati è possibile prenotare una copia da ricevere a casa propria al costo di 15 €, scrivendo a info@tradizioneromana.org  

La Chiave della Sapienza Ermetica e della Roma Arcana – Riccardo Donato

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Riflessioni sulla nuova edizione dell’opera “La Chiave della Sapienza Ermetica secondo Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano e Giuliano Kremmerz,”.

Non credere che la presente opera non sia scritta per essere da tutti intesa: anzi, noi l’abbiamo conciliata, nel suo didascalico istruttivo, in modo da essere più chiara possibile. A tal proposito, calza la frase del Grande Hierophante Giustiniano Lebano:

«Bisogna studiare per sapere, sapere per comprendere, comprendere per giudicare…I libri promettono, per solleticare le passioni umane, cose strabilianti. Risolvono il problema dei loro autori sulle passioni umane, proprio come i pescatori che si impossessano dei pesci ingannandoli con un buon boccone, che nasconde l’amo. Così abbondano ciarlatani e paltonieri che promettono mari e monti e poi non danno che la lusinga della speranza nei sogni più scervellati: oppure promettono la soddisfazione delle passioni umane, la libidine, la ricchezza e la superbia di dominare gli altri».

Così il Maestro Giuliano Kremmerz, ne L’appello agli aspiranti alla Luce, introduceva la sua opera, specificando che avrebbe pubblicato cose mai scritte per offrirle alle anime pure di coloro che erano desiderosi di conquistare il sapere ermetico. Prendendo a modello l’esempio di Amore del Maestro Kremmerz, per lunghissimo tempo siamo rimasti incerti e dubbiosi se fosse giusto pubblicare documenti preziosissimi ed informazioni delicate riguardanti i rapporti iniziatici tra Leone Caetani e Giustiniano Lebano. Pur essendo certi che sarà difficile la comprensione, essendo il volgo sempre il peggiore interprete della Verità “perché la lotta contro la metafisica vuota e la bestialità inetta è spaventevole anche per gli eroi della favola classica”, siamo convinti che un seme di conoscenza vada comunque abbandonato nella terra. Non importa se i cani ululeranno sempre alla luna o morderanno la terra che noi calpestiamo:

«gli scettici, uomini che dubitano di tutto e principalmente di se stessi, non si lasceranno convertire. Essi rappresentano il volgo di tutti i tempi e di tutte le nazioni: non credono che ai fatti compiuti, perché non pensano e non accettano che la filosofia della massa, di cui essi sono il numero».

Siamo stati autorizzati a pubblicare questi sacri documenti fino ad ora tenuti rigorosamente custoditi, manoscritti sottratti per la loro qualità hierophantica a qualunque mercato, per due motivazioni. La prima è stata quella di sigillare la Verità. Chi tace la Verità è come se dicesse il falso e passa nella classe dei vigliacchi, che non hanno stima di sé. Questa colpevole omissione si tradurrebbe quindi in una sorta di vergognoso cedimento o fuga di fronte alla menzogna, all’errore e alla malvagità di quelle che il Maestro Kremmerz definiva le genie infernali umanizzate. Vigilare sempre. Non permettere mai all’errore ed alla menzogna di dilagare indisturbati. Testimoniare la Verità, in modo che essa continui a splendere per coloro che la cercano, malgrado la nebbia e le esalazioni di palude e di ammassi di letame. Tacere, quando si deve e si può parlare, costituirebbe una colpa verso la tradizione degli Antichi Padri. Tempi di orrore, in cui l’arroganza ed i pregiudizi strozzano la Virtù.

Il tempo era maturo per alzare il simbolo romano del gladio d’onore, di vedere tutto l’edificio di vili menzogne, fabbricato in lunghissimi anni di falsità, cadere… come un corpo morto cade. Non siamo più disposti a rinunciare a nulla, nella sacra lotta contro l’errore, l’impostura, la mistificazione; dovevamo testimoniare l’Amore e la Fedeltà nei confronti dei nostri Maestri, incompresi e vilipesi, loro generosi dispensatori d’Amore e Sapienza. L’Apostolato di Verità Assoluta è fatto di silenzio: non parlate se non volete ritornare nelle tenebre della volgarità. Essa non è affare giochetti di prestigio e di illusione di fronte ad un pubblico ingenuo e curioso, ed ha conservato la Chiave di Verità che il volgo imperfetto deve ignorare.

Per Legge di Giustizia Assoluta, “le cose di valore massimo” sono da sempre custodite da chi ha il “diritto di imporsi”; il Fato è lo stesso di fatto e ha determinato che il “Patrimonio dei Numi” non cadesse in mani profane, impure e malvagie. Senza il consenso “Consesso dei Numi” che non tollera siano violate e ignorate le prescrizioni poste da esso a presidio della Iniziatura Vetusta, le Porte Auree sono destinate ad essere inesorabilmente sbarrate. Ad aprirle non possono bastare gli intrighi, le falsificazioni, le infinite analisi grammaticali, i furti e le carte rubate da archivi, le astuzie, le false trasmissioni iniziatiche. Sigilliamo: il mistero, da sempre, è perfettamente occultato e custodito e nella sua essenza irraggiungibile. Il Principio si occulta allorchè un segno si ritira misteriosamente nell’Invisibile, nell’immediatamente inaccessibile, ma continua ad essere presente, celato all’esteriorità profana e raggiungibile per vie misteriose prima, e Arcane poi. La Fiamma Sacra non si è mai spenta, conservata da Sacerdoti con mani pure e degne, e religiosamente trasmessa di generazione in generazione da Hierophanti cui fu affidato via via il deposito sapienziale.

La seconda motivazione è stata quella di spuntare le armi dei “ciarlatani”, per impedire di fare abboccare ai loro ami di falsità altre anime pure e innocenti. Non per vanità, né per vanagloria, ci siamo decisi a mostrare ciò che avremmo voluto rimanesse occulto, ma ripetiamo, per impedire che ancora una volta le menzogne e il frutto infetto dell’impostura passino impunemente come Verità, che la superbia venga scambiata per Sapienza, che la malvagità sia spacciata per Virtù, che il grammaticismo venga confuso con le Scienze del vero, che il tradimento e l’ipocrisia siano smerciati per lealtà e onestà.

Noi affermiamo e sigilliamo: tutto ciò che è stato detto, scritto, interpretato, documentato, sulle Scienze Sacre, sulla Iniziatura Vetusta, è falso, volgare, grammaticale ed erroneo. Così è stato fatto per Roma. Che cosa si conosce della sua antichissima storia? Nulla. E poiché nessuno ha mai saputo, né mai poteva sapere interpretare i suoi simboli, tutto è stato tramutato in favola. Parliamo infatti di simboli e non di persone, come hanno creduto erroneamente i grammatici. Roma è nome Arcano e Teocratico: Arcano, perché costituito nel mondo occulto; Teocratico, perché un governo di Numi ne stabilì l’origine. Quindi Roma ebbe la città pubblica, Delia, apparente, visibile e l’Urbe sotterranea, quest’Urbe A-delia, non visibile fu chiamata anche VALENTIA, che si spiega: giace all’interno, ove vi è la Divinità.

Ecco perché, di tutte le antiche opere dei Classici delle Sacre Scritture che contengono tesori di infinita Sapienza, non abbiamo altro che le vulgate, cioè divulgate per il volgo. Comprendete che i Classici contengono tutt’altro che quello che le versioni volgari gli attribuivano, poiché i Classici erano scritti tramite l’ideografia, cioè la scrittura allegorica dei Numi, che non avevano nulla in comune con l’interpretazione volgare. La Dea Fortuna ci ha accompagnato nel ritrovare quei manoscritti che si sono salvati dalla distruzione operata con perseveranza nei secoli dalla mano che non voleva si venisse un giorno a conoscere la Sapienza Arcana e a leggersi il vero che i Classici contengono, e si seguitasse a vivere senza alcuna conoscenza della storia vera del mondo antico e delle sue Dottrine Sapienziali. Facciamo riferimento a un manoscritto in cui si spiega il modo di interpretare le Dottrine Sacre Arcane, le infinite Tavole di Bronzo, i Sacri Segni dei Padri dell’Urbe, il Valore Arcano dei Nessi e Cifre che sono nei Classici.

Questo è uno dei tanti “rincappi del Filo di Arianna”, mai interrotto. Si imponeva soltanto un poderosissimo e possente silenzio, e la necessità di ricorrere alla stadera dell’intelletto, ove ogni parola era da pesare con la bilancia di Ermete; ogni immagine è un Inno all’Unità del Creato, è Scienza Divina, proposta divinamente; ogni anagramma, ogni monosillabo staccato e le dizioni negative poste in forma positiva. Le parole generano altre parole, per assonanza, per radice adattata, per similitudine, per anagrammi e così via, come nell’Usia delle cinque lettere ultime, che si dicono rinvenute da Mercurio Trimegisto.

Gli Antri del Mistero, i Labirinti, la Reggia di Pluto, la Lupa che fa poppare i due gemelli, il latte della Lupa, l’albore della Luce che nutriva i due Senati Gemelli, gli Idoli, i Penati, i simboli dei Gentili erano tutte le lezioni che gli Epopti impartivano agli alunni Palladii per la conoscenza delle Arti e delle Scienze.

La Chiave della Sapienza Ermetica costituisce l’apertura della serratura della soglia che custodisce questa Sapienza Assoluta. Oggi, dopo aver visto fallire tutti i tentativi operati in maniera subdola e con irreale creatività, quali gli archivi inventati, le inesistenti gerarchie, i parlari volgari, i discorsi da strada, distruggiamo definitivamente la barbarie che “sub specie vanitatis” hanno tentato di imprimere in questa Italia, dimora del Nume Arcano, il proprio costume: che mai e poi mai possa più trovare ascolto la vanagloria, l’ignoranza assoluta, l’egoismo, la prevalenza grammaticale, l’orgoglio, la falsa personalità, la hybris, la presunzione.

Amico lettore: noi ti offriamo l’Opera, che è il frutto di lunghissimi anni di studio. Ci siamo nutriti di questo bellissimo cibo dei Numi, che è la Sapienza, estraendo l’Oro da questa inesauribile miniera. Nostra intenzione è stata unicamente l’Amore per la vera Roma Arcana e per la Sapienza, cui abbiamo consacrato tutta la nostra vita, anzi, per cui ha avuto un senso e un frutto il nostro vivere. Tutto sarà ammantato di luce nuova, dovendo imporre un riconoscimento: noi abbiamo tentato un bellissimo cammino, sotto l’auspicio del Sole Arcano dei Gentili e dei Numi Immortali, sotto la tutela magistrale di Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano e Giuliano Kremmerz.

Riccardo Donato La Chiave della Sapienza Ermetica Secondo Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano e Giuliano Kremmerz Introduzione di Piero Fenili Volume 1 - Terza edizione con una Appendice e nuovi Allegati inediti Edizione numerata in ampio formato (cm. 32 x 22), 242 pagine, numerose ill. € 30,00 EDIZIONI REBIS Via Venezia, 42 - c.p. 421 55049 Viareggio (LU) – Italia Tel. 0584 943038 – 373 7436098– fax: 0584 943107 www.edizionirebis.it

Alfie: Amor Omnia Vincit – Giuseppe Barbera

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Dal Tempio di Giove sdegno e preghiera.

Doveva morire per l’accidia di medici e giudici, ma grazie all’amore dei genitori Alfie sta sopravvivendo. Il caso che ha scioccato l’Europa è oramai all’ordine del giorno. Una di quelle storie commoventi sulle quali alcuni giornalisti godono perché sanno che avranno un pezzo di successo, altri, dai valori sani, ne scrivono sperando di smuovere qualcosa.

La nostra società, decaduta nel meccanicismo industriale ed informatico, abituata a giocare con la morte tramite il mezzo virtuale, ha perso il senso reale della vita e della natura. Si è perso il senso magico dell’uomo e s’è dimenticato il corpo del valore di cui i latini riempirono l’Europa: l’Amor.

Virgilio scriveva che l’Amore può vincere ogni cosa, Plauto che l’Amore può ogni miracolo. Dal tempio di Giove non può che partire un appello ai genitori di Alfie: non smettete di amarlo, continuate a lottare per amore e ricordate che l’amore può ogni cosa e che la Fortuna aiuta gli audaci. Ciò che lo stato inglese sta commettendo è un crimine verso l’umanità e non si può rimanere impassibili a ciò. Si accusano i nazisti di essere stati disumani, ma i giudici inglesi non si stanno mostrando migliori di quei gerarchi tedeschi.

Lo stato deve garantire il diritto alla vita e deve lottare perché esso sia applicato. I figli non sono oggetti da commercializzare o da gettar via quando si rompono: essi sono esseri umani come ognuno di noi e tutti noi dobbiamo avere la possibilità di lottare per la vita, tutti i genitori devono avere il diritto di poter fare ciò che ritengono più opportuno per le cure dei figli: loro gli hanno dato la vita e loro ne sono i tutori.

Lo stato inglese non si rende conto dell’atroce Nemesi che scatenerà contro se stesso alterando la natura delle cose in questo modo. Se l’Amor è la forza che costruisce il mondo bisogna capire che dove c’è Amore vi è crescita, dove vi sono il disamore e l’odio v’è caduta e distruzione. E’ sempre stato così e così continuerà ad essere. L’uomo, preso dall’avidità e dall’egoismo di imporsi sugli altri sta dimenticando l’Amore e si vuole sostituire a questa forza, non rendendosi conto ch’ella è incontrastabile. Dal tempio di Giove, piccolo luogo del culto latino e italico, non abbiamo certamente la forza di smuovere folle oceaniche a sostegno della vita, ma abbiamo la coscienza e l’etica necessarie a poter proferir parola e sottolineare che lo scopo delle leggi deve essere quello di tutelare i cittadini ed il vivere comune, e non quello di schiacciare e sottomettere gli abitanti dei territori. La grande rivoluzione di Romolo, nel segno di Giove, fu proprio questa: trasformare le leggi per dare il diritto agli uomini. Chiunque può approvare o criticare le metodiche degli antichi Romani, ma l’intento fu certamente spinto da un valore sano ed invincibile, che ancora oggi sopravvive: diffondere il diritto tra le genti.

I gentili pii non potranno certamente scrivere comunicati altisonanti ed incisivi, quello tocca alle istituzioni che debbono muoversi con responsabilità, maturità e spirito di tutela della vita e di ciò che la produce, ossia la famiglia. Noi possiamo soltanto pregare, ma chissà che a volte un voto a Giove non possa più di cento nazioni.

Giuseppe Barbera Rettore del Tempio di Giove della Pietas.

Politica Romana n. 10

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POLITICA ROMANA – 10/2018 – Associazione di Studi Tradizionali “Senatus” – c/o Senatus, c.p. 10, 55100 Ponte San Pietro (Lucca), in 8°, pp. 128, € 14,00.

È finalmente uscito l’attesissimo ultimo numero della nota e apprezzata rivista “Politica Romana”, diretta da molti anni dall’esimio ermetista Piero Fenili. In questa importante rassegna di scritti di notevole livello culturale, probabilmente l’ultimo anello di una collana che rimarrà un punto di riferimento di tutto riguardo nell’esoterismo italiano e non solo, sono presenti le seguenti monografie.

Sommario:

-“Guelfi e Ghibellini: un destino italiano. Considerazioni conclusive”, di Piero Fenili;

-“La ‘nefandezza del 1915-18’ nel nefando racconto di Gilberto Oneto”, di Sandro Consolato;

-“Alcune considerazioni sul concetto di ‘purità’ come principio metafisico e via al perfezionamento”, di Ivan Dalla Rosa;

- “La Roma Arcana”, di Riccardo Donato; -“Il Lar Victor e la sublimazione dei Mani: i Numina nella Sapienza Ermetica Romana”, di Luca Valentini; -“Sul contributo di Nizza all’Unità della Patria Italiana”, di Achille Ragazzoni; -“Spiritus Romae. Spiritualità ed escatologia nell’ideale romano”, di Giuseppe M.D. Barbera.

Il “commiato” finale dell’articolo di Piero Fenili:

“E con questo richiamo all’insostituibile magistero di Dante e di Virgilio si conclude la serie dei Quaderni di Politica Romana con un unico grande rammarico per il fatto che in essa non abbia potuto proseguire la sua opera aristocratica e sapiente colui che la volle come antidoto efficace nei confronti dell’errore e dell’ingiustizia scatenati in quella che sembra ormai davvero doversi qualificare come Età oscura.

Mi riferisco al non mai bastevolmente rimpianto conte Marco Baistrocchi. Ci basti l’orgoglio di avere contribuito a ridestare negli italiani l’inestinguibile fiammella che ci pare l’unico campanelliano lume che possa guidarli in questa nostra Età oscura. Non disperiamo: molti indizi ci rassicurano sul fatto che vi sono ancora anime desiderose di rispondere con le idee e con l’esempio al richiamo vivificante della Sapienza che scaturisce dal dantesco Amor che muove il sole e le altre stelle”.

La rivista è disponibile presso le librerie esoteriche Aseq di Roma (www.aseq.it), Ibis di Bologna (www.ibisesoterica.it) e presso il Centro Editoriale Rebis di Viareggio (edizionirebis.it).

21 APRILE: un incontro, un inizio – Umberto Bianchi

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Il giorno 21 di Aprile 2018, in occasione del Natale di Roma, presso Palazzo Falletti, a Roma, in Via Panisperna, ha visto lo svolgimento di un incontro, il cui tema, incentrato su Vesta ed il significato del Fuoco Sacro, ha rappresentato l’occasione per una più vasta e profonda riflessione su un intero contesto. Gli oratori tutti molto competenti e professionali hanno, ognuno a modo proprio, voluto lanciare un chiaro messaggio a tutta la platea, lì presente: quella del 21 Aprile non rappresenta solamente una ricorrenza astratta, un puro e semplice “memento” archeologico, carico di nostalgie passatiste, ma un chiaro ed inequivocabile punto da cui partire al fine di rifondare e plasmare nuovamente uno spirito di comunità, andandoci a connettere con gli archetipi spirituali del passato. Vesta ed il suo Fuoco, furono la fiamma, il focolare metaforico, attorno al quale Roma ed i suoi “cives” crearono, sostennero ed alimentarono quell’invincibile spirito civico e comunitario, che li avrebbe portati a conquistare tutto (o quasi…) il mondo allora conosciuto. Quando Teodosio, in un impeto di vigliaccheria e spirito di prevaricazione unici al mondo, ordinò la distruzione del Tempio di Vesta e dello spegnimento del Sacro Fuoco, Roma cessò di vivere quale centro di irradiazione e di riferimento di civiltà, per tutto l’orbe terracqueo, per divenire un oscuro borgo, travagliato da lotte intestine tra avidi prelati e nobili ingordi ed arroganti…Ognuno dalla sua prospettiva, i vari oratori succedutisi sul podio degli interventi, da Stefano Mayorca ad Achille Tricoli, da  Andrea Anselmo (Polemos) al prof. Marcello De Martino, da  Carlomanno Adinolfi (Fons Perennis) a Giuseppe Barbera (Pietas), da Giandomenico Casalino allo scrivente ed infine, all’amico Luca Valentini, hanno tutti, coralmente, in qualche modo, voluto ribadire quanto qui affermato.

La Tradizione non è cosa morta, né un rinsecchito feticcio da agitare, unicamente in occasione di feste “comandate”, né una sterile rievocazione. E’ connessione con quegli archetipi vitali che, sedimentati nel profondo dell’anima di ogni popolo, ne costituiscono una vera e propria risorsa interiore, in grado di rianimarne la coscienza nei momenti più bui e disperati, quale quello che ora stiamo vivendo, per l’appunto. Ed il risultato, la percezione di quanto qui detto, si è concretizzato in una sala piena all’inverosimile. Un pubblico giovane e vitale, donne e bambini inclusi, in un numero approssimativo oscillante tra le centocinquanta e passa unità, hanno animato con il proprio interesse, la lunga maratona oratoria, iniziata nel primo pomeriggio e successivamente protrattasi sino a sera. Un pubblico attento e vitale, spensierato, ben lontano dai barbosi soliloqui di ammuffiti professorini, ammalati di un tradizionalismo marmoreo e settario. E già. Per chi non lo avesse capito, a voler portare avanti certe battaglie, le vere difficoltà, le critiche, non le si trovano in coloro che sono apertamente contrari a quanto si va dicendo o facendo, ma, assurdo se si vuole, proprio in coloro che dicono di pensarla allo stesso, proprio, modo.

Il caso dell’amico Giuseppe Barbera è, a tal proposito, esemplificativo. L’inedito fatto dell’apertura di un Tempio dedicato a Giove/Juppiter, anziché destare interesse ed ammirazione, ha prodotto invidie e risentimenti, per lo più fondati su cavillosi “distinguo” che, poco o nulla hanno a che fare con il voler risvegliare lo spirito di un popolo, attraverso la connessione ai propri archetipi. Un gesto dirompente, un vero e proprio pugno in faccia (tra l’altro realizzato in un quartiere periferico, sic!) al sonnacchioso e dominante conformismo, di quelle coscienze abituate a scandire le proprie grame esistenze a ritmo di “chat” e “tablet” e la cui massima ambizione è quella, un giorno, di divenire veline o di prender parte al “Grande Fratello”, ma anche a quelle di coloro che, invece, si sono immedesimati nell’improbabile ruolo di esclusivi detentori di esoterica sapienza ed invece altro non fanno che vivere la loro “scienza” nel chiuso di una qualche stanza, riuniti in esangui conventicole, tristanzuole e litigiose.

Lo stesso conferire una valenza “magica” (come nello specifico caso dell’intervento del Mayorca, ma anche in quello del Valentini) all’intero contesto religioso romano, è operazione non casuale. Anche se può, a prima vista, apparire come cosa un po’ fuori dalle righe, ha invece lo scopo precipuo di fare del complesso rituale e religioso romano, un vero e proprio gesto di potenza, facendo di un semplice miste, un “Pontifex” che, nel ruolo di vero e proprio “ponte” tra la dimensione dei mortali e quella degli Dei, sappia con questa interagire, allo scopo di poterne utilizzare le energie, al fine di poter potenziare il proprio “io”, modificando l’intero assetto della realtà e relegando ad un più basso gradino, la sfera devozionale. Può anche essere che, chi scrive, sia or ora, vittima di un colossale abbaglio, (cosa che comunque non può aprioristicamente essere esclusa…). Ma, visti gli incoraggianti inizi, non si può che sperare in una positiva prosecuzione, attraverso ulteriori incontri, interscambi e quant’altro, in grado di dare un senso ed una direzione a tutta una serie di esperienze, sinora slegate da qualsivoglia comune progettualità.

UMBERTO BIANCHI   Le foto ed i video della due giorni dedicata al Natale dell'Urbe:

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Lucio Cornelio Silla Felix – Maria Luisa Silvestri

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Le gesta e la fede di un grande condottiero nel periodo di transizione dalla Repubblica all’Impero nella visione della storiografia romana antica

Di Silla la Storia ricorda le abilità militari e le vittorie conseguite fuori dai confini della Repubblica romana e durante la guerra civile, combattuta contro le fazioni populares mariane ma, soprattutto, la lucida ferocia con la quale attuò il suo disegno politico. Proveniente dalla nobile famiglia decaduta dei Cornelii, Lucio Cornelio Silla, dopo essersi procurato i mezzi per assurgere al reddito senatorio, inizia la carriera pubblica sotto il consolato di Gaio Maio, che lo nomina Questore e lo conduce con sé in Africa per combattere contro Giugurta, re della Numidia. Da questa impresa bellica, la strada del Silla condottiero contro i popoli nemici di Roma, è lastricata di vittorie. Ha pressochè sottomesso tutte le tribù italiche, rimanendo storiche le sconfitte di Praeneste e dei Sanniti, ha inflitto a più riprese solenni sconfitte all’esercito di Mitridate, re del Ponto, sottomettendone gli alleati in Grecia e provocando la caduta di Atene.

La valentìa e la giusta fama del Silla Guerriero è indiscussa tra gli storici antichi, ma allo stesso modo, Lucio Cornelio Silla ha lasciato un’impronta nella storia politica romana interna, sotto molti aspetti, ingiustamente condizionata da un giudizio morale negativo che ha gettato un velo sulla verità storica e che ha alterato il fondo della storia..  L’excursus honorum di Silla è stato profondamente segnato dalla sua indole umana.  Come ogni uomo politico e militare romano egli era sorretto dalla certezza dell’esistenza di legame, tra azioni umane e loro corrispondenze ultra-umane; corrispondenze che, in termini materiali e linguistici, rappresentano il bene facere, l’impronta che propizia una data azione, sia nello ius che nel fas e la slega da giudizi di valore, qualsiasi esse siano. Per dirla in altri termini, la legittimazione dell’intento umano nell’ascesa alle cariche politiche ed in guerra, insieme e sotto gli auspici degli Dei, veri limiti del giusto e del sacro.  Quando la Lex Sulpicia attentò alla sua carica di Console, nell’88 A.C. e contemporaneamente promulgò l’abrogatio imperii del potere militare di Silla e l’attribuzione del comando dell'esercito per la guerra contro Mitridate a Gaio Maio, la fazione mariana era al culmine del potere, le prerogative senatorie logorate dalla progressiva espansione delle potestà tribunizie e la politica romana in mano a Gaio Mario, al quale Silla si opponeva in forza del suo orientamento apertamente restauratore rispetto all’onda della riforma mariana.

L’abrogatio imperii del potere militare costituiva per Silla una rottura così manifesta della legalità e delle proprie prerogative, da reagire, come uomo politico e da militare, seguendo un modus operandi, conforme.  "Si ebbe così - scrive Plutarco - un vero e proprio combattimento fra nemici, il primo in Roma, non più con l'aspetto di una sedizione, ma propriamente con trombe e insegne e vessilli secondo le regole di guerra".  Lucio Cornelio Silla, riunisce i propri armati e muove, alla testa dell’esercito, contro Roma, violandone il “pomerium”, i sacri confini. Un gesto sacrale compiuto per riportare a Roma, da vittorioso, la legalità repubblicana.

Nell’anno 87 A.C. Silla riprende la guerra contro Mitridate, che si piegherà ad un accordo di pace nell’anno 85 A.C., dopo la presa di Atene e del Pireo e le due Battaglie di Orcomeno e Cheronea. Nel frattempo Roma è preda della guerra civile ed il consolato di nuovo in possesso delle forze popolari, che riaccendono la rivolta dei popoli italici.  Mentre Silla fronteggiava Mitridate in Oriente, a Roma le fazioni mariane e cinnane, riappropriatesi del potere, dichiarano ufficialmente Silla nemico pubblico, infliggendogli l’esilio.  Nell’anno 82 A.C. Silla rientra in Italia vittorioso con il suo esercito, reprime la rivolta dei popoli italici, sconfigge e distrugge Praeneste, quindi infligge, assieme a Caio Licinio Crasso, la sconfitta definitiva alla fazione mariana, nella battaglia di Porta Collina. Inizia quindi la restaurazione repubblicana di Lucio Cornelio Silla; l’era sillana la cui impronta storica è stata velata dal giudizio di valore espresso dagli storici del tempo in merito alla crudeltà con la quale attuò la restaurazione.  Giudizio che sembra limitare il campo di analisi alla spietatezza del metodo ed alla limitatezza del fine del raggiungimento del potere. A seguito della disfatta mariana, Silla ottenne di essere eletto “dictator constituendae causa et legibus scribundis” senza limiti di potere e di tempo.

Esercitando i suoi poteri, ha riformato il sistema criminale, ha ripristinato – a scapito dei tribuni e dei cavalieri – la supremazia senatoria, ha revisionato i meccanismi di accesso e durata delle cariche pubbliche, inclusa quella consolare. Deciso e risoluto nell’agire “manu militari”, lo è stato egualmente nell’impartire la disciplina nell’esercito, capacità che gli ha accreditato la fedeltà dei suoi uomini, imprimendo alle armate una potenzialità bellica rimasta indiscussa nella storia.  Con Silla ebbe, inoltre, luogo la prima grande distribuzione di terre ai veterani: 120 mila ex legionari vennero dislocati in undici nuove colonie, in Italia del Nord ed Ovest, ma specialmente tra Etruria e in Campania, le regioni più ostili a Silla e che subirono un maggior numero di confische.  Pur avendo ottenuto l’”imperium” dittatoriale sine die, nell’ anno 81 A.C. rinuncia ad ogni potere e si ritira a vita privata, rinunciando alla carica di console.

Dopo avere violato i sacri confini della “civica”, dopo avere compiuto con lucida efficacia un’agguerrita e spietata repressione delle fazioni nemiche della restaurazione repubblicana, concluso senza ostacoli quello che riteneva necessario per Roma, Lucio Cornelio Silla, abdica alle cariche pubbliche ed esce indenne dalla storia. Nonostante l’inaugurazione delle liste di proscrizione e l’aura di sanguinario che aleggia intorno alla sua figura storica, nonostante questo, univoco è stato il giudizio sul suo valore militare e sulla fortuna che sempre sorrise alle sue imprese. Sallustio, nel “La Guerra contro Giugurta”, dice di Silla che “fu il più fortunato degli uomini prima del suo trionfo nella guerra civile, ma le sue imprese non furono mai inferiori alla fortuna”. Seneca, nel de consolatio ad Marciam, lo cita come esempio di uomo che ha saputo fronteggiare, gli “aspera” e coltivare la propria astuzia ed acerrima virtù nei confronti dei nemici e dei concittadini, affermando che mai fece in modo che sembrasse avere usurpato falsamente l’appellativo di Felix, il quale gli derivava direttamente dagli dei.  Quegli stessi Numi ai quali doveva la sua buona sorte, “quorum illud crimen erat, Sulla tam felix”.

Anche Plutarco, nelle vite Parallele, evidenzia il legame tra le gesta di Silla e la benevolenza degli dei, mettendone in risalto la personalità viva e la sua capacità di interpretare i segni terreni, agendo senza fomentarne l’astio o l’ira. Questo aspetto della “felicitas” di Silla, il benvoluto dagli dei, impedisce agli storici di formulare un giudizio negativo sul suo passaggio nella storia romana. A parte l’aspetto più marcatamente propiziatorio, la fortuna di Silla fu più il prodotto della sua personalità fervida, astuta, incline al compromesso e tale da permettergli, anche negli scenari più foschi, di attuare i propri intenti mantenendo integra la benevolenza delle divinità. Fu il primo nella storia di Roma, a suggellare un accordo con l’accanito nemico dei romani, Mitridate re del Ponto ed alcune delle sue vittorie furono certamente agevolate dall’esercizio delle sue doti diplomatiche e dalla sua arguzia. Qualità che, come narra Plutarco, faranno esclamare al console Gneo Papirio Carbone, nell’imminenza della disfatta mariana "Nell'anima di Silla sono rinchiusi una volpe ed un leone, che io devo combattere; quella però che mi dà più fastidio è la volpe".

Ovunque il potere militare di Silla abbia lasciato la sua impronta, così è emerso negli storici questo tratto caratteristico che lo legava in maniera così immediata agli dei. Lucio Cornelio Silla fu l’artefice dell’ampliamento del sito del Tempo della Fortuna Primigenia, sulla collina che sovrastava Praeneste.  Scrive il Winckelmann, “Nel primo triumvirato il primo che governò dispoticamente l’impero fu Silla, il quale ad imitazione d’altri possenti cittadini eresse magnifici edifici a proprie spese; e poichè distrusse Atene sede delle arti, egli dichiarossi protettore delle medesime in Roma. Superò quanto di grande avevano fatto mai i suoi concittadini, nell’edificare a Preneste il tempio della Fortuna, della cui magnificenza abbiamo ancora un argomento negli avanzi, che tuttora sen veggono…Leggendo noi in Plinio, che Silla fece ivi lavorare il primo musaico che fatto siasi in Italia, è probabile che fosse questo quel medesimo che vi s’è poscia trovato”.

La stessa sorte di Praeneste distrutta, già alleata di Gaio Mario, toccò ad Atene, alleata di Mitridate. Narra Appiano nel “Le guerre Mitridatiche”: “Seguì ad Atene una grande e spietata strage. Gli abitanti erano troppo deboli per scappare, per mancanza di nutrimento. Silla ordinò un massacro indiscriminato, non risparmiando donne o bambini”. Plutarco ci tramanda che Silla proibì l'incendio della città, ma permise ai suoi legionari di saccheggiarla.  Dopo la battaglia di Murena, sui trofei della vittoria fece incidere i nomi di Ares, della Vittoria e di Afrodite.  “Silla celebrò a Tebe le feste in onore della vittoria. Per le gare musicali fece costruire un palco accanto alla fontana di Edipo e chiamò a far parte della giuria dei greci provenienti da altre città, dato che nutriva un odio senza fine verso i Tebani. Per suo volere fu loro levata la metà del territorio che possedevano, e venne consacrata ad Apollo Pitio e a Zeus Olimpio. Le rendite dovevano servire a restituire agli dèi i tesori, che aveva rubati ad essi”.

Per propiziare gli dei sacrificava parte del bottino e dei suoi averi ai Numi. Vittorioso in Oriente, Silla si accinge, per la seconda volta, a muovere contro Roma e la fazione mariana: “Veniva Silla con ira gravissima”, così si esprime Plutarco per descrivere il ritorno di Silla in Italia ed ancora una volta, vittoria e buona sorte arrideranno al generale. “Io, Lucio Silla, prediletto di Venere, vincitore a Cheronea ed Orcomeno, giungo alla testa dei 40.000 fedeli legionari che già due volte mi acclamarono imperator”, fece incidere sulle monete che fece coniare per celebrare il suo trionfo. Moneta effigiata con la testa coronata di Venere con, accanto ad essa, Cupido avente tra le mani la palma della vittoria. Nell’83 A.C., infine diede il via alla ricostruzione del Tempio di Giove Capitolino ed alla stessa epoca risale l’ampliamento del Tempio di Gione Anxur sulla collina sovrastante Terracina. L’assunzione degli appellativi di Felix ed Epafrodito sono significativi della concezione che riconduceva Silla e la sua fortuna alla protezione degli dei e di Venere in particolare. L’impronta impressa nella storia dalla figura di Lucio Cornelio Silla e dalle sue gesta è, a parere di chi scrive, l’effetto del più genuino spirito della grandezza di Roma, riconducibile alla credenza ferma che qualsiasi azione umana, al di là del giudizio morale o di valore che sulla stessa possa esprimersi, possa risultare “gradita” agli dei ed esserne propiziata nell’intento e negli effetti, perché giustificata dal mos majorum e conforme alla pax deorum.

Tant’è che nè lo sterminio capillare dei nemici, né la lucida ferocia nell’osteggiarli, né la sua disinvolta audacia politica hanno potuto scalfire la sua fama di vittorioso e favorito dalla dea Fortuna.  Non senza alcune esplicite ammissioni di non volere o non potere sondare l’insondabile. Lucio Anneo Seneca, nonostante sottolinei a più riprese la ferocia che Silla dimostrò in vita, ha affermato che anche i suoi nemici dovevano riconoscere che “bene illos arma sumpsisse, bene deposuit”, esprimendo un giudizio “metodologico” alla sua azione che riconduce a quel “bene facere” che tanto captava, secondo lo spirito romano antico, la benevolenza degli dei, quanto ne frenava l’ira.  Tanto che lo stesso filosofo, che molto fu conoscitore della polititica post-repubblicana, si esprime in forma dubitativa, sia pure di fronte alla crudezza delle sue gesta politiche, nel giudicare Silla “sed istud inter res iudicata habeatur, qualis Silla fuit”. Certo è che la risolutezza con la quale mosse verso i nemici di Roma e coloro che riteneva nemici della legalità repubblicana fu la stessa con la quale depose il potere una volta fatto quel che riteneva necessario, secondo la sua visione, per ricondurre Roma ad un ordine più conforme alle istituzioni delle origini. La sua eredità di politico e grande condottiero fu quella, sempre a parere di scrive, di avere restituito l’imperio supremo, compiendo un opera di ricapitolazione politica, prima nella storia.  Cosa che illustri suoi successori non fecero, sappiamo con quali conseguenze.

Bibliografia di riferimento: Appiano di Alessandria, Le Guerre Mtridatiche; Gaio Sallustio Crispo, La guerra contro Giugurta; Livio Andronico, ab urbe condita; Lucio Anneo Seneca, De consolazione ad Marciam; Lucio Anneo Seneca, De beneficiis; Plutarco di Cheronea, Le vite Parallele; Johann Joachim Winckelmann, Storia delle arti del disegno presso gli antichi. Maria Luisa Silvestri  

Contro i Galilei! – L’azione di preservazione del Mos Maiorum di Flavio Claudio Giuliano Augusto: principi ispiratori e strategie d’azione – 1^ parte – Tommaso Indelli

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I) La politica di Costantino I verso il Cristianesimo.

Su Flavio Caudio Giuliano (331-363 d. C.), sulla sua biografia e sulle sue imprese militari ci si è già soffermati a suo tempo -in un altro contributo pubblicato in questa sede -pertanto, qui di seguito, ci si concentrerà unicamente sull’esame di alcuni aspetti della sua azione politica, volta a contrastare la diffusione del cristianesimo nell’impero e a favorire la restaurazione della religione dei padri, il cosiddetto “paganesimo”. Si badi che gli appellativi di “pagano” e “politeista” - che pure saranno, convenzionalmente, utilizzati nel corso dell’indagine - per indicare gli appartenenti alla religione ufficiale dell’impero romano, sono assolutamente impropri e fuorvianti, oltre che dispregiativi. L’uso di tale terminologia è frutto della pubblicistica apologetica cristiana del III-IV secolo d. C. e, prima di essa, di quella giudaica (1). Fu proprio la politica di Restauratio religiosa a fare di Giuliano un protagonista indiscusso del IV secolo, procurandogli la fama di “Apostata”, cioè “Rinnegatore della fede”. Quando Giuliano divenne imperatore, nel 361 d. C., l’impero romano era ormai mutato, nelle sue strutture sociali, economiche e amministrative, rispetto all’epoca augustea, e uno dei promotori di tale rinnovamento fu senz’altro Costantino(306-337 d. C.), il primo imperatore cristiano (2). Tuttavia, non è possibile comprendere le scelte attuate, in campo religioso, da Giuliano, se non ci si sofferma un attimo sulla politica costantiniana, grazie alla quale il cristianesimo cessò di essere considerato - da un punto di vista legale e morale - una superstitioillicita e si accinse a diventare religione ufficiale dello stato romano (3). La politica di Costantino a favore del cristianesimo trovò attuazione solo dopoche la battaglia di Ponte Milvio (312 d. C.) - detta anche di Saxa Rubra - sancìla fine del regime tetrachico, consegnando l’intero orbe romano nelle sue mani (4). La “miracolosa” conversione del primo imperatore cristiano -secondo la tradizione - avvenne proprio nell’imminenza di tale battaglia,combattuta il 28 ottobre del 312 d. C., a nord di Roma, contro l’Augusto Massenzio (306-312 d. C.) che, in quell’occasione, trovò la morte (5). Alla vigilia dello scontro, Costantino, a seguito di un sogno o di una visione miracolosa, si sarebbe convertito al cristianesimo:l’apparizione miracolosa o il sogno l’avrebbero spinto ad apporre sugli scudi dei soldati un’insegna con le due lettere iniziali del nome di Cristo in greco - Χ (chi) e Ῥ (rho), Χριστὸς- tra loro intersecate. L’insegna, trasformata più tardi in vessillo, prese il nome ufficiale di Labarum (6). Fosse o meno sinceramente cristiano - problema dibattuto da secoli e, ancora oggi, insoluto - Costantino fu, nel corso della sua vita, un autentico esempio di ipocrisia (7). Nulla della sua esistenza, infatti, rispecchiò i reali principi della religione alla quale aveva aderito. La sua vita familiare, poi, fu un disastro. Nel 326d. C., fece assassinare, a Pola, la moglie Fausta, sorella di Massenzio, e il primogenito, Crispo, avuto da una precedente moglie o concubina, Minervina (†307d. C.), probabilmente di origini galliche. I due furono accusati di incesto, ma, forse, le ragioni dell’uccisione furono politiche. E’ noto, inoltre, che l’imperatore rimandò il suo battesimo fino alla vigilia della morte, nel 337 d. C. (8) All’indomani di Ponte Milvio, nonostante fosse stato, in gioventù, un adepto del culto solare -introdotto ufficialmente, a Roma, dall’imperatore Lucio Domizio Aureliano (270-275 d. C.) - Costantino aveva fatto la sua scelta definitiva a favore del cristianesimo (9).Nel febbraio del 313 d. C., il novello Augusto emanò,a Milano, un editto di tolleranza nei confronti dei cristiani che sospendeva ogni misura persecutoria nei loro confronti, riconoscendo la loro religione come religio licita.

L’editto riconobbe alla Chiesa piena personalità giuridica e stabilì anche la restituzione dei beni, mobili e immobili, confiscati nel corso delle precedenti persecuzioni, creando, così, le premesse per il decollo economico dell’istituzione ecclesiastica (10). Molto si è detto e scritto sull’editto di Costantino e sulla frattura che avrebbe rappresentato, sotto tutti i punti di vista, con la legislazione e la politica dei precedenti imperatori (11). In realtà, questa visione va decisamente ridimensionata perché, se si esclude la grande persecuzione dell’imperatore Diocleziano del 303-304 d. C., molte delle disposizioni di Costantino erano già contenute in due provvedimenti normativi di imperatori precedenti e, cioè, negli editti di Publio Licinio Egnazio Gallieno (253-268d. C) e di Gaio Aurelio Valerio Galerio (305-311d. C), promulgati, rispettivamente, nel 260 e nel 311d. C. (12). Fatte queste considerazioni, bisogna sottolineare che, teoricamente, in virtù dell’editto del 313d. C., il cristianesimo doveva semplicemente godere, nell’impero, degli stessi diritti delle altre confessioni religiose, ma le cose presero una piega diversa, perché Costantino, tra il 316 e il 321d. C., promulgò altre leggi con cui rafforzò la posizione sociale della Chiesa, conferendole particolari privilegi in campo fiscale, economico e giuridico (13). Ad esempio, il clero fu esentato dal pagamento di imposte e dalla giurisdizione ordinaria - rispondendo di eventuali illeciti unicamente di fronte ai tribunali ecclesiastici - i tribunali vescovili furono autorizzati ad emanare sentenze nelle controversie tra laici – episcopalis audientia - fu riconosciuto il diritto delle chiese di ricevere eredità e donazioni, il diritto dei vescovi di servirsi del servizio di posta imperiale - cursus publicus - il giorno di festa cristiano - la domenica-fu riconosciuto come giorno festivo per tutto l’impero e fu attribuita efficacia giuridica alla manumissio in ecclesia, ossia all’affrancamento dei servi effettuato alla presenza del vescovo, di fronte al capitolo sacerdotale (14). Grazie alla politica di tolleranza costantiniana, le città dell’impero diventarono il fulcro dell’organizzazione ecclesiastica, basata sulla diocesi e sulle sue ripartizioni interne, come le parrocchie. La diocesi - che ricalcava, in parte, l’omonima distrettuazione amministrativa imperiale del IV secolo - era l’organizzazione di base per l’inquadramento dei fedeli, per l’amministrazione dei sacramenti e per ogni adempimento liturgico. Il clero era articolato in una gerarchia di uffici: al vertice, il vescovo o arcivescovo – in Oriente, eparca - a seconda che fosse preposto o non ad a una metropoli ecclesiastica – in Oriente, eparchia - ovvero ad una provincia comprensiva di più diocesi suffraganee, subordinate al metropolita. Al di sotto dei vescovi stavano i presbiteri e i diaconi, questi ultimi con funzioni di assistenza ai vescovi e ai presbiteri, e con mansioni di tutela del patrimonio ecclesiastico e di assistenza ai bisognosi. Seguivano i suddiaconi, gli ostiari, gli esorcisti, i lettori e gli accoliti - che appartenevano agli ordini minori - il grado più basso della gerarchia, con compiti di assistenza liturgica degli ordini maggiori. Il conferimento degli ordini spettava al vescovo, che era scelto dal clero della diocesi, escludendo il popolo, che si limitava ad approvare per acclamazione. L’elezione del vescovo era al centro di importanti trattative tra i ceti dirigenti della città e i vertici del potere politico, generalmente l’imperatore o i suoi rappresentanti - come i governatori provinciali - anche perché i vescovi, nel IV secolo, acquisirono, proprio grazie alla legislazione costantiniana, competenze sempre più vaste anche in materia di assistenza sociale a vedove, anziani e orfani, di sorveglianza delle carceri e assistenza ai detenuti e persino in materia di bilancio delle amministrazioni cittadine e di approvvigionamento granario delle popolazioni (15).

Anche nell’esercizio di queste funzioni, l’operato dei vescovi era da esempio per i poteri civili. Una volta eletto, il vescovo suffraganeo era consacrato dal proprio metropolita, mentre il metropolita era consacrato da almeno tre vescovi suffraganei della propria metropoli. Tuttavia, nonostante l’importanza crescente della carica episcopale, fino alla metà del V secolo, l’organizzazione complessiva della Chiesa fu ancora collegiale, ovvero basata sull’accordo dei vescovi, espresso in sede sinodale, mentre il vescovo di Roma - il papa - conservava solo un primato morale, ma non giurisdizionale, conferitogli dal prestigio della sua diocesi che ospitava le reliquie di Pietro e Paolo, principes Apostolorum (16). La Weltanschauung cristiana influenzò ogni aspetto della legislazione costantiniana e non soltanto la normativa esplicitamente riservata alle questioni religiose e alla definizione dei privilegi del clero. Infatti, la nuova fede permeò anche la nuova disciplina dei rapporti giuridici tra soggetti privati, come le relazioni coniugali o genitoriali e le successioni ereditarie. Ad esempio, Costantino impedì il matrimonio dei cattolici con eretici e scismatici e quello tra cristiani ed Ebrei. Da quel momento, inoltre, gli Ebrei non poterono più avere servi o personale di fede cristiana al loro servizio. Gli eretici e gli scismatici furono colpiti anche dalla perdita della testamenti factio attiva e passiva, cioè della capacità di fare testamento o di ereditare, mentre i loro beni furono devoluti al fisco, alla stregua dibona caduca. Il divorzio fu reso più difficile e concesso in caso di grave inadempimento degli obblighi coniugali - divortium ex iusta causa - o in presenza di eventi di forza maggiore o caso fortuito (divortium ex bona gratia). Anche le facoltà giuridiche insite nella patria potestas del pater familias furono progressivamente limitate. Costantino proibì l’omicidio volontario del filiuso del servus- che rientrava nello ius vitae acnecisdel pater - la facoltà di esporre i neonati indesiderati – ius exponendi - e lo ius vendendi - la facoltà del padre di vendere i propri figli - fu limitato ai casi tassativamente previsti dalla legge. Nel campo del diritto penale, la legislazione costantiniana abolì la crocefissione - in omaggio alla passione di Cristo - e la marchiatura a fuoco sul volto, ma inasprì le pene contro i reati “sessuali” o offensivi del pubblico pudore, come l’infedeltà coniugale e l’omosessualità (17). La nuova politica costantiniana di tolleranza favorì anche l’edificazione di nuovi edifici di culto cristiani, di cimiteri e il riadattamento di edifici precedenti - in genere templi - agli usi sacri imposti dalla nuova religione. All’iniziativa edilizia costantiniana è da attribuire la costruzione delle basiliche romane di S. Giovanni in Laterano - a sud est di Roma - di S. Pietro - presso il colle Vaticano, sulla riva destra del Tevere - e di S. Lorenzo al Verano, sulla via Tiburtina. Ad Elena, madre di Costantino, è da attribuire l’edificazione della basilica di S. Croce in Gerusalemme, a Roma, presso il palatium imperiale - detto Sessorianum o Sessorium - e, in Palestina, delle basiliche del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, e della Natività, a Betlemme. S. Giovanni e S. Pietro furono, certamente, gli edifici più importanti costruiti grazie al patronato imperiale e destinati, rispettivamente, a cattedrale dell’arcidiocesi romana e a tempio del culto della Chiesa universale. S. Giovanni fu edificato nell’area occupata dagli Horti Laterani che, acquisiti al demanio imperiale, furono destinati ad ospitare la domus Faustae - residenza ufficiale di Fausta, moglie di Costantino - e la caserma degli equites singulares Augusti, cavalieri che costituivano la guardia personale dell’imperatore. Accanto a S. Giovanni furono edificati anche un battistero e un palazzo – patriarchio lateranense – sede ufficiale del papa e degli uffici della curia romana (18). S. Pietro fu edificato sul colle Vaticano, area non urbanizzata e in prevalenza boscosa che ospitava una necropoli cristiana, dove era collocata, fin dal II secolo, un’edicola funeraria che custodiva le spoglie dell’apostolo Pietro, martirizzato - secondo la tradizione agiografica - proprio in quel luogo, nel 67 d.C., sotto il principato di Nerone (54-68 d. C.). Tutte le basiliche costantiniane furono dotate di un ingente patrimonio immobiliare, fonte di rendite sostanziose, pertanto, può sostenersi, senza ombra di dubbio, che la “Roma cristiana” nacque, topograficamente, proprio con Costantino (19).

Note:

1 - Si veda, in proposito, il contributo Giuliano l’Apostata, un rivoluzionario al potere, pubblicato in questo sito.
2 - Costantino era nato in Mesia, a Naisso - attuale Niš, in Serbia - intorno al 270 d. C., ed era figlio, forse illegittimo, di Flavio Costanzo, generale di origine balcanica e, in seguito, imperatore, e di una locandiera, Elena (†336 d. C.), poi venerata come santa dalla Chiesa.
3 - Ufficialmente, ciò avvenne solo nel 380 d.C., con l’emanazione dell’Editto di Tessalonica, ad opera dell’Augusto Flavio Teodosio I (379-395 d. C.).
4 - La tetrarchia era un sistema di governo messo a punto dall’imperatore Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (†315 d. C.), tra il 285 e il 293 d. C. Ufficiale della guardia imperiale di origine dalmata - Valerio Diocle - meglio conosciuto col nome di Diocleziano, salì al potere il 20 novembre del 284 d. C. A partire dal 285 d. C., Diocleziano si dedicò al riordinamento amministrativo dell’impero, promuovendo importanti riforme costituzionali come l’istituzione della tetrarchia. Tra il 286 e il 293 d. C., infatti, Diocleziano associò al potere altri quattro imperatori, tutti uomini d’arme provenienti dall’Illirico; a se stesso e a Marco Aurelio Valerio Massimiano riservò il ruolo di Augusto e il governo dell’Oriente e dell’Occidente, agli altri due, Costanzo (†306 d. C.) - detto “Cloro”, cioè “Pallido” - e Galerio (†311 d. C.), il ruolo subordinato di Cesare. Con quattro imperatori ai vertici dello stato, Diocleziano credeva di aver risolto alcuni importanti problemi che affliggevano lo stato romano. Quattro imperatori, infatti, potevano accorrere sulle frontiere minacciate dai “barbari” con più facilità di uno solo e potevano sedare anche eventuali ribellioni locali, senza la necessità di spostare eserciti da un capo all’altro dell’impero. Il ruolo dei Cesari, inoltre, era quello di potenziali successori degli Augusti, perché Diocleziano aveva stabilito che, in caso di morte o abdicazione di un Augusto, il rispettivo Cesare gli subentrava, nominando, a sua volta, un potenziale successore. In tal modo si evitava anche ogni soluzione di continuità nell’avvicendamento al potere imperiale, uno dei maggiori problemi del III secolo. Per questi eventi, L. De Salvo – C. Neri, Storia di Roma.L’età tardo-antica, vol. I, Roma 2010.
5 - Massenzio era il figlio dell’Augusto Massimiano (†310 d. C.), suocero di Costantino e membro della tetrarchia. La guerra civile tra Costantino e Massenzio era esplosa nel 306 d. C. Infatti, nel 303 d. C., dopo la celebrazione dei suoi Vicennalia - anniversario dei vent’anni di regno - Diocleziano decise di abdicare, imponendo questa scelta anche al collega Massimiano. L’abdicazione fu fissata per il primo maggio del 305 d. C. e, secondo gli accordi, subentrarono nel ruolo di Augusti i rispettivi Cesari, Costanzo Cloro, per l’Occidente, e Galerio, per l’Oriente, che, a loro volta, designarono come Cesari, Valerio Severo e Massimino Daia. La situazione presto degenerò e si giunse nuovamente alla guerra civile: il 25 luglio del 306 d. C., infatti, Costanzo morì in Britannia e il figlio, Costantino, fu acclamato Augusto dalle truppe. A Roma, nel frattempo, Massimiano e suo figlio, Massenzio, furono proclamati Augusti il 28 ottobre. Valerio Severo, nel 307 d. C., penetrò in Italia, per domare la ribellione di Massenzio, ma fu sconfitto e ucciso poco tempo dopo. Nel 308 d. C., allora, Diocleziano abbandonò il suo ritiro di Spalato e intervenne nell’assise di Carnuntum, in Pannonia, convocata da Galerio per riportare ordine tra i contendenti. Massimiano e Massenzio furono esclusi da ogni incarico, Galerio e Massimino conservarono il loro ruolo in Oriente, rispettivamente, di Augusto e di Cesare, mentre, in Occidente, furono designati - come Augusto e Cesare - Licinio Liciniano e Costantino: Licinio ottenne l’Italia, l’Africa e la Pannonia e Costantino la Spagna, la Gallia e la Britannia. La guerra civile, però, riesplose e continuò fino al 313 d. C. Massimiano fu soppresso da Costantino nel 310 d. C., probabilmente a Marsiglia, Galerio morì, di morte naturale, nel 311 d. C. Massenzio - che non voleva rinunciare al titolo di Augusto - fu sconfitto nella battaglia di Ponte Milvio da Costantino, il 28 ottobre del 312 d. C., e morì annegato nel Tevere. Massimino Daia morì, nel 313 d. C., ucciso da Licinio. Licinio Liciniano, a sua volta, fu ucciso nel 325 d. C. da Costantino che divenne, così, l’unico imperatore. Per questi eventi, L. De Salvo – C. Neri, cit.
6 - Per la conversione di Ponte Milvio, Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, a cura di L. Franco, Milano 2009, I, 28-30, Lattanzio, Come muoiono i persecutori, a cura di M. Spinelli, Roma 2005, XLV, 5.
7 - Nonostante ciò, Costantino è venerato, ancora oggi, come santo dalla Chiesa ortodossa.
8 - G. Marasco, Costantino e le uccisioni di Crispo e Fausta, in «Rivista di Filologia e Istruzione Classica», CXXI, (1993). H. A. Pohlsander, Crispus: Brillant Career and tragic End, in «Historia», XXXIII, (1984).
9 - Il culto solare fu introdotto a Roma, ufficialmente, il 25 dicembre del 274 d. C., poi diventato diesnatalis Solis Invicti. Sulla figura di Aureliano e sulla sua politica religiosa, B. M. di Dario, Il Sole Invincibile. Aureliano riformatore politico e religioso, Padova 2002.
10 - Per il testo dell’Editto, Lattanzio, o. c.,XLVIII. Sulla conversione costantiniana al cristianesimo, M. Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart 2005.
11 - A. Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Roma 2002.
12 - Tra il 303 e il 304, furono emanati - per volontà di Diocleziano - quattro editti con cui, in un crescendo di sanzioni, si imponeva a tutti i cristiani residenti nell’impero, laici ed ecclesiastici, la consegna dei libri, degli arredi sacri e l’abiura, a pena di esili, condanne ai lavori forzati o alla morte. Le chiese cristiane furono distrutte - o convertite in templi pagani - e i cimiteri chiusi. La persecuzione, che infuriò più in Oriente che in Occidente, fece qualche migliaio di vittime. Per il testo dell’editto di Galerio, promulgato a Serdica, attuale Sofia, nell’aprile del 311, Eusebio di Cesarea, Storia cit.,VIII, 17, Lattanzio, o. c., XXXIV, 1-5.
13 - Sull’importanza dell’editto costantiniano, A. Corbin, Storia del Cristianesimo, Milano 2007, M. Guidetti, Costantino e il suo secolo. L’editto di Milano e le religioni, Milano 2013, C. Moreschini, Cristianesimo e Impero, Firenze 1973, E. Percivaldi, Fu vero editto? Costantino e il Cristianesimo tra storia e leggenda, Milano 2012.
14 - Sull’episcopalis audientia, M. R. Cimma, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano, Torino 1989. Sui privilegi ecclesiastici, in generale, G. M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna 2004.
15 - Sui poteri pubblici dei vescovi nella Tarda Antichità, si veda Codex Iustinianus, recensit P. Krueger, Berolini 1906, I, 3, 28, V, 4, 19.
16 - Per questi aspetti organizzativi della Chiesa del IV secolo, H. Drake, Constantine and the Bishops. The politics of Intollerance, Baltimore-London 2000.
17 - Sulla legislazione costantiniana, A. Guarino, Storia del diritto romano, Napoli 1997.
18 - H. Rahner, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo, Milano 1970.
19 - Per la politica edilizia di Costantino, L. De Salvo – C. Neri, cit.

Tommaso Indelli,

assegnista di Ricerca in Storia Medievale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno.

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Mater Matuta: la Colomba ed il Mito del ritorno – Giuliana Poli

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La saggezza della Terra
è ordine senza allineamento, si trova con tutto e con tutti. Il codice vibrante è il linguaggio della Madre perché noi possiamo evolvere e capire

(Giuliana Poli, tratto da” Dio è femmina”)

La genesi della Madre veniva officiata l’11 giugno, a Roma, con il culto di Mater Matuta (festa di origine etrusca), la festa delle BonaeMatres dell’Aurora. La ritualità ripropone il momento nel quale il femminino riproduce se stesso.  E’ la festa della rivincita femminile, in cui viene esaltato il ruolo della zia e delle sorelle che si scambiano la prole. Nei luoghi di questo culto era vietato l’accesso agli uomini, pena la morte. Erano presenti soltanto donne vergini o sposate una sola volta, il cui marito era ancora in vita e ne erano severamente escluse le donne in condizioni servili.  L’unica ammessa era una schiava che subiva il rituale del “venir cacciata” con schiaffi e colpi di verga, poiché il principio femminile non può ammettere nessun tipo di sottomissione. La malcapitata era di solito di proprietà del marito e quindi non libera. Per la nobiltà femminile della societas romana lo stato della donna schiava implicava “l’allontanamento dell’esser donna”, e lo star fuori da qualsiasi partecipazione ai culti dedicati al principio femminile stesso.  La derivazione di questa festa romana arriva da molto lontano, dal tempo in cui alcune donne speciali si autogeneravano.  E’ giunta l’ultima età dell’oracolo cumano: nasce di nuovo il grande ordine dei secoli.

Già torna la Vergine...

Già la novella prole discende dall’alto del cielo.”
Virgilio IV Ecloga (4-7). Nel primo matriarcato le Madri dee partorivano figlie a loro identiche. Ri- troviamo questa realtà, oltre che nella festa dell’11 Giugno, anche nei Misteri Eleusini, dove il mistero di Demetra e Kore/Persefone è solamente al femminile (se eliminiamo le successive aggiunte operate dai Greci con l’ingresso violento nella storia da parte di Ade). Demetra è una dea partenogenetica pre-ellenica che aveva creato spontaneamente dal suo essere, oltre che il mondo naturale, anchePersefone. Partenogenesi significa auto-concepimento. Dalle vergini divine scaturirono degli ordini sacerdotali fem- minini, le Ninfe, che aspiravano a replicare le capacità partenogenetiche delle loro madri. La parola Parthenos identificava proprio questa pratica: la procreazione di bambine speciali, future regine monadi, uguali alla madre. Ad un tratto, a cause di episodi violenti (si pensa ad Ade che rapì e imprigionò Persefone), questa tradizione fu spezzata dall’instaurazione del patriarcato, che negò il potere delle sacerdotesse facendo avvenire la “cadu- ta”: lo hierosgamos, un matriarcato “impuro” in cui avveniva l’unione fra una figura divina ed una umana. Le nozze sacre tra la sacerdotessa del tempio ed il futuro re avevano lo scopo di creare la discendenza patrilineare sacra. La divisione doverosa tra le due tipologie di matriarcati spiega e risolve molte cose, prima fra tutte la figura paradossale di Artemide che rifiuta l’accoppiamento eterosessuale ma che è anche la dea cui le donne si affidano durante il parto. Si comprendono anche gli strani stupri sulle ninfe di cui è piena la mitologia greca, perpetrati dalle divinità maschili come esempi d’intrusione nei misteri femminili della nascita divina. Questi fatti giustificano anche la “collera mitologica” delle dee gravemente offese che in molti racconti puniscono le ninfe coinvolte in simili episodi.

La colomba e l’ape: Dodona ed Erice

La colomba e l’ape rappresentarono i simboli della nascita divina delle sacerdotesse oracolari di Dodona e Delo . Il verbo “oracolare” significa non solo profetizzare, ma anche “sollevare”, “fare profezie”, “concepire nel grembo”. L’oracolo di Dodona, secondo Erodoto, fu fondato da una sacerdotessa egiziana portata lì perché rapita dai Fenici. Si fermarono in quel luogo per messaggio di una colomba, tanto che le sacerdotesse di Dodona furono chiamate “pleiades”, ovvero colombe. Molto probabile che questa città fosse stata fondata dai Pelasgi, i primi abitanti della Grecia.  Solo nel 1900-1400 a.C. questo luogo ebbe come dio Zeus, ma da Pausania si apprende che prima erano presenti solo le sacerdotesse, e questo è noto dai simboli religiosi evidentemente matrilineari. Le colombe, i cinghiali, le asce bipenni, i tripodi, i poteri profetici della quercia e le forme ctonie del tempio poi utilizzato da Zeus confermano un precedente culto della Madre Terra. Il primo nome formale di dea che apparì a Dodona è Dione, che deriva da “dis/dios”, la cui radice è “splendere”. I Pelasgi non davano mai nomi alle divinità, li chiamavano solo “theoi”: dei. Lo stesso nome Dione deriva da YVNH/ionah/ione/colombe. L’identificazione di Dione perdurò nel tempo, tanto da essere sacra anche ad Afrodite. Da Ionah potrebbe derivare Giona/Giano, che nella mitologia rappresenta i due solstizi. Nel tempio di Dodona la colomba faceva la spola con l’Africa, luogo di origine della dea; lo stesso avveniva nel tempio di Erice, dove il sacro volatile era in Sicilia e solo per nove giorni migrava in Africa come a ricordare l’antico centro oracolare delle origini. Sulla sommità di Erice (Trapani), posto sull’omonimo monte, anticamente era preesistente il luogo dedicato a Venere Ericina, un tempio ricchissimo e molto potente. Due grandi feste officiavano gli abitanti di Erice: Anagogie e Katogogie, cioè rito di partenza e di ritorno. Ecco cosa scrive Ateneo:

In Erice di Sicilia v’ha certi giorni che appellano Anagogia o dipartita, nel quale dicono che Venere si tramuti nell’Africa. Appresso al nono dì che dimandanoKatagogie o di tornata, una colomba svolazzando dal mare nel tempio di quella si posa, e le altre tutte le vengon dietro. Allora i ricchi per tutti in trono banchettano, gli altri menano gran festa, la contrada olezza di burro, indizio della ritornata divinità”.

Eliano, storico del tempo, aggiunge un particolare adducendo che la colomba precorritrice non è come le altre ma è “rossoreggiante”; la stessa cosa dice Anacreonte, che imitando Omero dipinse Venere come un’aurea porporina e questo si concilia con l’idea della Venere/Spirito di fuoco che ha forma di fallo, come la Venere steatopigia, che nella simbologia successiva è divenuta uccello-colomba.

Io sono ciò che è stato e che sarà e nessuno ha mai sollevato il mio velo


Il famosissimo testo legato a Iside Regina potrebbe essere un’allusione proprio al residuo culto della partenogenesi pura. La colomba quindi era simbolo di partenogenesi e non di procreazione eterosessuale, anche perché depone le uova senza copulare. Le sette sorelle, incarnazione delle sette Pleiadi chiamate colombe o gallinelle erano le sette amazzoni che accompagnavano Artemide nella caccia. Erotodo dà una spiegazione al motivo dell’importanza del volatile totemico: scrive che la lingua egizia fondatrice dell’oracolo, quando venne udita dai Pelasgi, sembrava proprio il pigolio della colomba, che assomiglia molto tra l’altro al rumore del suono cosmico. Tale musica, lo strix (da cui deriva strega)è tipico delle sacerdotes- se colombe “messaggere”, ovvero Anime che scendono ma che ritornano sempre alla Madre celeste, la quale “dimora eterna fra le stelle”. La colomba rappresenta quindi l’essenza della divinità stessa nel suo aspetto femminino. In Anatolia era sacra a Cibele, a Babilonia adIsthar, in Fenicia ad Asthor, A Roma ed Efeso ad Artemide. L’iconografia cristiana ha ripreso la colomba proprio da questi antichi culti femminili, ed incarna lo Spirito Santo.

Pleiadi e costellazione del Toro

La costellazione delle Pleiadi è vicina a quella del Toro, identificato con Orione/Zeus/Elios, anche se questa costellazione, in alcune tradizioni greche, era ricollegata non al toro maschio ma alla vacca, rimandando agli antichi culti femminili partenogenetici e ad Hathor, dea con le corna. Gli egizi chiamavano le Pleiadi Athurai, le stelle di Athir, ovvero Hathor: le sette Pleiadi con la dea che è l’ottava. Nel sacro Libro Egizio dei Morti si scrive “... che nel rituale delle sette vacche e il loro toro, il defunto, per essere ammesso al loro seguito luminoso, doveva rinascere dalle loro cosce e bere il loro latte divino o ambrosia”. Di questo latte si ciberanno tutte le divinità maschili o eroi. Il latte è la Via Lattea, da risalire all’indietro, da parte delle Anime, nel loro viaggio verso l’aldilà. E’ il luogo dove le Anime di luce si reincarnano, quindi è sede d’immortalità e centro dell’universo. Porfirio, nell’“Antro delle ninfe”, credeva che le Anime fossero riunite nella Via Lattea e s’incarnassero sia come ninfe che come api. Secondo il mito, entrambe si rigeneravano spontaneamente dalle carcasse del bestiame in decomposizione, quindi dal bovino celeste da cui le anime emergevano, che non è altro che la costellazione del Toro, o meglio di Hathor. Interessante notare che il filosofo afferma che gli antichi consideravano sacre non tutte le api (anime), ma solo quelle che vivevano in modo virtuoso, in modo da poter tornare in cielo “dopo aver fatto cosa gradita agli dei”, ovvero dopo aver eseguito bene il proprio compito terreno. Le api sono l’incarna- zione di anime speciali, le sante parthenoi. Da Porfirio apprendiamo che le Pleiadi facevano incarnare esseri divini e speciali. Platone, nel “Timeo”, scrive che le anime sono impiantate in una stella e che “quelle virtuose tornano a casa dalla stessa” e saranno nutrite con il latte che non è latte materno ma l’ambrosia dell’immortalità associata alle madri partenogenetiche che sono sette. Questo numero (7) se moltiplicato, non appartiene alla decade (10) e non è prodotto dalla moltiplicazione di alcun numero, ma solo da un’addizione 4+3 ovvero terra + cielo; per questo, essendo un numero primo, è associato alle dee, ad Atena per esempio, nata senza padre e senza madre. Gal (da cui deriva gallinella e quindi anima) è comunque chiamata la Via Lattea che in alchimia è la materia prima della grande opera. La parola Pelago, ovvero il primo uomo dell’origine nato sulla Terra, è dato da Pel + ago, una parola bifronte il cui inverso è Gal quindi Log + Gal + ape. In Pelago è presente non solo il Gal, il latte della vergine primordiale, ma anche il Pel, la pietra che racchiude il segreto del fuoco e anche ape. E’ una parola quindi che essendo bifronte rappresenta l’anima che scende con moto orario e sale nel ritorno in senso antiorario. Non è un caso che gli Egizi dessero più importanza alla morte, che nella realtà era una ri-nascita divina che avveniva con moto antiorarioe meno importanza alla nascita, che in realtà è la morte (senso orario). Entrambi i “moti temporali” sono rappresentati dal mito di Ianus bifronte ed è ora spiegabile come il nome del primo nato dopo la rottura dell’uovo cosmico sia “Pelago” (che abbiamo analizzato sopra), in quanto racchiude il concetto del movimento della ruota celeste rappresentato dalle Pleiadi e da chi cammina: il Sole.

Il “solve et coagula”

Tornando ai riti ericini e agli effluvi del burro durante la festa di cui parla Ateneo, in alchimia il cagliare il latte per fare il burro e coagulare il sangue sono simbolicamente lo stadio iniziale per la formazione di una creatura. E’ il mistero della vita chiuso dentro due sacre parole: “solve et coagula”, fondamento dello Spirito alchemico. E’ la forza trasmutatrice del fuoco di Venere che contiene in sé le gemelle, una è nell’etere la seconda creata a sua immagine e somiglianza nella parte terrena nei due aspetti: (la forma della colomba) in una (entità della colomba), principio di vita che crea e dissolve. Da ricordare che tutti i centri oracolari del periodo arcaico erano collocati tutti tra due monti gemelli e sulla pietra oracolare ovale erano incise le due colombe che andavano e tornavano, come nella realtà si alterna la parte spirituale a quella materiale dell’Una. Se ricordate La colomba del tempio di Erice è rossa, colore che simboleggia il fuoco dell’universo presente in tutte le manifestazioni e che alchemicamente trasmuta continuamente: la materia che crea, conserva e distrugge. Le tre manifestazioni del fuoco sacro (Philòs, Agape ed Eros) sono incarnate nel mito da Venere, la Una e la trina: Ar-Gal-Pel. Ar è la grotta, la fornace dove si crea la sostanza primordiale interme- dia tra le fiamme periferiche e la massa fredda umida centrale che girano in un “kirkus” che è alla base del circulus, cerchio da cui deriva Circe: “Colei che scatena le allucinazioni metamorfiche di trasformazioni sovrannaturali generative dell’universo”, circolare come il moto del Sole. Nel Sator dalla N centrale di TENET che in latino significa “per sempre”, parte la ROTAS e il suo contrario SATOR. AREPO è l’asse con il quale il seminatore regge la ROTAS. TENET regge ferma con ENE, racchiudendola la locuzione “per sempre”. Le colombelle quindi erano messaggere del piano materiale della terra (nera) e spirituale (rossa come il fuoco). Il numero nove (il tempo in cui mancavano da Erice per recarsi in Africa) è sacro poiché è il multiplo di tre, la perfezione, che sta ad indicare l’eternità, ovvero la triade femminile moltiplicata per se stessa come principio e fine del tutto. E’ il numero dell’iniziazione e della matrice per cui rappresenta l’archetipo femminino per eccellenza che feconda e genera. Questa alternanza è legata alle due porte solstiziali: la porta degli uomini terrena e materiale che è il Solstizio d’Estate (21 giugno) e quella degli dei legata al Solstizio di Inverno (21 dicembre).

Il mito di Dodona, proveniente dall’Africa e attecchito in Grecia come quello di Erice è l’antichissima storia delle prime antenate di gran parte della razza umana. Studi sul DNA mitocondriale evidenziano come tutti gli individui discendano da sette madri del mondo partenogenetiche. Su questa idea si fonda il culto di Mater Matuta, a Roma, che festeggia l’Aurora, gli albori del mito della donna autogenerata, indipendente, che ha scelto di esser prima madre, poi moglie, con una funzione assoluta e centrale nel sistema sociale in cui opera. Le matrone nobili romane conoscevano bene la loro origine. Mater Matuta è il ritorno ad Artemide, essere libero e autonomo nella scelta di divenire madre per assolvere al suo compito primordiale di essere matrice del tutto. L’abitudine all’esercizio della propria volontà le consente di non diventare dipendente da nulla e da nessuno, di portare a termine il compito riproduttivo assunto senza che questo diventi totalizzante per la sua vita. Pro- prio per questo le matrone schiaffeggiavano le schiave e scambiavano la loro prole solo con le sorelle come ancora fossero dee, come l’Aurora che prende in consegna il Sole o il fuoco, figlio della sua sorella Notte, e s’incarica di averne cura come fa una zia. Con questo culto le matrone ripercorrono il momento della genesi, della madre celeste Regina del Sole che caccia l’informità nera, respinge l’ostilità, le tenebre, come un eroico arciere caccia i nemici, insidie della notte. La medesima azione è mimata nei Matrinalia dalle BonaeMatres contro la schiava, in quanto rappresenta le forze malvagie, il negativo, che deve esser “cacciato via” sempre con lo stesso meccanismo: distruzione per ripristinare la giustizia della Luce. Mater Matuta porta il Sole ed è amorevole, buona e forte, tanto quanto è cattiva contro le demoniache tenebre. E’ l’impegno volontario assunto nei confronti dei flussi di energia vitale in continuo e costante rapporto con la Natura e con il cosmo nel suo insieme. L’ambivalenza del Sole splendente visibile (giorno) e di quello nero invisibile (Notte) per i Regveda, che sono gli inni della conoscenza indiana (I,24,8), è chiara: sono sorelle. Non è un caso infatti che il Sole venisse chiamato “La Sole”. Durante il giorno il Sole asciuga, la notte invece si riflette nello specchio argenteo della Luna che bagna la terra permettendo la vita (la scissione dell’1 in 3). Aurora rappresenta l’incarnazione che avviene attraverso la Luce, poiché è la geometria di ogni forma e sostanza universale. Insieme al calore si manifesta nel nostro mondo sensibile, ha bisogno della materia pura primigenia, ossia di particelle subatomiche e atomi che appartengono alla genesi. E’ la festa segreta, solo al femminile, uno spazio ricreato dalle donne romane ormai sottoposte al culto patrili\neare per ricordare la loro vera identità, derivante non da una femmina mortale, ma da una dea.

Giuliana Poli

Fonte: www.ishamagazine.it

 

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Gli Dèi e il Sacerdozio di Roma – Paolo Galiano©

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È opinione (fin troppo diffusa) presso gli studiosi di Storia delle Religioni che le divinità di Roma siano state plasmate a partire da quelle degli Etruschi e dei Greci, se non addirittura di popolazioni mesopotamiche, quasi che il popolo romano fosse stato incapace di avere una qualche idea su come si concepiscano gli Dèi, e che queste divinità altro non siano, nel migliore dei casi, che personificazioni delle forze della natura, dei procedimenti agricoli o di atti particolari della vita quotidiana. Sulla base di questa errata concezione Giano è un portiere che sorveglia chi entra e chi esce, Saturno è un protettore dell’agricoltura, Vertumno si occupa dei frutti autunnali, Vulcano è un fabbro zoppo, Vesta una brava donna che bada che il fuoco di casa rimanga acceso, Marte un guerriero coperto del sangue dei suoi nemici e Venere una donnina allegra. Un esame delle fonti originali e dei miti (1) conduce invece a risultati decisamente molto differenti: le divinità greche da cui vengono fatte derivare quelle romane hanno caratteristiche e funzioni che ne fanno figure del tutto discordanti rispetto a quelle degli Dèi romani, anzi nel caso degli Etruschi sono invece questi ad avere mutuato da Roma e dai Latini una parte del loro pantheon; il pantheon di Roma risulta in realtà costituito da figure archetipiche nelle quali si riconoscono le idee principiali costituenti la sfera divina che governa il mondo creato.

GLI DÈI DI ROMA
Gli Dèi di Roma non sono comparabili ad esseri umani come quelli greci, non vi è traccia per il periodo arcaico di una “mitologia degli Dèi”, non vi sono storie concernenti episodi della loro “vita” se non dopo che l’Urbe subì la “invasione culturale” dei greci, e testimonianza di questa non-mitologizzazione degli Dèi romani è l’assenza di statue che li raffigurano se non successivamente all’intensificarsi dei rapporti con le nazioni etrusca e greca, presso le quali invece gli Dèi erano rappresentati nelle statue e nei dipinti in forma umana e secondo le modalità espositive caratteristiche di questi popoli. Voler descrivere per esteso il vero significato di ciascuno degli Dèi di Roma è fuor di luogo in questo àmbito, per cui rimandiamo alle pubblicazioni che abbiamo definito “le biografie degli Dèi” (2) e in particolare al nostro saggio sulle feste romane (3), mentre qui riassumeremo solo i caratteri principali di alcune delle divinità di Roma.

- GIANO
Secondo gli autori latini Giano, del quale in Grecia non esiste un Dio corrispondente, è il primo e più antico degli Dèi di Roma: “Su questa terra che ora vien detta Italia regnò Giano che, come narra Igino sull’autorità di Protarco di Tralli, divideva paritariamente il potere con Camese, anch'egli indigeno (4), sì che il paese era chiamato Camesena e la roccaforte Gianicolo” (5). la Prima Roma, che ebbe nome Antipolis. Per la recente storiografia archeologica (6) Giano è una divinità precedente l’arrivo dei Siculi sui colli di Roma: egli rimarrà sempre il primo Dio, anche se con il passare dei secoli gli stessi Romani non sapranno più decifrarne il significato sapienziale. La sua raffigurazione come Dio bicipite, probabilmente da riferire ad una fase preindoeuropea di occupazione dell’Italia (7), ne indica la funzione di Dio del passaggio, dell’entrare e dell’uscire dal mondo fisico come da quello spirituale, colui che conosce il passato ed il presente, signore dei prima, mentre Giove è signore dei summa (8): suo sacerdote è il Rex Sacrorum, il primo dei sacerdotes, il quale ha nelle cerimonie il posto e i riti che erano propri del Re, e Giano è per eccellenza la fonte della regalità e l’archetipo del Re, funzione che più tardi passerà a Juppiter.
Il nome stesso di Giano, Janus, indica il passaggio, derivando dalla radice indoeuropea *ya (sanscrito yana = la via, latino ire = andare, come già aveva scritto Macrobio 9 ). In quanto primo e più antico, Giano è “colui che precede tutti gli altri Dèi, Janus Pater, il fuoco celeste che costituisce l’origine prima, il Principio di ogni generazione” (10), forse in origine ritenuto dai Romani come creatore dell’esistente, considerato che Ovidio dice di lui: “Io che ero stato mole rotonda ed informe / presi l’aspetto e il corpo convenienti ad un Dio” (11), passaggio dal non-differenziato al differenziato che indica la manifestazione della divinità in una forma concepibile per l’uomo. La capacità generatrice di Giano è connessa alla sua identificazione con il Sole e con il Fuoco cosmico grazie al quale viene in essere la creazione: “Certuni vogliono dimostrare che Giano è il sole, e quindi ‘gemino’ o duplice in quanto signore di ambedue le porte celesti: nascendo apre il giorno e tramontando lo chiude… La sua statua tiene nella mano destra il numero 300 e nella sinistra il 65 a simbolo della durata dell'anno, dominio specifico del sole” (12).

- SATURNO
Altra divinità antichissima nel pantheon romano è Saturno, che non ha in comune con il greco Kronos se non il rapporto con il tempo, mentre non ne condivide altre caratteristiche, quali ad esempio il divorare i suoi figli. Saturno, al quale venne dedicato alle pendici del Campidoglio il primo altare di Roma al tempo di Saturnia, la Seconda Roma, altare a lui dedicato dagli Aborigeni che avevano cacciato i Siculi dalla regione (13), trae il suo nome dalla radice indoeuropea *sat (14), da cui derivano in latino satis e satur, termini indicanti pienezza e soddisfazione, conseguenti all’abbondanza dei campi coltivati grazie alle tecniche da lui insegnate agli uomini, tra cui l’uso del concime (15), e sates (16), i campi seminati, in quanto a lui si attribuiva la conoscenza delle tecniche agricole: “A lui si fa risalire la pratica del trapianto e dell'innesto nella coltivazione degli alberi da frutta e la tecnica di ogni altro procedimento agrario” (17). Da qui trae origine la rappresentazione di Saturno con il falcetto (che diventerà la falce quando Saturno sarà confuso con il greco Kronos, divinità del trascorrere del tempo), per Macrobio (18) donato dallo stesso Giano al Dio, e segno della ricchezza, perché il falcetto è in rapporto non con la semina dei campi ma con la raccolta di quanto da essi prodotto. In un certo senso Saturno dà inizio al tempo, in quanto se Giano è “al di fuori della storia” ed è il Dio che dà inizio (19) al processo che porterà alla Roma storica ed assiste immutabile ed imperturbabile agli avvenimenti con una presenza costante ma “al di sopra delle parti”, Saturno è, per così dire, all’inizio della “storia mitica” (20), poiché costituisce il principio della civiltà, ma egli è anche alla fine del tempo, come dimostra la sua posizione calendariale con i Saturnalia posti al centro del mese di Dicembre e subito prima delle celebrazioni dedicate alla Dèa che conclude l’anno, Angerona, il che lo rende anche una divinità “pericolosa”. Questa sua “qualità pericolosa” è chiarita da Gellio, il quale riferisce (21) di aver trovato nelle preghiere pubbliche (“conprecationes Deum immortalium, quae ritu Romano fiunt”) riportate nei Libri Pontificales e in molte antiche orazioni il nome di una “qualità del Dio”, Lua Saturni, cioè la “Dissoluzione di Saturno”, chiamata da altri Autori Lua Mater (22). La “qualità” di un Dio corrisponde ad una sua fun¬zione considerata come divinità a se stante, così come Salacia è lo “Scaturimento” delle sorgenti sotterranee di Nettuno, Neriene Martis è la “Virilità” di Marte, ecc.: questa “qualità” di Saturno entra in modo particolare in azione nella cerimonia con cui si distruggevano le armi prese al nemico. Può sembrare a prima vista strano che la “dissoluzione” possa essere la “qualità” di una divinità apparentemente pacifica e civilizzatrice per eccellenza, ma Saturno è in realtà un Dio “pericoloso” per il suo essere, come si è detto, il “Dio della fine” temporale dell’anno che coincide con la fine di ogni legge posta a stabilire i limiti della convivenza civile, lasciando aperta la via alla libertà assoluta (23), libertà appunto pericolosa perché può essere mal utilizzata da chi non sa usarne nel modo dovuto.

- VERTUMNO
Vertumno o Vortumno, considerato uno degli Dèi “minori” di Roma (se mai un Dio può essere definito minore), è un Dio così arcaico che di lui poche tracce rimangono nell’archeologia, nella letteratura e nella religione di Roma, tanto da poter pensare che si tratti di quello che gli antropologi definiscono un deus otiosus, un Dio di tale antichità che le sue funzioni sono state trasferite ad altri Dèi e di lui è rimasto nel ricordo poco più che il nome. Il suo nome secondo Devoto (24) sarebbe passato dal vocabolario protolatino nel vocabolario protoetrusco in una fase antichissima di formazione del linguaggio, dando origine a Voltumna o Veltumna, il Dio venerato nel Fanum Voltumnae a Volsinii, mentre non esiste una divinità a lui corrispondente nel mondo greco (il semidio Proteo ha caratteri del tutto diversi da Vertumno). Ovidio in Metamorfosi XIV e Properzio in Elegie IV, 2, a cui rimandiamo, ci dànno gli elementi per comprendere chi sia in realtà Vortumno, un Dio antichissimo, conosciuto in Roma dal tempo degli ultimi re di Alba Longa della stirpe di Ascanio (25), in origine aniconico (26), non una divinità agricola dell’Autunno come si crede ma il signore dell’eterno mutamento (27), ed infatti il suo nome deriva secondo Devoto dalla radice verbale indoeuropea *wert, che dà in latino vertere e vortere “volgere” e in antico indiano parole con significato di “essere” ma anche “esistere”; secondo Radke (28) invece il nome deriverebbe da *vorta,*ur-tā o da *vortus, *or-tu, indoeuropeo *uŏr, *uĕr, che si ritrova in parole aventi significato di “amicizia, sicurezza, unione fra gli uomini e gli Dèi” e quindi “adempimento, esaudimento, cerimonia religiosa”, per cui Vortumno sarebbe “colui che porta o avvia il *vorta (compimento, esaudimento) del rito”, funzione che lo potrebbe collegare a Giano in quanto questi è il primo Dio invocato nelle formule rituali.

È stato osservato che questa sua capacità di trasformarsi si manifesta solo attraverso immagini umane o divine (può trasformarsi anche in Apollo e in Bacco, stando alle parole di Properzio 29), ma non di animali o di fenomeni meteorologici o altro ancora, a differenza di Zeus e del greco Proteo. La capacità di Vortumno di “vertere in omnia”, secondo un’altra etimologia del suo nome come Vertumnus = vert-(in)-omnis (30), non comprende solo la sfera degli esseri umani e divini ma si estende anche ad una funzione più ampia, quella di tutela sul buono e cattivo andamento delle fortune dell’individuo. Infatti Orazio (31) ci conserva un curioso modo di dire latino: “È nato con tutti i Vertumni sfavorevoli”, chiarito da Elio Donato (32), grammatico del IV secolo d.C., il quale nel suo commento all’opera di Terenzio spiega che la frase “Di bene vertant”, “che gli Dèi la mandino buon fine”, si spiega con il fatto che “il potere che gli eventi vadano nell’uno o nell’altro modo era per gli antichi una prerogativa di Vortumno”, perché “il Dio che presiede agli eventi affinché vadano secondo i desideri di ognuno è Vortumno”. Ma esiste un’ulteriore significato di questa divinità: la particolare localizzazione della statua di Vortumno sulla via triumphalis eretta nel Vicus Tuscus (di cui era ritenuto autore il mitico artefice Mamurio Veturio), la posizione del suo tempio sull’Aventino tra l’Armilustrium e il sepolcro di Tito Tazio, co-reggente insieme a Romolo della Quarta Roma, e non ultimo i caratteri dell’etrusco Veltumna, raffigurato nello specchio di Tuscania come un giovane Dio guerriero (33), consentono di ipotizzare che in una fase arcaica della storia di Roma Vortumno avesse un ruolo anche guerriero, di cui si è poi persa ogni traccia, e in particolare fosse connesso alle cerimonie del trionfo militare.

- VULCANO
Anche nel caso di Vulcano i suoi caratteri originari sono andati perduti con il sopraggiungere della interpretatio graeca, con cui Vulcano venne identificato con Efesto, e sono forse recuperabili per mezzo di quanto scritto dagli autori latini e dai luoghi di culto in cui veniva venerato, nonché da un esame degli eroi considerati suoi discendenti, i “figli di Vulcano”, e delle fratrie di fabbri a lui connesse per l’attività di forgiatori dei metalli con il fuoco. La connessione di Vulcano (34) con il fuoco è insita nell’etimologia del nome: gli Autori moderni lo rapportano alla radice *ulka da cui “tizzone” (35), sottolineandone il carattere igneo; Varrone (36) invece lo fa derivare da fulgur e fulmen: “Vulcano è detto così dalla grande forza e violenza del fuoco”, significato che ben lo connette alla furia vulcanica di cui diremo più oltre, mentre lo Skeat (37) lo fa derivare dal sanscrito varchar con significato di “luminoso”. Il “fuoco” di Vulcano è un fuoco al tempo stesso protettore e distruttore, il che lo rende un Dio “pericoloso”, ed infatti a lui era stato dedicato un altare antichissimo da Tito Tazio (38) ma nell’area del Foro Romano prima che esso esistesse, quindi fuori dell’abitato della Roma romulea. Sull’ara Volcani (identificata dal Coarelli (39) con quello che viene erroneamente chiamato Lapis niger) fin dall’età monarchica venivano bruciate le armi prese al nemico (40)ma in particolare quelle di chi si era offerto nella devotio quando colui che si era votato alla distruzione del nemico offrendo la propria vita era invece sopravissuto all’impresa (41): qui si rivela il doppio carattere di Vulcano, la cui capacità distruttiva per mezzo del fuoco doveva essere rivolta contro l’esterno, cioè contro il nemico, come anche, sul piano magico, contro le armi “pericolose” del devotus, “pericolose” perché caricate magicamente di volontà distruttiva. Accanto alla funzione di protettore di Roma Vulcano aveva presumibilmente anche quella di iniziatore dei giovani, come si potrebbe dedurre dal fatto che egli era considerato il padre dei Cabìri, degli Onnes, dei Calìbi e delle Telchinie, fratrie di Dèi o sacerdoti esperti nell’arte metallurgica ma anche aventi attività profetica e, almeno per alcuni di esse, connesse a rituali iniziatici. I fabbri, per la loro attività, possiedono i segreti della preparazione del ferro e dei metalli, segreti che vengono trasmessi solo ai loro discepoli, e sono rappresentati da quei “gruppi di personaggi mitici – Telchini, Cabìri, Cureti, Dattili – in rapporto assai stretto con il mondo ctonico (venivano presentati in caverne), con i metalli che lavoravano, con la musica e la danza, con la magia, con i culti misterici e i riti iniziatici giovanili” (42).

Dalla sua connessione con le attività sotterranee dei fabbri che traevano dalle profondità della terra i minerali da lavorare si potrebbe dedurre che Vulcano fosse il Dio del Fuoco sotterraneo, il fuoco dei vulcani ancora attivi al tempo della Roma storica: secondo gli Autori che hanno scritto della Saturnia Tellus (in particolare Di Nardo 43) egli sarebbe l’immagine dell’attività distruttiva del Monte Albano, per cui l’espressione di Festo circa l’offerta a Vulcano nel rituale privato (44) di piccoli pesci in cambio di esseri umani viene da essi interpretata come sostituto dei sacrifici umani fatti al Dio per scongiurare i tremendi effetti distruttivi delle eruzioni. Si noti che le vittime a lui destinate dovevano essere offerte in olocausto, cioè bruciate completamente, a differenza di quanto accadeva nel consueto sacrificio offerto agli altri Dèi. Da tutto quanto brevemente esposto risulta evidente che Vulcano non si limita ad essere un semplice fabbro e pure zoppo (questo per la contaminazione con l’Efesto greco) ma era figura di un Dio creatore e protettore, forse collegato ai rituali iniziatici propri delle fratrie di fabbri, probabilmente con i caratteri di un “fuoco sotterraneo” ed interiore capace di proteggere e di distruggere.

- VESTA
In apparenza Vesta compare nella storia archeologica di Roma nel periodo monarchico, quando viene costruito il suo tempio nell’area tra le pendici del Germalo e il Campidoglio; in realtà essa non era una nuova Dèa importata dalla Grecia, come alcuni autori pensano identificandola con Hestia, ma l’ultima personificazione divina di una serie di Dèe che erano venerate fin dalla più remota antichità, alle quali era attribuita una “specializzazione” del ruolo sacrale: “Vesta appare come la traduzione in culto pubblico e civico di una più antica divinità della terra, che permane come culto privato e segreto della casa del re: il culto di Ops, che potrebbe quindi essere intesa come la Vesta della dimora dei capi pre-urbani e proto-urbani succeduti a Caco sul Germalus (la Ops di Caco era Caca, venerata in seguito non a caso dalle Vestali). Vesta appare come il fuoco del focolare centrale della città, non sappiamo se coincidente con il fuoco del focolare del re” (45). Alle parole di Carandini dobbiamo obiettare che in primo luogo Vesta non è il “fuoco” ma il “focolare” sede del fuoco, in secondo luogo, per la sua condizione di Madre e Vergine, essa non coincide con una “divinità della terra”, funzione che spetta a Tellus, a Cerere e ad altre divinità consimili, ma è la “potenzialità creatrice” che attende l’azione di un “potere creatore” per generare non sul piano materiale (le messi o il bestiame) ma su quello immateriale del Potere la figura archetipica del Rex. È da rilevare che Vesta è l’ultima divinità romana a rimanere aniconica, come lo erano state tutte le altre in precedenza; come scrive Ovidio: “Fui a lungo così stolto da pensare esistesse una statua di Vesta, / ora ho imparato che nulla vi è sotto il tetto emisferico [del suo tempio]” (46). Forse per questa sua aniconicità, come suppone il Dumézil (47), essa non figura su alcuna moneta romana dell’antica serie detta “della prora di nave” (48). Vesta è divinità specifica deI Latini, i quali, soli tra tutte le popolazioni di ceppo indoeuropeo migrate nella penisola italica, ebbero e conservarono fino ai tempi storici il sacro culto del focolare (assente tra gli altri italici come presso i germani 49) e un corpo di sacerdotesse che di esso fossero le custodi.

Per quanto riguarda poi la derivazione di Vesta dalla greca Hestia, il Giannelli, pur essendo un assertore di tale identificazione, deve infine ammettere che “pur essendo la Vesta di stato romana, come divinità, una derivazione della κοινη εστια delle città elleniche, sarebbe vano tentare qualsiasi ravvicinamento tra il servizio del focolare di stato in Roma e quello dei Pritanei della Grecia… Le dissomiglianze fra il culto di Vesta presso il popolo Romano e quello delle κοιναι εστιαι nei Pritanei delle città greche sono oltremodo notevoli” (50). Mentre Hestia deriva da una radice *sueit con significato di “bruciare”, per cui Hestia è *suit-tia “il fuoco del focolare”, Vesta è da *wes (51), “abitare, dimorare” e quindi è la divinità della casa stessa, la quale in un certo senso custodisce tra le sue pareti il focolare. Se Vesta è il Focolare, ad essa deve corrispondere un Dio che sia il Fuoco (52) che vi arde, e se Vesta è Madre del popolo romano (53) il suo corrispondente deve avere le caratteristiche del Padre creatore, ma è arduo sapere il suo nome, perché nulla di certo possiamo dirne. Possiamo però ipotizzare che il Dio-Fuoco correlato a Vesta possa essere Giano, facendo nostre le parole di Baistrocchi: “Tale attribuzione dovrebbe con ogni verosimiglianza essere riservata a colui che precede tutti gli altri Dèi, Ianus Pater, il fuoco celeste che costituisce l’origine prima, il Principio di ogni generazione” (54). Dumézil conferma il rapporto tra Giano e Vesta e lo dimostra dal punto di vista rituale (55): il Rex Sacrorum è il sacerdote di Giano e il Pontefice Massimo, per la sua stretta correlazione con Vesta e le sacerdotesse vestali, può essere considerato il sacerdote della Dèa, e in tal caso l’ordine in cui i cinque sacerdoti principali, il Rex Sacrorum, i tre Flamini maggiori e il Pontefice Massimo, prendevano posto nei banchetti sacri manifesta in modo chiaro che il sacerdote di Giano è il primo e quello di Vesta l’ultimo; analogamente da altri scrittori romani viene affermato che nelle preghiere e nei sacrifici il primo posto spetta a Giano e l’ultimo a Vesta (56), in quanto il primo apre, essendo questa in modo eminente la sua funzione, e la seconda, punto di contatto tra il mondo degli Dèi e quello degli uomini, chiude ogni atto religioso. La capacità generatrice di Giano è connessa alla sua identificazione con il Sole, come scrive Macrobio (57): “Il sole, prosciugando l'umidità, diede origine alla vita… Per questo anche noi chiamiamo Giano padre, venerando con tale nome il Sole”. A differenza di quanto scrive Baistrocchi, che “la Dèa impersonava anche la maternità esuberante e prolifica”, ricordiamo che Vesta non è collegata, neanche nei miti tardivi, alla procreazione ma è sempre Vergine e tale rimane pur avendo l’appellativo di Madre, come afferma Dumézil “A differenza di Tellus e di Cerere, che sono fecondanti, produttrici, essa non presiede che all’elaborazione dell’alimento e ciò che le interessa è il pane, non il grano”, quasi agisse come motore immobile e passivo della Creazione.

- VENERE
Venere è forse la divinità che più di tutte ha subìto gli effetti negativi dell’interpretatio graeca e dei contatti tra Roma e le culture del Vicino e del Medio Oriente, con uno scadimento delle sue funzioni da Dèa della Grazia divina e signora della Vittoria e della regalità al ruolo di protettrice degli accoppiamenti, con tutte le varianti erotiche connesse dal matrimonio alla prostituzione. Nel nome della Dèa ritroviamo il suo più arcaico e profondo significato: per gli autori classici Venere veniva fatto derivare da vincire = “avvincere, unire” (58), etimologia tarda che la collega al mondo dell’eros, mentre il suo nome va invece riportato ad un neutro astratto *venus sostantivizzato al femminile, il cui significato è espresso dal verbo venerari, come chiarisce Dumézil (59): “Venerari è ‘cercare di piacere’, ‘rendere dei favori al Dio’, sperando di riceverne in cambio, senza negoziazione, un’altra forma di cortesia, la venia divina. [Venerari] non designa propriamente un atto religioso di amore, di bhakti: la pietà romana non comporta effusioni”, e venerari è letteralmente “esercitare la venus” nei confronti di un Dio, non secondo quel rapporto che potremmo chiamare “giuridico” che lega il romano alle sue divinità né tanto meno fideistico ma chiedendo ad esse un favore, una buona disposizione verso di sé. Venere è la signora della Grazia come potere magico (venia) che viene incontro alle richieste dei suoi fedeli, e questa forma del potere si rivela nella parola venenum (da venes-uom), che prima di divenire “veleno” nell’accezione attuale del termine è in realtà “filtro”, significante l’azione oscura della pozione magica e per esteso la modalità misteriosa con cui essa agisce. Questa azione di Venere è quella che altrove abbiamo chiamato “il potere venusiano”, che costituisce l’aspetto opposto alla modalità quasi contrattuale con la quale il romano chiede al suo Dio di realizzare ciò che domanda, il do ut des in cui si ha uno scambio potremmo dire alla pari tra uomo e divinità.

Il dominio di Venere, basato sul rapporto tra l’uomo che la venera e la Dèa che concede la venia, è quello della “grazia divina” e del “potere magico”, per cui può essere assimilata alla egizia Iside, la Signora della magia il cui nome si scrive in geroglifico con il simbolo del trono in quanto dispensatrice della regalità. Essa è la personificazione del potere femminile di cui parla Valeria alle donne romane per fermare Coriolano nella sua marcia contro la città: “[Noi donne ] possediamo una forza che non è posta nelle armi o nella forza delle mani, da questa ce ne esenta la natura, ma nella benevolenza e nella persuasione” (60). È il potere potenziale della Femmina che diviene potere in atto mediante l’azione del Maschio. La sua partecipazione ai due rituali dei Vinalia (61) nei quali Venere è unita a Giove, connessi all’uso magico e sacrale del vino quale sostituto del sangue dei sacrifici, costituiscono a nostro avviso l’espressione della religione di Roma nel simboleggiare in senso anagogico e non metaforico l’unione del Maschile e del Femminile.

- MARTE
Se Venere è figura del potere del Femminile (62), Marte è espressione del potere al maschile: Dio antico e comune a tutti i popoli latini, presso i quali, a quanto è dato sapere, si ritrovano sia il Flamen martialis che i sacerdoti Saliares che gli sono propri (63), egli è in origine aniconico, rappresentato da una lancia o da un giavellotto, e solo più tardi viene raffigurato con sembianze umane. Tutte le varianti del suo nome nelle diverse lingue latine (Mars, Mamers, Marmar) sono riportabili ad un Mauors- derivante a sua volta dalla radice indoeuropea *mar- da cui il sanscrito marikis, lucente (64), per cui Mars sarebbe “il Dio splendente”, quindi una divinità avente carattere solare e celeste, e d’altronde il Carmen Saliare gli attribuisce il tuono e lo chiama “Dio della luce” (65), titoli solitamente propri di una divinità uranica. Forse è per tale motivo che, come abbiamo suggerito in una nota precedente, uno dei rituali connessi all’uso sacrale del vino, i Meditrinalia, spetta a lui solo, rendendolo così pari a Giove. Marte è quindi una figura complessa, che si può ricostruire solo considerando secondario l’aspetto meramente guerriero, che è divenuto il suo attributo principale a causa della interpretatio graeca come forma latina di Ares: Marte è una divinità celeste che esplica la sua attività sul mondo creato mediante il mantenimento dell’ordine, se necessario anche con le armi, proteggendo l’esterno della città come i campi dei suoi cittadini, allontanando ciò che è male, i nemici umani ma anche le forze negative o comunque pericolose: “Tutta la sua funzione si esercita sulla periferia: indifferente alla natura di ciò che la sua vigilanza protegge, egli è la sentinella che opera al limite, sulla frontiera, ed arresta il nemico” (66). Questo lo si vede chiaramente nel suo aspetto di custode dei confini dei campi e dei possedimenti dell’agricoltore nel sacrificio privato del suovetaurilia, funzione nella quale è chiamato a tenere lontane le intemperie e le malattie dai campi e dagli animali, non a garantirne la fecondità e la crescita, perché queste sono azioni richieste ad altre divinità esclusivamente agricole (67). Altra azione del Dio è la sua tutela sui giovani maschi, che vengono iniziati come guerrieri sotto la sua potestà e per tale motivo egli è anche la guida divina del ver sacrum, l’emigrazione dei giovani di una città nati nell’anno in cui un grave evento aveva turbato l’ordine della nazione: la consacrazione di un’intera generazione è posta sotto la sua vigilanza affinché giunga senza pericolo alla mèta che la volontà divina le ha assegnato e l’ordine venga così ricostituito.

Per riassumere quanto abbiamo detto potremmo definire (per quanto un Dio possa essere “definito”) Giano come il signore del “passare”, spirituale o materiale che sia, Saturno l’ordinatore della realtà, Vortumno il Dio del “mutare”, del fluire, del trasformare, Vulcano il “Fuoco”, forse da intendersi come “fuoco sotterraneo”, Vesta il “luogo” dove si manifesta il Fuoco sacro, potenzialità di creazione che genera rimanendo vergine con l’azione creatrice del Fuoco, Marte la “maschilità” che protegge e difende, Venere la “grazia” che l’uomo ottiene dagli Dèi, il punto di collegamento fra i due mondi, così come, per fare altri esempi, Apollo è il “medico”, colui che previene e ripara i danni che la creatura umana o l’insieme del popolo possono subire, Cerere il “luogo” dove ciò che muore si tramuta in nuova vita, che siano i semi dei cereali o gli Antenati.

IL SACERDOZIO A ROMA
Per completare queste note sugli Dèi di Roma dobbiamo brevemente accennare al rituale con cui si rendeva il dovuto onore agli Dèi, il che ci introduce a un discorso complesso sul sacerdozio: a Roma è possibile distinguere un culto privato, spettante alla singola gens o alla familia (sacra gentilicia) o al pater familias (sacra privata), da un culto pubblico (sacra publica) amministrato da specifiche classi sociali (si pensi ai rituali della parte femminile della societas quali quelli di Mater Matuta o di Bona Dèa), o dalla classe sacerdotale (68)(sacerdos da sacer unito alla radice *dhē, da cui il verbo facio) che agiva in nome e per conto della civitas e dei suoi cives.

I sacerdoti, cooptati dal collegium o dalla sodalitas in cui entravano a far parte (69), con la sola eccezione del Rex sacrorum, dei Flamines e delle Vestali che dovevano essere nominati direttamente dal Pontefice Massimo, e in origine tratti dalla classe patrizia, erano “quasi sempre organizzati in collegi o sodalitates, non costituivano una casta, né una classe; non godevano di particolari esoneri, ma al tempo stesso non essendo I'esercizio di una carica sacerdotale incompatibile con alcuna altra attività (tranne che nel caso del Flamen Dialis), potevano di norma continuare a svolgere la vita abituale di qualunque cittadino romano” (70), in particolare ricoprire cariche civili. Era loro richiesta la cittadinanza romana, l’irreprensibilità della condotta, l’integrità fisica e la nascita legittima da genitori liberi. “Quale che fosse la classe sociale di provenienza, a tutti erano richiesti determinati requisiti: la cittadinanza romana, la nascita legittima e l’integrità fisica e morale. I vari sacerdoti erano nominati per cooptazione all’interno dello stesso collegio, ad eccezione del Rex sacrorum, dei Flamini e delle Vestali, che venivano nominati direttamente dal Pontefice Massimo” (71).

Queste brevi considerazioni fanno comprendere come a Roma il rapporto tra uomo e sacro costituente la base dell’azione rituale non fosse appannaggio esclusivo di una classe distinta, come si ha ad esempio nelle religioni cosiddette abramitiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, ma in qualche modo era pertinenza di tutto il popolo romano senza distinzione di sesso. I sacerdoti dovevano compiere un rito e il rito (da *rta, “misura”, iranico arta, “ordine cosmico che fonda la verità” 72), qualunque esso sia, cruento o incruento, è un’azione da compiere secondo norme rigorosamente codificate per mettere in contatto il sacerdote con la divinità, non in modo fittizio e allegorico ma reale, affinché sia stabilito e mantenuto in atto l’ordine della pax Deorum. Entrare in contatto con il Divino richiede una preparazione che si può ottenere solo attraverso l’esercizio di una via iniziatica e non semplicemente perché si ha l’etichetta di “sacerdote” incollata sulla toga. Un singolare esempio di come si debba intendere il rapporto che si viene a creare tra il sacerdote e il suo Dio lo possiamo leggere in queste parole scritte da una mistica cattolica contemporanea, Madre Trinidad della Santa Madre Iglesia (73): “Dove sono gli angeli per dare a Dio la gloria che gli dà il sacerdote di Cristo? Dov’è una creatura creata che sia innalzata alla dignità terribile di far scendere dai cieli il Dio vivo? Quando mai si è vista tutta la corte celeste, prostrata volto a terra in attesa sorprendente, adorare questo momento terribile in cui tu, sacerdote, pronunci su questo pezzetto di pane le parole di consacrazione e di vita che fanno correre qui rapido, davanti al tuo comando, lo stesso Dio intoccabile a introdursi in quell’ostia bianca per essere offerto da te all’immensità della Maestà divina?”.

Se, come scrive “Rutilio”, ”I sacerdoti [pubblici] erano pubblici magistrati, cui non si chiedeva alcuna preparazione specifica, né li si sottoponeva a riti di iniziazione”(74), dobbiamo arguire che il neo sacerdote doveva essere già iniziato di per sé per poter gestire il rapporto con il sacro, e tale iniziazione gli poteva solo provenire da quanto aveva compiuto in precedenza, in altre parole si trattava dell’iniziazione cominciata nell’adolescenza e proseguita fino al periodo di giovane adulto quando, maschio o femmina che fosse, entrava a far parte della societas romana con quello che supponiamo fosse l’ultimo rito, il passaggio per il Tigillum sororium del mese di Ottobre, “luogo” del compimento dell’iter iniziatico dei giovani e delle giovani sotto la protezione di Janus Curiatius e di Juno Sororia (75). Ne deriva, poiché l’espletamento di un rito era compito sia dei sacerdoti pubblici sia dei privati, che a Roma fosse normale per tutti, o almeno per gran parte dei suoi cives sia maschi che femmine, la condizione iniziatica.

Note:
1 - Come abbiamo più volte sottolineato in altri lavori, il termine “mito” va inteso nel suo reale significato, non “fantasia”, accezione che viene data nell’àmbito della cultura moderna per ignoranza della sostanza delle parole, ma secondo la definizione di Attilio Mordini: “Il termine mythos significa, almeno nel senso originario, parola, parola che si manifesta dal silenzio nell’atto segreto dell’iniziazione ai Misteri; e cela, ma al tempo stesso porge discretamente e rivela, la verità che nel gran silenzio primordiale è racchiusa” (MORDINI Il Tempio del Cristianesimo, Vibo Valentia 1979, p. 10).
2 - GALIANO Vesta, il Fuoco di Roma, Roma 2011; Mars Pater, Roma 2014; Venere, la Grazia divina, Roma 2014; Diana e Apollo, la selva e l’Urbe, con M. Vigna, Roma 2015; Vulcano, il Fuoco sotterraneo (in preparazione).
3 - GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma, Roma 2013.
4 - Camese per Macrobio è di sesso maschile, mentre per molti autori latini è una regina, divenuta successivamente moglie di Janus:
5 - MACROBIO Saturnalia I, 7, 19.
6 - CARANDINI (La nascita di Roma, Dèi. Lari. Eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997, pp. 113–137) nel dare un inquadramento storico alle origini di Roma, pone nell’Età del Bronzo Medio (1750 – 1350 a.C.) il primo insediamento stabile sul Campidoglio, al quale corrisponderebbe, sempre secondo Carandini, un abitato analogo sul Gianicolo, del quale però ancora non è stata trovata traccia (probabilmente situato nella sua parte più alta, la zona di Porta San Pancrazio, in coincidenza dell’antico tracciato viario, attuale via Aurelia). È da notare che la cronologia presentata da Carandini corrisponde quasi perfettamente a quella stabilita centotrenta anni prima da Camillo Ravioli nel suo Pensieri e studi diversi, parte I: Cronologia primitiva, stampato a Roma nel 1862, cioè in un periodo nel quale le tecniche di ricerca e le conoscenze archeologiche del sito di Roma erano di gran lunga inferiori alle attuali.
7 - DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus, Torino 1955, ritiene che “la sua figura bifronte può essere l’utilizzazione acciden¬tale di un tipo plastico mediterraneo” (p. 341); non vi sono nelle tradizioni indoeuropee figure di Dèi bicipiti, salvo la Dèa Aditi la quale è detta “dai due volti” perché è posta all’inizio e alla fine di ogni sacrificio (DUMÉZIL La religione romana arcaica, Milano 1977p. 293).
8 - Così VARRONE secondo la citazione di Agostino in De civ Dèi VII, 9.
9 - MACROBIO Saturnalia I, 9, 11: “Janus da ire, perché il mondo va sempre muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna”. Prima dell’affermarsi di questa tesi etimologica, Janus era fatto derivare da una radice *dei, *dia con significato di “brillare”, da cui sarebbero derivati (D)ianus, Di(vi)ana e Diana, tesi successivamente rigettata per motivi etimologici (D’ANNA Il Dio Giano, , Scandiano 1992, p. 23) e che si basava su di una affermazione di Nigidio Figulo riportata da MACROBIO Saturnalia I, 9, 8: “Nigidio dichiarò espressamente che Apollo è Giano e Diana è Giana, cioè Iana divenne Diana per l'aggiunta della lettera d che spesso viene premessa alla i per eufonia”.
10 - BAISTROCCHI Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, Genova 1987, p. 190; per il complesso argomento del significato di Giano e del suo rapporto con Vesta rimandiamo ad un’attenta lettura del capitolo V del testo di Bai¬strocchi pp. 188–248 e a GALIANO Il Fuoco di Vesta, Roma 2011.
11 - OVIDIO Fasti I, vv. 111-112.
12 - MACROBIO Saturnalia I, 9, 9–10.
13 - Per alcuni Saturno è un Dio non degli Aborigeni ma dei Siculi: Brex, nel suo Satur¬nia tellus, Roma 1944 p. 23, riporta l’etimologia stessa del nome dei Siculi alla sikala, il falcetto di Saturno.
14 - DI NARDO ne Il preistorico culto infero del Vulcano laziale, Velletri 1942, p. 33 dà un’interessante etimologia del nome:“Saturno (da Sat = il saturo, Ur = il fuoco), figlio del fuoco celeste Ur-an e di Vesta, il focolare terrestre” (sottolineature nel testo); identificando il Dio con il Vulcano Albano, vede nei tre figli che non furono divorati da Saturno (in realtà il mito è riferito al greco Kronos) le tre bocche fiammeggianti del vul-cano: “Vulcano-Summano (Giove infero), Nettuno-Tritone (il vulcano sorto dal mare, l’Enosigeo cioè lo scuotiterra) e Pluto (da pilum = pilastro) il Re dell’Ade, sinonimi del Saturno stesso nascosto o latente nel Lazio”.
15 - Per tale motivo Saturno era identificato con Sterculius o Stercutus, il cui nome deriva chiaramente dallo “sterco” come concime per i campi.
16 - VARRONE De lingua latina V, 64.
17 - MACROBIO Saturnalia I, 7, 25.
18 - MACROBIO Saturnalia I, 7, 27.
19 - Il Carmen Saliare chiama Janus con l'appellativo di Consivius, a indicare che, come “se¬minatore”, egli rappresentaù la causa prima della generazione.
20 - Che con Saturno abbia inizio la storia lo dimostrava secondo Macrobio Sat I, 8,4 la pre¬senza delle statue dei Tritoni sul frontone del suo tempio: “Sul frontone del tempio di Saturno furono posti dei Tritoni con trombe, perché dai suoi tempi ad oggi la storia è chiara e quasi parlante, mentre prima era muta, oscura e sconosciuta, come dimostrano le code dei Tritoni immerse nella terra e nascoste”. La connessione di Saturnus con i Tritoni è per noi un ulteriore simbolo della sua attività ordinatrice sulla creazione, raffigurata nel dominio del Dio sulle Acque simbolo della potenzialità generatrice; per questo i Romani lo consideravano il più grande degli Dèi, come scrive Macrobio Sat I, 7, 16: “Voi Romani celebrate Saturno con grandissimo onore, forse più di tutti gli altri dèi”.
21 - GELLIO Noctes atticae XIII, 23, 2. Così ne scrive DUMÉZIL La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 347: “Anteriori ai libri dei Pontefici, tanto antiche che il loro significato risulta talvolta incerto, sono le Entità femminili che le ‘comprecationes Deum immortalium, quae ritu romano fiunt’ congiungono a numerose divinità importanti, delle quali esse esprimono, sotto un certo aspetto, una fondamentale modalità d’intervento [quella che noi chiamiamo “qualità”]: ‘Lua Saturni, Salacia Neptuni, Hora et Virites Quirini, Maia Volcani, Herie Junonis, Moles et Nerio Martis’. Il medesimo processo si nota anche nel rituale umbro di Iguvium (Tursa Çerfia)”.
22 - LIVIO Historiae VIII, 1: “Il Console Gaio Plauzio [sconfitti i Volsci]… diede le armi dei nemici a Lua Mater”.
23 - Ricordiamo che nei Saturnalia i servi prendevano il posto dei padroni ed era lecito il gioco d’azzardo, altrimenti severamente proibito per tutto il resto dell’anno.
24 - DEVOTO Nomi di divinità etrusche III: Vertumno, in “Studi Etruschi” n° 14, 1940, pagg. 275-280; FERRI Voltumna-Vertumnus, in Ou pan ephemeron. Scritti in memoria di Roberto Pretagostini (a cura di Braidotti, Dettori e Lanzillotta), vol. 2, Roma, 2009 pagg. 993-1009, pag. 994.
25 - Così Ovidio.
26 - Properzio: “Non m'allieto d'un tempio d'avorio, / è sufficiente per me poter vedere il Foro romano… / Tronco d’acero ero, frettolosamente sgrossato con la roncola, / un povero Dio nell’amata Urbe già prima di Numa”.
27 - Sempre Properzio: “Sono chiamato il dio Vertumno per la deviazione del fiume; / oppure poiché v'è l'uso di recarmi i primi frutti al mutare delle stagioni, / credete che da qui derivi il culto del Dio Vertumno…/ Tu, menzognera fama, mi nuoci; il significato del mio nome è diverso: / credi soltanto al Dio che parla di se stesso. / La mia natura è adatta ad assumere tutte le forme”.
28 - HARMON Religion in the latin Elegist, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (a cura di TEMPORINI), Berlino-New York 1986, parte II vol. 16 pag. 1963.
29 - PROPERZIO Elegiae IV, 2: “Cingimi il capo di una mitra, ruberò la parvenza di Bacco,se però mi darai un plettro, la ruberò a Febo”.
30 - L’interessante etimo viene fatto notare da BETTINI Vertumnus: a God with no identity, in “I quaderni del Ramo d’Oro on-line” n° 3 (2010) pagg. 320-33, pag. 324.
31 - ORAZIO Sat II, 7, 24-25.
32 - Queste osservazioni su Vortumno sono basate sul lavoro di BETTINI Vertumnus cit.
33 - Per questo e per altri motivi l’etrusco Veltumna sembra aver mantenuto caratteri più arcaici rispetto al romano Vertumno, ormai quasi dimenticato a Roma.
34 - Notiamo come curiosità linguistica che la trasposizione del nome del Dio in quello del monte che erutta lava avviene in Italia nel Quattrocento e la prima citazione della parola “vulcano” nel significato attuale la si ritrova nella Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna del 1499, in cui il termine viene riferito all’Etna: “lo insaziabile vulcano Ethna”.
35 - CARANDINI La nascita di Roma cit. pag. 133 nota 27.
36 - VARRONE De lingua latina V, 10: “Ignis a gnascendo, quod huic nascitur et omne quod nascitur ignis succendit; ideo calet ut qui denascitur cum amittit ac friges Ab ignis iam maiore vi ac violentia Vulcano dictus. Ab eo quod ignis propter splendorem fulget, fulgur et fulmen, et fulguritum quod fulmine ictum”.
37 - SKEAT Etymological Dictionary of the English Language s.v. “Volcano”.
38 - Come scrive VARRONE De lingua latina V, 10, 74l’altare era dedicato a Summanus e a Vulcano: “Sono di lingua sabina le are votate e dedicate a Roma da Tito Tazio: come dicono gli annali, le votò a Ops, Flora, Vediovis e Saturnus, Sol, Luna, Volcanus e Summanus, Larunda, Terminus, Quirinus, Vortumnus, Lares e Diana Lucina”.
39 - COARELLI Il Foro Romano – età arcaica, Roma 1983, vol. I pp. 161–178.
40 - Si veda ad es. LIVIO Histotiae I, 37: “Tarquinio mandò a Roma bottino e prigionieri [cioè i Sabini sconfitti] e, dato fuoco alle spoglie nemiche secondo il voto che aveva fatto a Vulcano, continuò a spingere l’esercito nel territorio sabino”.
41 - DUMÉZIL La religione romana arcaica cit. pp. 284–285.
42 - CARDINI Alle radici della Cavalleria medievale, Firenze 1981 p. 55.
43 - Per Di Nardo e il vulcano Albano rimandiamo a GALIANO Roma prima di Roma, Roma 2016 (20111).
44 - FESTO: “Questo tipo di piccoli pesci veniva dato al Dio in sostituzione di anime umane” (in COARELLI Il Foro Romano cit. p. 163); vedi anche VACCAI Le feste di Roma antica, Roma 1986 (Roma 19271). p. 172 e nota 1 e SABBATUCCI La religione di Roma antica, Milano 1988, p. 199.
45 - CARANDINI La nascita cit. p. 518.
46 - OVIDIO Fasti, VI 295-296: “Esse diu stultus Vestae simulacri putavi / mox didici curvo nulla subesse tholo”.
47 - DUMÉZIL La religione cit. p 287 nota 16.
48 - Si tratta di una delle più antiche monetazioni romane (circa 225 a.C.), basata sui sottomultipli della libra, per cui è anche nota come serie “librale” (La moneta di Roma, a cura di CATALLI, Novara 2010, pp. 72-75), nella quale sono raffigurati in ordine discendente di valore monetale Giano, Saturno, Minerva, Ercole, Mercurio e Roma (non Bellona, come ritiene Dumézil, ibidem p. 192 nota 8).
49 GIANNELLI Il sacerdozio delle Vestali romane, Firenze 1913, p. 13 nota 1. Non ostante sia stato scritto ormai più di un secolo fa, il testo di Giannelli rimane molto interessante per il copioso materiale in esso contenuto.
50 - GIANNELLI Il sacerdozio cit. p. 27 e nota 6.
51 - DEVOTO Origini indoeuropee - Il lessico indoeuropeo, Firenze 1962, Tabelle, n° 441.
52 - Sul Fuoco sacro, sui rituali ad esso connessi nell’India vedica e il loro rapporto con Roma rimandiamo all’importante articolo di FILIPPANI RONCONI Agni-Ignis, metafisica del Fuoco sacro, in “La Cittadella” anno I, 2001, 4.
53 - Colui che aveva rapporti sessuali con una sacerdotessa vestale era accusato di incestum.
54 - BAISTROCCHI Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, cit. p. 190.
55 - DUMÉZIL Jupiter, Mars, Quirinus cit. pp. 342-349.
56 - Dumézil riporta tra le altre conferme della sua asserzione la serie delle divinità invocate nelle preghiere degli Atti dei Fratelli Arvali, alcuni passi di Ovidio e di Cicerone ed altre possibili concordanze, per cui si rimanda al luogo citato.
57 - MACROBIO Saturnalia I, 17, 42.
58 - VARRONE De lingua latina V, 10: “Non quod vincere velit Venus, sed vincire”.
59 - DUMÉZIL La religione cit. pp. 366–367.
60 - DIONISIO D’ALICARNASSO Storia di Roma arcaica VIII, 39, 2.
61 - Le offerte del vino vengono effettuate in due diversi momenti con la libazione rituale a Giove e a Venere nei Vinalia Priora del 23 Aprile e nei Vinalia Rustica o Posteriora del 19 Agosto, ai quali a nostro parere vanno aggiunte le Quinquatrus Minusculae del 15 Giugno dedicate al solo Giove e i Meditrinalia dell’11 Ottobre dedicati al solo Marte. Di questo abbiamo scritto in Marte e Giove: l’offerta del vino, pubblicato su Simmetria online nel 2014.
62 - Ovviamente Roma conosce molte e differenti espressioni del “potere femminile” che qui però non possiamo trattare: da Ops a Cerere, da Mater Matuta a Fortuna molteplici sono le forme che il “potere femminile” assume a Roma, a dimostrare, se ce ne fosse la necessità, come la sua religione ben sapesse che maschile e femminile sono due forme di espressione dell’unica Realtà superiore, che non possono prevaricare l’una sull’altra degenerando in uno stupido maschilismo o femminismo, deteriori e soprattutto inutili.
63 - Sono conosciuti a Tivoli i Saliares di Ercole, ma essendo Ercole non una divinità del commercio, come affermano gli autori moderni, ma un Dio guerriero come Marte; scrive infatti Macrobio: “Tale Dio anche presso i Pontefici è identificato con Marte” (Saturnalia III, 12, 5). Ercole va tenuto distinto dal greco Herakles, che è un semidio e non un Dio come Ercole: infatti il suo nome è composto con quello di un’altra divinità, “la gloria di Hera”, a significarne la dipendenza, il che non può essere concepibile per un Dio.
64 - LEWIS e SHORT Latin Dictionary, Oxford 1879, sub voce.
65 - Frammento 2 del Carmen Saliare: “Cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti / quot ibet etinei deis cum tonarem”. Il testo, scritto in latino arcaico del IV sec. a.C., può essere approssimativamente così tradotto: “Quando tuoni, o Luminoso, davanti a te tremano / tutti gli Dèi che lassù ti hanno sentito tuo¬nare”.
66 - DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus cit. pag. 194.
67 - Ancora oggi la maggior parte degli Autori considera Marte una divinità agricola, pregiudizio al quale già si era opposto Dumézil in particolare in Jupiter Mars Quirinus cit.
68 - Numerosi i testi e i saggi che trattano dei sacerdozi e dei sodalizi romani a cui per brevità rimandiamo, ricordando, oltre gli articoli più avanti citati, i testi di HUBERT Antichità pubbliche romane e idem Antichità private romane, Milano 1986 (riedizione anastatica della traduzione del 1902, ma sempre valido), e di “CLAUDIO RUTILIO” Pax Deorum, Scandiano 1989 (prima edizione Messina 1983).
69 - Fino al 367 a. C., quando con la lex Licinia Sextia i viri sacris faciundis furono portati da due a dieci, metà dei quali plebei. In seguito dal 104 a. C. furono eletti nei comitia calata da 17 tribù scelte a sorte fra le 35 che componevano la societas romana (“RUTILIO” p. 45).
70 - SANTI I viri sacris faciundis, Atti del II incontro di studio del “Gruppo di contatto per lo studio delle religioni mediterranee”, Roma 10-11 Maggio 2005, p. 172.
71 - Sacerdotes publici populi romani quiritium, in “Acta Bimestria populi romani”, anno I n° VI, Aprile-Maggio 2011, pp. 19-20.
72 - DUMÉZIL La religione cit. p. 85.
73 - Madre Trinidad della Santa Madre Iglesia Il grande momento della Consacrazione, Città del Vaticano 2000, p. 7 (sottolineiamo: “con licenza ecclesiastica”).
74 - “CLAUDIO RUTILIO” Pax Deorum cit. p. 43.
75 - Di tale rito abbiamo scritto in GALIANO Il tempo di Roma, Roma 2013, pp.333-337.

Paolo Galiano

"Questo saggio è estratto con il permesso dell'autore da 'Almanacco scientifico n° 3 - Atti del Convegno Religione e religioni', pubblicato dalle edizioni Simmetria, Roma 2018"

 

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Erected a Temple of Minerva Medica in Pordenone

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The Traditional  Association Pietas has erected a new temple, dedicated to Minerva Medica, in Pordenone.

This was announced by the president Giuseppe Barbera with the following words, which can be read in the official Facebook page of his Association:

"The temple of Minerva Medica in Pordenone, whose foundation stone was laid on the15th of August, is today, 20th of August 2771 ab V.C. accomplished in its essential geometry.

Starting from tomorrow on the works dedicated to the decorative apparatus will begin.

From today, the communities of the Traditional Italics of the Triveneto have a fundamental reference point for the return to the Sacred.

Pietas not verba sed res ".

On the 9th of August, still on the official Facebook page of the Association, the design drawings of the temple were published, developed by President Barbera and the structural engineer Tricoli, who's the Vice-President of Pietas and president of the CPPT KR club.

It seemed impossible, and yet in just four days the local Pietas militants, actively supported by the association's national board, managed to erect, in such a short amount of time, a splendid peripteral circular temple with a rectangular antis-shaped pronaos. To the east of the temple stands the statue of the Minerva Medica of Pietas;

<<in front of the temple the Mundus of the Sanctuary and the altar dedicated to the Goddess form a symbolically important and fundamental line for the connection between the human world and the divine dimensions of the sacred>>, this is what president Barbera told  us during our interview.

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The temple has already its own rector appointed by the president and is, since August 15, effectively active.

The function of this place - says Doct. Barbera - is fundamental for the pious components of the Italian North-Eastern area. Finally they have an associative place like us in Rome too, open to those who are interested in actually reviving the ancient Roman-Italic sacredness, where one can develop cultual and cultural activities related to the objectives of Pietas: promoting, spreading, revalorising the classical culture.

The temple is officially open to practitioners of the Roman-Italic tradition and to the practicing members of the Greek groups working for the rebirth of the cult of the Gods and with whom we are developing cordial  bonds of mutual respect, operativity and friendship.

First among them is the Thyrsos group, which with Pietas has agreed on an action program to try to make the Greek-Roman tradition re-emerge in the best possible way. Pietas also profoundly thanks the YSEE groups, who have so far expressed cordiality, hospitality and love for the same ideals of returning to the sacred.

We ask President Barbera, what drives the association to build temples?

Pietas is realizing the erection of Temples to the Deities to allow men driven by noble ideals and virtues, to have places where to rediscover the connection between men and Gods which, for two millennia, have been denied. Ours is a gesture of freedom guided by a profound spirit of sharing and love for what we do.

Will there be rites at the temple of Minerva Medica

Offerings to the Gods are performed at our temples, but it is also possible to request oracles, auspices, hold votes or even access civic initiation. Moreover, Minerva Medica is a deity of spiritual support for diseases and the worshipers prayed her to receive a suggestion of a good doctor or medicine to heal them. Together with Esculapio and Salus it belongs to the group of "therapeutic divinities", who are prayed in order to find cures to physical and psychological illness. Minerva Medica is for us the divine intelligence that illumines the doctor, who can often act, unconsciously, by divine intuition rather than by his own. At the same time, considering that many diseases actually arise from internal imbalances (it is the case of somatization), Minerva Medica is that virginal intelligence, free from fears and negative impressions (the terror of Jupiter of being dethroned is the reason why he eats his wife Meti), which allows the achievement of an inner equilibrium, capable of making us stronger spiritually in the face of evil and more courageous, which also helps us destroying the inner monsters (Minerva suggests to the heroes how to win Medusa, the Chimera, etc.) to lead to a new equilibrium that avoids somatization. Everyone can pray her freely, whoever wants also at our temple.

What do you mean by civic initiation?

From the strands of popular activity, we “extracted” that civic initiation that made the man a priest of himself and his family, who began and founded his path on the cult of the Lares and Ancestors, followed by the refinement of the practice to the Gods; the Romans enacted very clear laws about this, with a well-structured sacred right. Therefore, in our temples, as is still done today in Crotone during the pilgrimage to the temple of Hera Lacinia (for families still linked to ancient traditions), the teaching of the cult of the Lares and of the Ancestors can be performed, as long as the precepts referred by the rectors and priests of the temples are followed.

Access to the cult of the gods and to the internal colleges is possible for all those members of good will who want to practice the Tradition of their lands and their own ancestors.

How often will activities be held at the temple?

The structure is today novel, but we will provide a regular development of activities, just like at the temple of Jupiter. Certainly, starting from September, the first rites open to the public will take place.

Currently it is already possible to contact and request meetings to visit the temple and deepen the cultual and cultural activities of our association. It is sufficient to write an email to info@tradizioneromana.org. To know the activities in the program just consult the event page from time to time on the site www.tradizioneromana.org or the official facebook page of the Traditional Pietas Association https://www.facebook.com/Traditional AssociationPietas

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