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Approccio al Sacro

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Pietas

L’approccio al sacro è un’esigenza insita nello spirito dell’essere umano.

Ogni persona cerca la sua via e v’erge una forza a guida, sia essa il razionalismo più puro di un ateo od il misticismo sfrenato d’un fanatico religioso. Ma rimembriamo che la sapienza degli antichi romani recita: “in medio stat virtus”. La virtù sta nel mezzo, pertanto l’uomo sano è colui il quale trova il suo equilibrio nel punto medio tra due estremi. Chi fa ciò realizza un processo interiore che incomincia dalla mente; il pensiero è il primo mezzo che l’individuo utilizza nel suo cammino verso il Sapere. La “meditazione” è un’azione finalizzata a convogliare la persona verso il punto medio utile alla ricezione della giusta luce e analogicamente volta all’equilibrio. Così nel mondo antico erano appellati “filosofi” coloro i quali utilizzavano il grande potere della ragione umana per approcciarsi alla Verità; questi individui erano spesso a ridosso del tempio, altri più illuminati riuscivano a varcarne la soglia ed essere iniziati ai misteri. Pitagora venne iniziato nei templi egizi, poi in quelli della Caldea e suo maestro d’oriente, al dire d’alcune fonti, fu proprio Zoroastro. Socrate si pone con discorsi e forma mentis tipici del pensiero pitagorico, tanto che alcuni autori tardo-antichi lo definiscono un “pitagorico”. Plutarco venne iniziato ai misteri dionisiaci ed in tarda età divenne sacerdote a Delphi. Ipazia di Alessandria era figlia del rettore del Serapeo cittadino ed iniziati ai misteri isiaci e terapeutici. Così ancora ricordiamo Cicerone iniziato ai misteri augurali, Apuleio iniziato ai misteri isiaci ed osiridei, Celso, autore del “Discorso vero” era un iniziato, e così via. Il filosofo, l’amante della ricerca, incomincia il suo percorso distaccandosi dalla folla profana antistante al tempio, egli sale il primo gradino grazie all’uso della ragione, ma poi impara ad abbandonare la ratio a favore della Mens, un apparato divino interiore che permette il contatto col proprio Genio (Mens è la contrazione di meus ens, il mio ente interiore, ossia il Nume della persona) e l’ascenso alla  Luce intellettuale divina, che viene confermata nel Tempio. Infatti l’insegnamento misterico consiste in una conferma di Verità conquistate e raggiunte dall’iniziando.

Socrate, grazie alle sue meditazioni, sviluppò il contatto col proprio Genio interiore (Daimon) che l’avvertiva dei pericoli e gli indicava preziose perle di sapienza, che egli spiegava al discepolo solamente dopo che quelli l’avesse trovata nella propria interiorità.

Per comprendere meglio i concetti relativi all’iniziazione, bisogna prima capire come le fasi della vita spirituale di un uomo fossero organizzate all’interno della società romana.

Per gli antichi esistevano diverse condizioni di partenza relative alla condizione sociale di nascita, che passava di madre in figlio per eredità. Si poteva nascere schiavi, liberi o cittadini.

 

Lo schiavo poteva nascere tale o divenirlo per debiti o perché prigioniero di guerra. Egli doveva riscattare la propria libertà col lavoro dopo essere stato al servizio di una famiglia di cittadini benestanti (tanto da potersi permettere di comprare uno schiavo). Presso di loro imparava la lingua e gli usi latini ed il valore del poco denaro che riusciva ad accumulare, col quale poi avrebbe potuto comprare la propria libertà raggiunta una certa somma. Gli schiavi divenuti liberi erano detti liberti e si integravano immediatamente e perfettamente nella società, meglio di tanti figli di cittadini liberi e benestanti abituati ad avere tutto ed a volte inetti a procurarsi beni e ricchezze. Noti sono i nomi di moltissimi liberti divenuti abili commercianti ed arricchitisi fino a divenire cavalieri della Res Publica Romana. Il rito di emancipazione dello schiavo era una vera e propria iniziazione, una immissione alla condizione di cives.

 

Gli uomini liberi erano i non cittadini abitanti nei confini dell’impero. Essi erano considerati ingenui (ossia senza il genio)[1], generalmente avevano origini straniere e quindi praticavano culti differenti da quelli romani.

 

Il cives. Al compimento del diciassettesimo anno d’età i giovani romani abbandonavano la toga puerile per assumere quella virile; essi divenivano viri anzichè homines. Vir è colui che incarna la vis, ossia la forza, homo è colui che è fatto d’humus, di fango. Dalla vis del vir o della virgo proviene la virtus. Con l’assunzione dello stato di cittadinanza l’uomo otteneva diritti politici e religiosi. Tra quelli religiosi vi era la possibilità di poter praticare in privato per il proprio sviluppo spirituale, e dunque l’uomo diveniva sacerdote di se stesso. Se viveva nell’ambito della famiglia d’origine era comunque soggetto all’autorità paterna, anche in ambito religioso, qualora andasse a vivere da solo o costituisse un’altra famiglia, in tal caso diveniva suo iure pater familias. Il cives era un gentile, ossia un uomo che conosceva le qualità del proprio genio. Oggigiorno chi si definisce pagano anziché gentile deve ancora riuscire a liberarsi da una nomenclatura stereotipata che nasceva con fine dispregiativo nella tarda antichità, sebbene è da riconoscersi che il pagano d’oggi s’è fatto libero dalla schiavitù schematica del mosaico sociale contemporaneo e che a volte vuol rimarcare una purezza “rustica” e naturale; dunque egli è un uomo che tende alla libertà, ma ancora appartiene alla categoria degli ingenui perché non conosce la condizione qualitativa del proprio Nume. Tale cognizione si raggiunge con lo sviluppo di una determinata presa di coscienza, che è matematicamente consequenziale ad uno specifico stadio di purificazione interiore.

 

L’iniziazione. E’ una condizione d’incominciamento, è l’avvio ad una nuova fase interiore che sopraggiunge in sostituzione ad una condizione animica, intellettiva e spirituale precedente e superata. Le catene della sapienza sacerdotale antica, ricche di esperienze tradizionali millenarie, identificarono sette passaggi fondamentali, ai quali attribuirono delle nomenclature utili a definire il livello evolutivo di un individuo. Particolari esperienze, uguali per tutti, segnano il superamento di determinate porte. I pontefici ed i maestri iniziatori conoscono bene codeste esperienze ch’essi stessi hanno vissuto, e pertanto riconoscono il conseguito sviluppo di un neofita da un determinato evento, ch’essi ovviamente hanno già vissuto, e non da preferenze individuali. Dunque l’accattivarsi le attenzioni di un maestro è cosa inutile nella via tradizionale; mentre risulta importante l’azione pratica, poiché essa porta allo sviluppo spirituale, al rapporto col Nume e a manifestazioni concrete che avanzano l’uomo in stadi e condizioni superiori. Vi sono diversi tipi di iniziazione. Vi è l’avviamento alla via spirituale, che per intenderci corrisponde al battesimo nel cristianesimo o all’assunzione della toga virile nella tradizione romana. Vi è poi l’iniziazione sacerdotale che consiste nell’accesso al tempio. In tutte le tradizioni il percorso iniziatico è suddiviso in due fasi principali: la prima lunare e la seconda solare.

 

L’iniziazione lunare. I neofiti sono sempre in condizione lunare. Essi incominciano il percorso ascoltando per imparare, si fanno lune K del proprio maestro A che li illumina e li accresce con la propria sapienza così come i petali della rosa mistica contornano il centro del fiore. Chi ama il suo maestro in maniera disinteressata ne assorbe mano a mano tutta la Luce fino a divenire una Luna piena e dunque terminare la prima fase. Per alcuni si tratta di pochi anni di lavoro, per altri di un’intera vita, ma la condizione raggiunta rimane impressionata nell’anima e dunque, in una nuova incarnazione, ci si ritroverà già più avanzati spiritualmente rispetto alla massa comune. La fase lunare impone una forma, necessaria al raggiungimento di una essenza sublimata, non può essere saltata né rinnegata, altrimenti si giungerebbe alla pazzia. Chi vuole comprendere l’essenza delle cose deve prima analizzarne la forma.  L’ascolto è importantissimo per chi vuole imparare: Pitagora obbligava i suoi discepoli ad anni di silenzio prima d’iniziarli alla matematica apollinea. Apuleio viene prima iniziato ai misteri isiaci e successivamente a quelli osiridei. Così nel calendario romano, perpetuo ripetersi del mito, prima si svolgono le feste sacre a Giunone (novilunio e primo quarto di luna) e poi quelle a Giove (plenilunio).

Il discepolo perfetto è ricettivo, perché come egli ha la funzione di ricevere la Luce del Sole per illuminare il buio mentale che lo circonda ed essere fonte d’aiuto per le persone comuni non iniziate, dando ad essi consigli saggi e ponderati per quanto gli sia possibile, mai profanando gli insegnamenti ricevuti ma riflettendo l’amore del suo insegnante alla società.

Egli accetta le critiche e lavora costruttivamente abbattendo l’accidia spirituale, soltanto così potrà accedere ad una condizione superiore. Gli aspiranti dervisci che giungevano alla moschea di Mevlana, per quella filosofia esoterica islamica[2] che tanto prende dalla sapienza teologica antica, dovevano abbattere il proprio ego lavorando per mesi presso i forni del santuario dalla prima mattina, per poi distribuire pane ai poveri mendicanti che affamati andavano a chiedere l’elemosina presso il tempio di sapienza. Non si può raggiungere una volontà di potenza senza aver prima abbattuto il desiderio d’inedia insito nel seme dei piaceri animici oscuri nutriti dai fantasmi di concupiscenza. Così non possono aprirsi le porte del tempio a coloro che non abbiano abbattuto la cattiveria a favore della giustizia e della bontà. Le iniziazioni antiche non erano per i poveri di spirito, ma premiavano quei mendicanti d’ignea sapienza, che lavoravano per rendersi in grado di ricevere i raggi di un caloroso amore migliorativo.

 

L’iniziazione solare. La fase solare succede a quella lunare. Qui avviene il superamento delle condizioni passionali e s’incomincia il cammino per la propria realizzazione spirituale. Le virtù della Pietas vengono incarnate per raggiungere la condizione di Sole splendente. La conoscenza acquisita nella fase pregressa permette di rinascere come il Sole fanciullo d’inverno: egli sì è un Sole, ma ancora debole e piccolo ed incapace di portare una rinnovata primavera. Egli deve crescere e riuscire ad innalzarsi sempre più nei cieli fino al raggiungimento eroico del sole estivo e divenire dunque un magister, individuo creante per mezzo d’una energia magnetica ch’egli sviluppa per generare luce intellettuale. Come Ercole, Ulisse, Perseo e gli altri innumerevoli eroi della mitologia greco-romana dovrà compiere grandi opere per realizzare la quadratura del cerchio, ossia l’ordinamento equilibrato della propria interiorità. La parola dell’iniziato solare è sempre più coscienziosa, poiché conosce l’importanza del verbum, sempre più rada, poiché quando il Sole rinasce è festa d’Angerona, la domina silentii. Nella Magna Grecia pitagorica i matematici erano addentrati ai misteri apollinei. I Pontefici Romani in epoca imperiale assumevano come divinità tutelare un Nume Solare, così Augusto scelse Apollo, Nerone il Sole, Decio preferì Mithra ed Aureliano rinnovò il culto del Sole Invitto. Degli iniziati antichi pochissimi parlano di come si sviluppa il percorso solare: Apuleio sottolinea l’impossibilità di esprimere la meraviglia dei misteri osiridei, i pitagorici tramandano le regole degli acusmatici, ma evitano di menzionare quelle dei matematici, e così via. Essi infatti comprendono che la Verità è un’intelligenza che tutela se stessa svelandosi solamente ai silenziosi meritevoli, così Macrobio sottolinea che la spiegazione reale dei miti e l’accenno ai loro misteri, corrisponda al mettere le dee della Sapienza per strada, obbligandole a prostituirsi perché tutti possano averle. Per rispetto della meritocrazia sacra gli iniziati ai misteri non profanano il loro sapere. Potremmo aggiungere una considerazione importante: se la Verità è un’intelligenza che tutela se stessa, non svelandosi mai ai chiacchieroni, allora non può esistere la sua profanazione. Ma molti usano elargire intuizioni di piccoli frammenti della verità per sentirsi importanti e considerati, essi fanno un gesto d’orgoglio al quale segue sempre la punizione da parte del proprio Genio, che più non suggerisce loro la giusta visione delle cose. Questi sono piccoli profanatori, imbroglioni che vanno a caccia d’ingenui, soggetti che mai arrivano all’iniziazione solare. Cattivi sono i profanatori di pratiche interne del tempio, che compiono un gesto con l’intento di mettere in difficoltà la sapienza sacerdotale, ma pure quelli, fondamentalmente, non valgono nulla, poiché le pratiche sapienziali reali si trasmettono soltanto per via orale e per immagini, e nessuno che le conosca le spiega ad un altro. Infatti il processo sapienziale misterico non avviene per insegnamento, ma per riconoscimento: il maestro A da le pratiche, così come il sole emana il raggio di Luce portatore di calore ed energia, il discepolo K mette in pratica il rito e quando ottiene è perché ne è meritevole; quand’egli parla colla sua guida e spiega d’aver compreso cosa fare per realizzare il mistero, il maestro A semplicemente gli da conferma o meno su quanto ha riferito. Al limite gli da qualche perla di saggezza per aiutarlo, sicchè se c’è pulizia e rettitudine nell’allievo, quelli riceverà dal suo Nume la giusta indicazione per la conquista dell’agognato premio. Da ciò si desume che non può esistere una pratica scritta che tramandi un mistero, e che ogni pratica profanata sia un falso deviante dalla Veritas.

Il compito del maestro è quello di amare, dare il mezzo, valutare e riconoscere i progressi dell’allievo.

Purtroppo oggigiorno ignavia ed accidia imperano, motivo per il quale il sistema sapienziale del tempio antico trova difficoltà a ripresentarsi al volgo: è infatti questa un’epoca malata, ove tutto è dovuto e nulla è da conquistarsi, dove il maestro è messo in dubbio e criticato perché tralascia di compiere gli oneri dei suoi scolari, è questo il tempo di porci che s’abbuffano di perle solo per soddisfare il piacere istintivo d’ingoiare, eppure è questo il momento per gli eroi. Ma chi è eroe oggi? E’ colui il quale incarna con fatica la pietas, il corpo dei valori virtuosi, che s’impegna a trasformarsi da homo in vir per agire in maniera volitiva per il ripristino di un corretto sistema spirituale meritocratico, al quale necessariamente conseguirà un rinnovato ordine sociale, abbattimento della politica passionale a favore dell’impegno sano e corretto nei confronti della società.

 

Altre iniziazioni. Bisogna tenere presente che l’iniziazione consiste, fondamentalmente, al compimento di un gesto per passare da una precedente condizione individuale ad una nuova presa di coscienza.  Pertanto è iniziazione non solo quella templare, ma anche quella alla pratica rituale domestica (appunto l’assunzione della toga virile), è iniziazione alla vita erotica il primo rapporto sessuale, è iniziazione alla vita coniugale il matrimonio e così via. Corrispondendo ogni divinità ad una forza identificata nella natura, possono esistere differenti iniziazioni a diversi culti (terapeutici, cereali, dionisiaci etc.) utili a prendere coscienza di come quella specifica forza, definita divina, operi nella Natura. Così a Roma esistevano diversi collegi iniziatici, da quello augurale a quello arvale, ove gli addentrati divenivano esperti nella gestione di specifiche forze. Così le matrone, ad esempio, oltre all’accesso ad una nuova vita con la contrazione d’un matrimonio, venivano iniziate ai misteri di Bona Dia perché imparassero a gestire le energie sacre che si sviluppano nella realtà familiare, per svolgere serenamente ed al meglio la propria funzione. Così il legionario veniva iniziato al culto marziale della legione (che si sviluppava attorno le sacre insegne) ecc. Tutte queste altre iniziazioni, che si svolgevano negli appositi templi preposti, erano “specializzazioni” relative alle qualità geniali dell’individuo, esse non interferivano con il percorso iniziatico avviatosi con il passaggio alla condizione gentile, bensì l’arricchivano.

 

Pratica, iniziazione e rapporto con l’iniziatore. E’ possibile praticare la tradizione romana al giorno d’oggi? Certamente. Esistono varie associazioni, in Italia e all’estero, che si occupano di tradizione romana. Sta all’individuo il compito di esplorare e conoscere, fin quando non trova l’ambiente ed i compagni adatti a lui. Certamente gli uomini onesti e pii si accompagneranno a quelli come loro; mentre furfanti, imbroglioni, diffamatori ed improvvisati tradizionalisti attrarranno e terranno con se ingenui ed altri simili. Per il principio aristotelico “similia similibus” ognuno è attratto ed attrae gente simile a se. Chi dentro se stesso è evoluto, s’avvicinerà a gente evoluta, chi è involuto troverà nella sua ricerca gente involuta e s’assocerà a quella, talvolta disprezzando i gruppi validi solamente per invidia. Oro chiama oro, l’argento è attratto dall’oro perché prossimo a lui nella scala dei valori e migliore, piombo chiama piombo ed a volte disprezza l’oro perché irraggiungibile alla sua condizione attuale.  Quando si entra in un gruppo umano, lo si frequenta, quando si percepisce una sincera sintonia con i suoi membri, a tutti gli effetti si sta vivendo, per quanto blanda, un’esperienza iniziatica: s’incomincia a pensare con una nuova forma mentis e ci si approccia al sacro in base agli insegnamenti che si ricevono. Ma come si può comprendere se quelle nozioni siano corrette o meno? Purtroppo in giro è facile incontrare fanfaroni che s’improvvisano sacerdoti di grande esperienza. Il primo elemento da analizzare è se il gruppo sia realmente coeso o meno. La seconda cosa da guardare è la reale salubrità mentale dei suoi membri: se essi sono un gruppo di matti eterogenei, squilibrati anche nell’approccio al dialogo, che neppure riescono a rispettare la forma della lingua corrente, bene guardatevi da quelli e preparatevi ad una nobile fuga, alla maniera del rex sacrorum al 24 febbraio. Quando invece incontrate gente la cui pulizia si percepisce da lontano, la cui aurea vi rassicura, la cui sapienza vi pare acquisita dall’esperienza anziché dalla lettura, allora accostatevi ieraticamente, come lo si fa presso gli altari; comportatevi piamente, come se stesse dialogando con un dio occulto, e verificate se queste persone siano una corrente che si comporta con rettitudine e giustizia tra di loro, che siano gente ch’evita i pettegolezzi ed il parlar male d’altri gruppi o persone, e se nei vostri confronti saranno retti, bhè allora coltivatene una sincera amicizia ed incominciate a distinguere i metalli preziosi da quelli ignobili. Attenti a non approfittare delle persone giuste o preziose ed evitate cattiverie ed ignominie, altrimenti quelli vi puniranno occultandovi la loro luce e non dandovi mai più la benché minima considerazione.

Seppure abbiamo spiegato che il discepolo è Luna K di un Maestro A è bene mettere in chiaro alcune cose. Quando si frequenta un ambiente umano non si è costretti ad essere ricettivi alla guida spirituale di quel gruppo, bensì ci si deve accostare in maniera libera e pia (ovvero con buone intenzioni). Quando un individuo pensa di aver trovato il Sole adatto a lui, allora lì può liberamente scegliere di seguire i suoi insegnamenti, se poi li si reputa validi, sempre liberamente, può scegliersi d’intraprendere la via del discepolato. E’ come quando, raggiunta la maturità, alcuni scelgono d’iscriversi all’università; prima si riflette su ciò che si vuole divenire: un ingegnere, un medico, un biologo, un geologo ecc. Quindi si visitano gli atenei dove sia presente la facoltà selezionata, così infine ci si iscrive e s’incominciano a frequentare i corsi. Durante il corso di studi, dove l’allievo và per imparare e non per insegnare, si sceglie il docente da seguire e dunque la materia in cui laurearsi. Durante la tesi l’allievo è completamente Luna del suo maestro, che gli permetterà di divenire ciò che tanto si desidera e per cui si è molto studiato. Si laureano col massimo dei voti quelli che sanno ascoltare e ricevere gli insegnamenti del loro docente. Così è nel campo tradizionale, col superamento delle ingiustizie umane (raccomandazioni e nepotismo) poiché gli iniziati alla Sapienza del Tempio non giudicano, ma valutano e riconoscono i giudizi sentenziati dagli dei. Alcune persone, accostandosi alla Tradizione, s’arrogano il diritto di mettere in discussione la regole tradizionali che per millenni sono state praticate nelle caste sacerdotali di tutto il mondo e di tutte le religioni; essi inventano religioni più antiche, elaborando interpretazioni rocambolesche e viziate faziosamente, solamente per dare spazio al proprio orgoglio. Quegli individui, che si sentono più saggi di tutti i pontefici antichi, degli anziani sacerdoti d’ogni epoca, già si ergono al seggio della cattedra, pronti ad insegnare agli altri, senza neppure essersi mai iscritti all’università della saggezza. Non si può pretendere d’insegnare storia delle religioni alla facoltà di lettere senza neppure averne conseguito il titolo di studio. Una materia può insegnarsi solamente dopo averla imparata ed applicata nella propria vita. Nuove intuizioni e nuove conoscenze possono sempre raggiungersi, ma prima è sempre necessario imparare la basi della scienza e la sua storia, altrimenti non potrà mai esservi progresso.

Quando si decide di accedere alle pratiche di una collettività, innanzitutto bisogna riuscire ad entrarne a far parte, così come nell’antica Roma la cittadinanza era un diritto che si conquistava. Quando poi si raggiunge ed ottiene l’addentramento è bene cercare d’essere coerenti alla scelta fatta e cercare di seguire gli insegnamenti del centro che si è scelto. A volte dopo un po’ di tempo ci si può rendere conto d’aver sbagliato via o di preferirne maggiormente un’altra, così come molti studenti al secondo o terzo anno di corso decidono di cambiare facoltà e di fare nuovi studi. Ciò è lecito, l’importante è saper coltivare sempre la virtù dentro se stessi, ed anche quando si cambia via lo si deve fare con stile e non in maniera bifolca, altrimenti il senso dispregiativo della parola “pagano”[3] prende forma a discapito del valore di resistenza, coerenza e virtù dell’abitante del pagus.

Come praticare? Molte persone si costruiscono larari ove vivere la propria spiritualità più profonda, ma li profanano costantemente inviandone le immagini in giro per la rete o mostrandoli ad ogni visitatore della propria casa, quasi dovessero iniziarli ad arcani misteri. In tutto ciò vi è solamente un senso d’orgoglio che ricerca l’approvazione altrui. Per ciò che riguarda la pratica vera e propria ci si arrangia a scaricare preghiere dalla rete, e riesumarle da vecchi testi ed altro ancora. Si pratica senza preparazione, si vedono i desideri realizzati e non si comprende che questi svaniscono presto perché s’è mal lavorato, così pure disgrazie che vengono a seguire s’attribuiscono a forze malvagie che si scagliano contro di noi, senza comprendere che esse sono state generate dal praticare senza preparazione. Castità, digiuno e preghiera sono le tre regole tradizionali. Sia essa di mezza giornata o di un intero giorno, ma deve farsi. Non si opera a stomaco pieno e non si usano orazioni a caso. E’ sempre bene avere un riferimento sano che dia dei consigli.

Importantissimo! Chi vuol seguire una via spirituale lo deve fare per lo spirito, non per ottenere beni materiali. E’ bene pregare per il benessere delle persone che amiamo, per la salute, per la Luce intellettuale. Nella vita affrontiamo molte difficoltà ed afflitti siamo portati ad accostarci agli dei. Ciò è giusto. E’ cosa saggia chiedere agli dei di essere purificati dalle malvagità, è bene pregare il proprio Nume perché ci dia la forza di compiere con virtù le imprese della nostra vita e non pregarlo perché Lui le risolva per noi. Il gentile utilizza la vis per essere vir l’uomo e virgo la donna. L’uomo romano prende il controllo della propria vita, è lui il fautore del proprio destino, non gli astri. Questa forza interiore viene dal sacro fuoco interiore dello spirito, che dà l’energia e la luce necessaria ad una vita soddisfacente.

 

Rito al proprio Genio.

Per chi voglia realmente approcciarsi alla pratica tradizionale suggeriamo quanto segue.

Si preghi il proprio Nume, castamente, puramente. Non è necessario pregare misticamente tutti i giorni a tutte le ore. E’ più utile operare bene e raramente che spesso e male. Ci si astenga dai piaceri venerei e dalle carni prima di praticare. Si tralasci d’usare riti dei quali non si conosce realmente l’uso (quello infatti si conquista solo nel tempio). Suggeriamo l’inno orfico al proprio Genio per avere da lui l’aiuto di un buon consiglio e la forza d’affrontare i momenti difficili:

       

profumo del Genio

incenso

Invoco il Genio, la grande guida che dà tremore,

Mite Giove, generatore di tutte le cose, che dà vita ai mortali.

Grande Giove, sempre in movimento, che non lascia impuniti, re del tutto,

dispensatore di ricchezza, quando dovizioso entra nella casa,

quando è contrario raggela la vita dei mortali dalle molte pene:

in te infatti sono le chiavi della gioia e del dolore.

E dunque beato, santo, cacciando i dolori che causano molti lamenti,

quanti mandano la distruzione della vita per tutta la terra,

concedi uno scopo di vita glorioso, dolce e buono.

 

   

Riti di Catarsi.

Chi voglia realmente evolversi e trovare la sua giusta via dovrà purificarsi.

Gli antichi romani osservavano scrupolosamente le tre fasi principali della Luna: Kalendae, Nonae e Idi. Novilunio, primo quarto e plenilunio. In queste tre date si eseguano abbondanti lavande del corpo, ci si abluzioni al mattino ed alla sera, nella giornata si evitino i cibi provenienti da animali morti e si prediligano quelli vitali, come frutta e verdure. Al mattino si offrano incenso e si pongano fiori sull’altare del Larario, purchè ci si mantenga casti prima d’accostarvisi. Chi vorrà potrà recitare preghiere a Giunone alle Kalendae ed alle Nonae, mentre Giove sarà pregato alle Idi. Si onorino gli dei, non gli si chieda nulla per evitare di sporcarsi col desiderare. Infatti il desiderio distrugge la Volontà, che è volo dell’ente.

Ai solstizi ed agli equinozi si onori il Sole, evitando di cibarsi d’animali morti nel corso della giornata, ci si mantenga casti e si preghi il Nume Solare perché ci purifichi dai nostri mali e ci indichi la via della Salus.

Minervalia 19-24 marzo.

Se conoscete persone pie, eticamente sane e colme di saggezza frequentatele. Praticate e soprattutto studiate. Se volete meditare non perdetevi in esercizi mentali inutili, ma seguite gli insegnamenti pitagorici espressi nei detti aurei. Il pensiero ben lavorato è Mens sana in corpore sano e permette un migliore effetto nei riti catartici. Se volete realmente evolvervi spiritualmente, ai Minervalia pregate Minerva, colei che sostiene gli eroi che s’impegnano della via di ritorno alla monade; Eseguite dal 18 al 25 marzo regime alimentare vegetariano, castità assoluta e pregate ogni mattina la dea della Sapienza, dal 19 al 24, affinchè vi indichi la via per evolvervi nelle virtù della pietas. I buoni e puri avranno responso, e bene lo riconosceranno per azione divina. I malevoli saranno sviati o, nel migliore dei casi, ignorati.

Codeste perle saranno certamente utili ai puri, inutili agli empi.

Studio. Per approcciarsi bene alla via tradizionale romana suggeriamo lo studio dei classici greci e latini. In particolar modo si prediligano i neoplatonici. Un semplice manuale di storia della religione romana può essere utile per conoscere la basi più elementari del culto antico. Agli scritti sacri di Iliade, Odissea, Eneide, Bucoliche, Georgiche, Teogonia, Inni Omerici ed Inni Orfici si accompagnino anche quelli di Flavio Claudio Giuliano imperatore, infamemente detto l’apostata; ecco una lista di alcuni testi suggeriti:

  L’arte di Ascoltare,               Plutarco Dialoghi Delphici,                 Plutarco Discorso sulla verità,             Celso L’antro delle ninfe,                Porfirio Sugli dei e il Cosmo,             Salustio Saturnalia,                              Macrobio Somnium Scipionis,              Cicerone Commento al Somnium Scipionis,   Macrobio L’asino d’oro,                        Apuleio.  

Tra gli autori delle epoche moderne invitiamo allo studio delle opere di Giordano Bruno e dei neoplatonici, notevole “La filosofia occulta o la magia” di Agrippa per i continui rimandi a profonde cognizioni teologiche antiche.

Dei tanti autori contemporanei che cercano di studiare e comprendere il mondo romano, trovo metodologicamente geniale e perfetta l’opera di Enrico Montanari “Roma. Momenti di una presa di coscienza culturale”, pregna di un razionalismo accademico che si sublima per l’approccio matematico all’analisi degli eventi storici, fino ad identificare i meccanismi dell’azione metafisica applicata dai romani nella seconda guerra punica.

  NOTE [1] La distinzione tra ingenui e gentili è ben spiegata da Elio Ermete nel testo “Aspetti esoterici nella tradizione romana gentile”. [2] Il sufismo. [3] Pagano sta per villico, ignorante, bifolco. Venne utilizzato dai cristiani contro i gentili per svilirne la sapienza e perché i centri di campagna furono quelli più resistenti alla forzata conversione cristiana.

Vortumno: Il Destino e il Trionfo

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Vortumnus in un mosaico conservato presso il Museo Archeologico di Madrid

  di Paolo Galiano ©   (estratto da: P. Galiano Vortumnus, pubblicato su “Atrium” anno XVI n° 4, 2014)

Tra gli Dèi “minori” di Roma (se mai un Dio può essere definito minore) un posto particolare lo ha Vortumno (Vortumnus o Vertumnus), un Dio così arcaico che di lui poche tracce rimangono sia nell’archeologia che nella letteratura e nella storia di Roma. La sua arcaicità nel pantheon romano è dimostrata dal fatto di essere privo di un corrispettivo nel mondo greco, mentre in quello etrusco trova corrispondenza in Voltumna, il Dio venerato nel Fanum Voltumnae di Volsinii, in etrusco Velzna (città identificata da alcuni con l’attuale Orvieto e da altri, come Bloch e Scullard[1], con Bolsena[2]), da cui si è ritenuto per molto tempo che dipendesse Vortumnus come divinità “importata” dopo la conquista di Volsinii. Ma oggi si può affermare con certezza che “è di gran lunga il pantheon etrusco a mostrare un’impressionante serie di nomi di divinità derivati dal mondo e dalla lingua dei latini, tutti con etimo di chiara origine indoeuropea, a fronte di un unico possibile prestito di origine etrusca fra i teonimi latini: Volturnalia e Flamen Volturnalis, ossia la festa e il sacerdote di Volturnum, ritenuto in genere nient’altro che il nome etrusco del Tevere[3]. In realtà di Voltumna non è nemmeno certa l’esistenza come Dio: Voltumna dovrebbe

[caption id="attachment_7285" align="alignright" width="288"]Lo “specchio di Tarchies” proveniente da Tarquinia: la figura di destra è Voltumna (Veltune) raffigurato come un Dio giovane armato con lancia Lo “specchio di Tarchies” proveniente da Tarquinia: la figura di destra è Voltumna (Veltune) raffigurato come un Dio giovane armato con lancia[/caption]

esser considerato una “funzione” di Tinia, il sommo Dio etrusco, “solo un epiteto, probabilmente di natura gentilizia, di Tinia, lo Zeus etrusco[4]; unica attestazione certa del suo nome la si trova in uno specchio etrusco del III sec. a.C. proveniente da Tuscania noto come “Specchio di Tarchies” (ora al Museo Archeologico di Firenze), dove ha il Dio ha il nome di Veltune, mentre presso i popoli di origine non etrusca “alcune rarissime iscrizioni al di fuori di Roma lo menzionano in Umbria, in Apulia, sull’Adriatico, nella Cisalpina, ma nessuna in Etruria”.

Il nome Voltumna, di origine etrusca per le caratteristiche della sua formazione glottologica ma in modo evidente dipendente dal nome latino, sarebbe entrato in una fase antichissima del protolatino nella lingua dei protoetruschi[5] come attributo di una divinità connessa con il volgere dell’anno e questa arcaicità della trasmissione, a nostro avviso, avrebbe contribuito a mantenere in esistenza in Etruria i caratteri più arcaici del Dio (e in particolare i caratteri di divinità suprema in quanto Voltumna-Tinia), caratteri relegati invece a Roma a livello di favola poetica, con il passaggio di Vortumno a divinità di rango minore, ma conservatici da Orazio e da Properzio.

VORTUMNO: ETIMOLOGIA E FUNZIONI

La conoscenza delle funzioni di questo Dio ci sono state trasmesse in modo poetico da due Autori classici, Ovidio in Metamorfosi XIV e Properzio in Elegie IV, 2, che in questo modo ci hanno conservato particolari molto importanti per comprendere il significato del Dio: Ovidio narra il mito di come Vortumno convinse Pomona, la Dèa dei frutti, ad amarlo trasformandosi in una donna anziana che tesseva le lodi di lui, mentre Properzio fa parlare la stessa statua di Vortumno delle sue origini.

Dal testo di Ovidio sappiamo che il Dio era antichissimo, visto che l’episodio dell’amore per Pomona è fatto risalire al regno di Proca, il penultimo dei re latini padre di Numitore e Amulio e quindi bisnonno dei Gemelli, e che era visto dai Romani come un giovane splendido: “Vertumno riprese l'aspetto giovanile, abbandonando / gli abiti senili, e apparve a Pomona in tutto il suo splendore / come quando il disco del sole, squarciando la coltre / delle nubi, senza che nulla l'offuschi, rifulge luminoso”; la sua capacità di trasformarsi è senza limiti: “Considera poi che è giovane e da natura ha il dono / della bellezza, che ha l'abilità di trasformarsi in ogni aspetto: / ordinagli l'impossibile, all'ordine diverrà ciò che vuoi”, e, indizio molto importante considerata la sua successiva trasformazione in un Dio dell’Autunno, non è una divinità agricola che si occupa di agricoltura o di giardini ma ne coglie i frutti: “Non è il primo a prendersi / i frutti che ti stanno a cuore, a stringere lieto in mano i tuoi doni?

I versi di Properzio ci consentono di conoscere alcuni aspetti del rapporto tra Vortumno e Roma. Il Dio si dice “etrusco, nato da Etruschi” ma poi prosegue: “Il nome mi venne dato dalla lingua dei miei avi, / ispirato dal fatto che rimanendo uno mi mutavo in tutte le forme; / e tu, o Roma, mi attribuisti come ricompensa ai miei Etruschi”; questo potrebbe essere il ricordo di una situazione opposta, se il suo nome è “nella lingua degli avi” Latini e Roma lo ha dato agli Etruschi “come ricompensa” per aver aiutato Romolo nella guerra contro i Sabini.

Egli stesso si dice in origine aniconico: “non m'allieto d'un tempio d'avorio, / è sufficiente per me poter vedere il Foro Romano… / Tronco d’acero ero, frettolosamente sgrossato con la roncola, / un povero Dio nell’amata Urbe già prima di Numa. / A te Mamurio cesellatore della [mia] forma bronzea, / che con facile esperienza hai saputo fondermi, / la terra osca non consumi le mani sapienti”.

È il Dio che rivela il vero significato del suo nome: “Sono chiamato il Dio Vertumno per la deviazione del fiume; / oppure poiché v'è l'uso di recarmi i primi frutti al mutare delle stagioni, / credete che da qui derivi il culto del Dio Vertumno…/ Tu, menzognera fama, mi nuoci; il significato del mio nome è diverso: / credi soltanto al Dio che parla di se stesso. / La mia natura è adatta ad assumere tutte le forme”.

Le parole di Properzio sono confermato dai glottologi: il nome secondo Devoto ha origine dalla radice verbale indoeuropea *wert, che dà in latino vertere e vortere “volgere” (quindi nessuna differenza tra Vertumnus e Vortumnus), e la stessa radice genera in antico indiano parole con significato di “essere” ma anche “esistere”, in armeno “viaggio, emigrazione”, in hittita “confusione, mischia”. Radke[6] fa invece derivare Vortumnus da *vorta,*ur-tā o da *vortus, *or-tu, indoeuropeo *uŏr, *uĕr, che si ritrova in parole aventi significato di “amicizia, sicurezza, unione fra gli uomini e gli Dèi” (greco ϝεϝορτή, ἐορτή “festa” come rituale in onore degli Dèi), quindi “adempiere, esaudimento, cerimonia religiosa”. Vortumnus sarebbe “colui che porta o avvia il *vorta (compimento, esaudimento) del rito”, funzione che lo collegherebbe a Janus, presente per primo all’inizio di ogni preghiera o sacrificio, l’etimologia del cui nome comprende anche il significato di “via” presente nella radice *wert.

[caption id="attachment_7286" align="alignright" width="289"]Vortumnus in un mosaico conservato presso il Museo Archeologico di Madrid Vortumnus in un mosaico conservato presso il Museo Archeologico di Madrid[/caption]

L’accostamento tra Vortumnus e Janus si può vedere nel fatto che Janus, assente nel mese di Agosto, viene “sostituito” da divinità a lui affini come Dèi del “passaggio”: Vortumnus, colui che trasforma ogni realtà e, in un’interpretazione tardiva o comunque parziale, fa volgere le stagioni, Portunus, signore delle porte e dei porti, e Volturnus (nome etrusco del Tevere), il Dio dell’eterno trascorrere come lo scorrere della corrente del fiume.

La seconda parte del nome –umnus può dare origine a due diversi significati: Vortumnus come vortere annus, secondo l’ipotesi di Coarelli[7], e in quanto tale sarebbe il Signore delle stagioni, o come vortere omnia, come dice la stessa statua del Dio a Properzio[8]: “A me che, uno, mutavo in tutte le forme [formas vertebatur in omnis] / il nome venne dato dalla patria lingua per questo motivo”, per cui il nome potrebbe essere interpretato come Vert-umnus = vert-(in)-omnis[9].

L’etimologia proposta è consona alle parole di Servio[10]: “I nomi dei poteri divini [numina] traggono origine dalle loro funzioni”, sistema di interpretazione che gli Autori classici avevano adottato per spiegare le correlazioni tra il nome e la funzione degli Dèi, come ad esempio afferma Cicerone[11]: “Mater autem est a gerendis frugibus Ceres tamquam geres quoque Demeter quasi ge meter nominata est. Iam qui magna verteret Mavors, Minerva autem quae vel minueret vel minaretur… Principem in sacrificando Ianum esse voluerunt, quod ab eundo nomen est ductum, ex quo transitiones perviae iani foresque in liminibus profanarum aedium ianuae nominantur”.

È stato osservato che questa sua capacità di trasformarsi si manifesta solo attraverso metamorfosi umane o divine (può trasformarsi in Apollo e in Bacco, stando alle parole di Properzio[12]), a differenza di Zeus, che può avere forma umana o di cigno o toro o anche pioggia dorata, o del greco Proteo, anch’egli capace di mutare aspetto divenendo animale o pianta o elemento della natura. Questo vertere, il mutare aspetto, fa sì che egli non abbia una sua propria definita forma e quindi la sua statua era originariamente un ceppo appena sbozzato, “tronco di acero ero frettolosamente sgrossato con la roncola”, l’originaria forma aniconica del Dio, precedente il contatto con il mondo e la cultura dei popoli vicini, quando, vista attraverso gli occhi di un artista estraneo all’originaria religiosità romana, la sua figura viene “tradotta” nel modo in cui costui, provenendo da un’altra civiltà, etrusca o greca, concepisce le divinità, come nel caso dello specchio di Tuscania in cui Vertumno è raffigurato come un giovane barbato.

La capacità di Vortumno di “vertere in omnia” non comprende solo la sfera degli esseri umani e divini ma si estende anche ad una funzione più ampia, quella del Destino.

Orazio[13] ci conserva un curioso modo di dire latino: “È nato con tutti i Vertumni sfavorevoli”, chiarito da Elio Donato, grammatico del IV secolo d.C., il quale ci dà un nuovo significato del verbo vertere in relazione a Vortumno nel suo commento all’opera di Terenzio, spiegando che la frase “Di bene vertant”, “che gli Dèi la mandino a buon fine”, si spiega con il fatto che “il potere che gli eventi vadano nell’uno o nell’altro modo era per gli antichi una prerogativa di Vortumno” perché “il Dio che presiede agli eventi affinché vadano secondo i desideri di ognuno è Vortumno”. Quest’azione di tutela sul buono e cattivo andamento delle fortune dell’individuo confermerebbe l’esistenza di un rapporto tra Vertumno e Fortuna (in particolare la Fortuna Virgo del Foro Boario che si trovava topograficamente di fronte al tempio di Voltumna-Vortumno sull’Aventino), rapporto che per gli Etruschi corrispondeva a quello esistente a Volsinii tra il Fanum Voltumnae e il tempio di Nortia, divinità del trascorrere del tempo con caratteri simili a quelli della Fortuna romana[14].

VORTUMNUS E IL TRIONFO

La particolare localizzazione della statua di Vortumnus sulla via triumphalis[15], la posizione del suo tempio in una zona di carattere regale e guerriero (l’Aventino presso la tomba di Tito Tazio e il luogo dell’Armilustrium), le sue funzioni così vicine a quelle di Giano, con il quale condivide l’essere un “Dio del passaggio”, e non ultimo i caratteri del suo analogo etrusco Veltumna, raffigurato nello specchio di Tuscania come un giovane Dio guerriero armato di lancia, consentono di ipotizzare che in una fase arcaica della storia di Roma Vortumno avesse un ruolo particolare nelle cerimonie del trionfo militare, di cui si è poi persa ogni traccia[16].

[caption id="attachment_7284" align="alignleft" width="290"]Ricostruzione del percorso del trionfo a Roma (Galiano) Ricostruzione del percorso del trionfo a Roma (Galiano)[/caption]

Secondo il nostro punto di vista Vortumno nella Roma arcaica è il punto di riferimento del trionfo non perché assimilabile al greco Dionysos (come afferma Coarelli con un complesso ragionamento basato sul possibile rapporto tra le tre coppie costituite da Vortumnus e Pomona, Pomonus, di sesso maschile in Umbria, e Vesuna e Vesuna e Fufluns, il Dionysos etrusco[17]), dal quale differisce profondamente fosse solo per il fatto di non essere un Dio che muore e rinasce[18], ma lo è in quanto tale, divinità latina arcaica, il cui rapporto con il trionfo è dimostrato topograficamente dalla presenza della sua statua lungo il percorso della via triumphalis, e, guarda caso, proprio nel punto in cui la via triumphalis deve vertere per scendere in direzione del Circo Massimo[19].

Per comprendere ciò, si deve ricordare che il percorso che seguiva la via triumphalis, dopo che il corteo si era preparato nella zona del Circo Flaminio presso i templi di Bellona e di Apollo, iniziava dal duplice tempio di Mater Matuta e di Fortuna Virgo nel Foro Boario per entrare in città attraverso la Porta Triumphalis[20], risalire il Vicus Iugarius fino al Foro all’altezza della statua di Vortumno, quasi fosse un segno di ossequio al Dio[21], per poi discendere per il Vicus Tuscus e tornare al Foro Boario passando davanti alla statua di Hercules Triumphalis, attraversare il Circo Massimo fino all’inizio della via Sacra e percorrerla fino al Clivus Capitolinus, per completare infine la cerimonia innanzi al tempio di Juppiter O M sul Capitolium.

Il possibile rapporto tra Vortumno e Fortuna[22], sottolineato dalla posizione dei loro rispettivi templi[23], fa di essi l’esempio della coppia prototipica divina cui corrisponde quella umana costituita dalla Sacerdotessa di Fortuna Virgo e dal Rex (storicizzata a Roma nei rapporti che Servio Tullio aveva con Fortuna presso il suo tempio[24]), il quale ottiene per mezzo della Vittoria celebrata nel triumphus la sua divinizzazione con l’atto rituale della ierogamia.

Un’importante precisazione sul triumphus: l’etimologia comunemente accettata della parola triumphus e del grido triumpe! che accompagnava il passaggio del corteo la fa derivare, seguendo la testimonianza di Varrone[25], dal thriambos, il nome del corteo dionisiaco, termine che passando in etrusco e in latino diventerebbe triumphus per motivazioni glottologiche, come afferma Devoto nel suo Dizionario etimologico; però ricerche più recenti fanno derivare ambedue le parole, greca ed etrusca, “da una primitiva forma esclamativa di uno strato linguistico pregreco [da cui] si sono sviluppate indipendentemente le esclamazioni rituali greca, thriambe!, ed etrusca, triumpe!, con le quali si invocava l’epifania di un Dio[26]. A conferma dell’indipendenza a Roma del sostantivo triumphus dal termine dionisiaco dei Greci ricordiamo che il destinatario del trionfo, attraverso la figura del trionfatore umano, è Juppiter, il quale nulla ha in comune a Roma con Dionysos[27] (in Grecia esiste invece uno Zeus Bakchos), così come il triumpe che leggiamo nel Carmen Arvale non ha alcun rapporto con culti dionisiaci, e il tempio di Juppiter Liber citato a tale proposito da Coarelli[28] è probabilmente un errore dei tardivi Fasti Arvales per Juppiter Libertas; per quanto poi riguarda la possibile “importazione” del trionfo dall’Etruria, la celebrazione di Roma è molto più antica della forma propria agli Etruschi, visto che Romolo è il primo a celebrare il trionfo nella sua forma di ovatio[29], precedendo di quasi due secoli l’etrusco Tarquinio.

In conclusione, questo “Dio minore” sembra invece essere stato in un periodo arcaico della religione romana un Dio centrale del pantheon: se estrapoliamo i pochi dati archeologici rimasti e le qualità di Vortumno che ritroviamo negli scritti di Ovidio, di Properzio e di Elio Donato, integrandoli con quelli dell’analoga divinità etrusca, la quale sembra avere mantenuto intatto il ricordo più antico delle funzioni proprie a questo Dio, possiamo affermare che Vortumno è un aspetto di Giano quando era Giano e non Giove il primo Dio del pantheon romano, “specializzato”, per così dire, nei molteplici aspetti del mutamento, che concernono sia la generazione di nuove forme di realtà, in quanto crea esseri divini ed umani cambiando il proprio aspetto, sia la transizione da una fase dell’esistenza ad un’altra, in quanto Dio del Destino inteso non come predizione oracolare del futuro ma come concreta realizzazione di una possibilità diversa (i “Vertumni” favorevoli o sfavorevoli di Elio Donato).

  BIBLIOGRAFIA   AMIOTTI Nome e origine del trionfo romano, in Il pensiero sulla guerra nel mondo (a cura di Sordi), ed. Vita e Pensiero, Milano 2001 BETTINI Vertumnus: a God with no identity, in “I quaderni del Ramo d’Oro on-line” n° 3 (2010), pagg. 320-33 COARELLI Foro Boario, Quasar, Roma 1992 DUMÉZIL La religione romana arcaica, Rizzoli, Milano 1977 (ed. originale: Paris 1974) FERRI Voltumna-Vortumnus,in Braidotti, Dettori e Lanzillotta Ou pan ephemeron. Scritti in memoria diRoberto Pretagostini, vol. 2, Roma, Quasar, 2009 Roberto Pretagostini, vol. 2, Roma 2009 pagg. 993-1009 GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma, Simmetria, Roma 2013 GALIANO Venere, la signora della Grazia, Simmetria, Roma 2014 HARMON Religion in the latin Elegist, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (a cura di TEMPORINI), De Gruyter, Berlino-New York 1986 PALLOTTINO Etruscologia, Hoepli, Milano 19977 SCULLARD Le città etrusche e Roma, Il Polifilo, Milano 19772 (ed. originale: London 1967) TORELLI La forza della tradizione, Longanesi, Milano 2011   [1] SCULLARD Le città etrusche e Roma, pag. 132. [2] Città dove vennero deportati gli abitanti di Volsinii dopo la conquista della città: PALLOTTINO Etruscologia pag. 278. [3] TORELLI La forza della tradizione pag. 39. [4] DUMÉZIL Rel rom arc pag. 300. [5] FERRI Voltumna-Vertumnus pag. 994. [6] HARMON Religion in the latin Elegist, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt parte II vol. 16 pag. 1963. [7] COARELLI Foro Boario pag. 424. [8] PROPERZIO Elegiae IV, 2 (“At mihi, quod formas unus uertebar in omnis / nomen ab euentu patria lingua dedit”). [9] L’interessante etimo viene fatto notare da BETTINI Vertumnus: a God wit no identity pag. 324. [10] SERVIO Ad Verg Geor I, 21: “Nomina numinibus ex officiis constant imposita”. [11] CICERONE De natura deorum II, 67 (la sottolineatura in grassetto consente la visibilità delle etimologie ciceroniane). [12] PROPERZIO Elegiae IV, 2: “Cingimi il capo di una mitra, ruberò la parvenza di Bacco,se però mi darai un plettro, la ruberò a Febo [cinge caput mitra, speciem furabor Iacchi;furabor Phoebi, si modo plectra dabis]”. [13] ORAZIO Sat II, 7, 24-25. Le osservazioni su Vortumnus come divinità del Destino sono basate sul lavoro di BETTINI Vertumnus: a God with no identity pagg. 326-332. [14] L’identità tra le due Dèe è sostenuta da COARELLI Il Foro Boario pag. 423. [15] Vertumno era onorato dal tempo di Numa Pompilio, secondo quanto scrive Livio Hist XLIV 16, con una aedicula ed una statua, di cui era ritenuto autore Mamurio Veturio, nel Vicus Tuscus all’altezza della Basilica Sempronia, sostituita in seguito dalla Basilica Iulia, dove il Vicus Tuscus terminava nel Foro Romano in prossimità del tempio dei Castores, quindi alla sommità della palude del Velabro. [16] Vortumno è celebrato ad Agosto mentre la fine delle campagne militari si celebrava con l’Armilustrium di Ottobre: la differenza di due mesi può far ipotizzare che ci si trovi dinanzi ad un fenomeno di “slittamento temporale”, più evidente nei cicli agricoli della coltivazione del cereale e della preparazione del vino, di cui si è detto in GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma pagg. 30-34, in parte corretto ed ampliato in GALIANO Venere, la signora della Grazia. [17] COARELLI Foro Boario pagg. 420-437. [18] Coarelli cerca ovviamente di imporre a Vertumno i caratteri di un “dio che muore”, visto che anch’egli lo interpreta more solito come un “dio della vegetazione”. [19] Questo rapporto tra statua e via triumphalis potrebbe valere anche per il suo tempio: RICHARDSON A new topographical dictionary, sub voce “Vortumnus, aedes” afferma che la posizione del suo tempio sull’Aventino era tale che “si potesse avere una visuale dall’alto della via triumphalis”. [20] La Porta Triumphalis si identifica con la Porta Carmentalis (l’antica Porta Ratumena - COARELLI Foro Boario pag. 414), un duplice arco situato nello spazio antistante i templi di Mater Matuta e Fortuna Virgo (COARELLI Foro Boario pag. 371; per l’argomento si vedano pagg. 363–414): l’arco di sinistra, per chi esce dalla città, è la Porta Triumphalis, quello di destra è invece la Porta Scelerata, dalla quale si entra in città e per cui invece passarono i trecentosei Fabii nella sfortunata impresa contro Veio, il cui omen negativo era dato dal fatto che essi uscirono dalla porta sbagliata, quella destinata all’ingresso. [21] Per Coarelli questo salire e poi scendere per due strade che in fondo erano tra loro parallele era dovuto alla presenza del Velabro che si incuneava tra le due, per cui il corteo era costretto a seguirne le rive: strano però che ancora nell’età imperiale, quando il Velabro era ormai prosciugato da secoli, si fosse mantenuto lo stesso percorso. [22] COARELLI Foro Boario pagg. 424 ss. [23] Il tempio di Vortumno, di cui non sono stati trovati i resti, è posto dagli archeologi sul lato nordovest dell’Aventino e quindi di fronte a quello di Fortuna Virgo, situato ai piedi del Palatino nel Foro Boario. Le due divinità  formavano così i due poli maschile e femminile della stessa funzione trionfale. [24] Su Fortuna, Servio Tullio e la Porta Fenestella si veda GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma pagg. 228-230. [25] VARRONE De l l VII, 7 collega la parola triumpe al greco thriambos, specificando che questo è il nome greco di Liber (più tardi identificato con Dionysos), che per Plinio Nat hist VII, 56 fu l’inventore della cerimonia del trionfo (“Liber pater triumphum invenit”). [26] AMIOTTI Nome e origine del trionfo romano pagg. 105–106. [27] I rituali di Juppiter connessi con il vino (Vinalia Priora, Vinalia Rustica, Meditrinalia, forse Quinquatrus Minusculae) nulla hanno a che vedere con il vino come mezzo per raggiungere l’estasi mistica dionisiaca, sono invece segno del potere proprio al Dio ro­mano. Il complesso argomento delle feste del vino a Roma e del rapporto tra Venus e Juppiter è stato esaminato in GALIANO Venere, la signora della Grazia. [28] COARELLI Foro Boario pag. 421. [29] PLUTARCO Vita Rom 16. Conferma COARELLI Foro Boario pag. 430: “Il trionfo minore noto come ovatio non è altro, con tutta probabilità, che la cerimonia latina più arcaica, anteriore all’età dei Tarquini e all’introduzione delle forme etrusche”.

L’Equinozio di Primavera e gli Dèi di Roma – Paolo Galiano ©

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Il mese di Marzo costituisce il momento della generazione della potenza di Roma per mezzo di una serie di celebrazioni aventi il carattere specifico del rinnovamento, a cominciare dal sacro Fuoco di Vesta, simbolo del rapporto sacrificale perenne tra Roma e i suoi Dèi, che nel primo giorno del mese veniva ritualmente spento e riacceso. Il rinnovamento è celebrato nel nome di due divinità, il maschio Mars e la femmina Juno-Minerva, i due aspetti della donna come Vergine e come Madre: la duplice polarità di Marzo si realizza nella nascita iniziatica dei giovani, maschi e femmine, che nel successivo mese di Giugno si uniranno in matrimonio per proseguire l’eterna realtà di Roma nel tempo dei secoli futuri e nello spazio dell’espansione della sua civiltà ai popoli dell’area mediterranea.

La ri-nascita dell’Urbe ha il suo centro nella presenza in questo mese dell’Equinozio di Primavera, evento astronomico (e non solo) che i Romani nel tempo arcaico facevano cadere nel mese di Marzo, inserendo, se fosse stato necessario, un mese aggiuntivo (Interkalaris o Mercedonius) affinché Equinozio e mese di Marzo coincidessero, in quanto il primo giorno di Marzo era l’originario Capodanno di Roma (giorno che forse in un’età più arcaica cadeva il 21 Aprile). La connessione tra Marzo, mese dei giovani che entrano con l’iniziazione nella societas romana, ed Equinozio di Primavera, rifiorire della terra e sopravanzare delle ore di luce su quelle oscure della notte, rende intuitivo perché sia questa la data scelta da un punto di vista astronomico ma soprattutto sapienziale come inizio del Nuovo Anno.

[caption id="attachment_12821" align="alignright" width="182"]Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.). Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.[/caption]

Alle due divinità principali, Mars e Juno-Minerva, protettrici rispettivamente dell’iniziazione dei maschi e delle femmine, si associano divinità connesse all’abbondanza (Consus e Anna Perenna) e riti di allontanamento del “vecchio” (i Mamuralia) o di commemorazione degli antichi (gli Argei, compagni di Ercole). L’aspetto direttamente connesso alla generazione sul piano materiale lo si ritrova nella cerimonia degli Equirria, dedicati a Consus in ricordo del ratto delle Sabine mediante cui ebbe inizio la procreazione in Roma, e in quella di Anna Perenna, la quale cadeva alle Eidus, solitamente dedicate a Juppiter, celebrazione del ciclo annuale che si rinnova (Anna Perenna è chiaramente la “perennità”).

GIUNONE E MINERVA, IL POLO FEMMINILE DI MARZO

Qui ci limiteremo ad esaminare le figure, molto complesse, di Juno-Minerva e di Mars[1], e precisiamo subito che scriviamo “Juno-Minerva” perché la Juno italica non ha nulla a che vedere con la greca Hera, alla quale venne più tardi assimilata: nel mondo latino la Dèa si presenta con attributi analoghi a quelli di Minerva, come vediamo nella statua della Juno Sospita (Salvatrice) di Lanuvio, divinità preromana vestita con i calcei repandi, calzature a punta rialzata che De Francisci fa risalire alle culture egeo-antoliche[2] e armata con la lancia e l’ancile, lo scudo bilobato dei Saliares di Mars, coperta da una pelle di capro[3] (la nebrys). Nella Roma arcaica essa non era la paredra di Juppiter, ma una divinità guerriera protettrice della città e dei suoi abitanti, e presiedeva alle iniziazioni delle adolescenti nel suo tempio di Lanuvio; ad essa i Romani dedicarono le Kalendae di Febbraio, affidando alla classe dei Cavalieri il ruolo di suoi sacerdoti, proprio per le caratteristiche di “protettori dell’Urbe” proprie a questi guerrieri come si può constatare nelle loro cerimonie dell’Equinozio di Autunno. Tutto ciò la rende analoga alla Minerva Tritonia di Lavinio, anch’essa vestita con la pelle caprina e armata di lancia e scudo ed anch’essa protettrice del passaggio rituale delle giovani donne nella città fondata da Enea.

Come Juno e Minerva sono collegate all’iniziazione femminile, così lo è Mars per i maschi, i quali, probabilmente dopo un primo rituale a cui erano stati sottoposti a Febbraio nel corso dei Lupercalia, ora a Marzo entravano a tutti gli effetti nella societas romana come guerrieri nel corso delle cerimonie dei Saliares.

La Juno celebrata alle Kalendae di Marzo era la Juno Lucina (protettrice dei parti ma anche Dèa della luce) o Matrona (l’attributo deriva dalla stessa radice *mas affine a Mars e alla parola maschio); il suo nome è etimologicamente collegato a juventas in quanto protettrice delle giovani fanciulle, alle quali era propria la juno, così come al maschio il genius, e come questi si connette con la gens, poiché il maschio prolunga nel tempo la sua gens dando il proprio nomen al figlio, la juno è in rapporto con la juventas, in quanto solo la donna giovane può procreare. Nella concezione romana la procreazione è per la donna quello che per gli uomini è la guerra, lo scopo della propria esistenza, ed è per questo motivo che Juno e Mars sono venerati nello stesso mese.

Ad essa erano dedicati i Matronalia; la Dèa era venerata in un tempio sull’Esquilino, nella zona di via in Selci presso l’attuale chiesa di San Francesco di Paola, e il tempio, già esistente nel 375 a.C., sarebbe stato dedicato dalle matrone a seguito di un voto fatto da una di esse in occasione del proprio parto. Il suo tempio sorgeva in un bosco sacro alla Dèa ma sicuramente più antico di esso, tanto che Plinio[4] riteneva che il nome di Lucina fosse derivato da lucus e non da lux; qui si trovava la sacra lotus, pianta che ritroviamo nei riti di Vesta, quando la nuova sacerdotessa scelta dal Pontefice Massimo tagliava i suoi capelli e li appendeva alla lotus capillata nell’Atrium Vestae. Il nome Lucina si può comunque collegare a luce, con il significato di “dare alla luce”, ed è nel lucus di questo tempio che venne dato l’oracolo alle donne sabine sterili: “Le italiche madri siano penetrate dal capro[5], che è alla base del rituale fecondatore dei Lupercalia.

[caption id="attachment_12822" align="alignleft" width="300"]Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.). Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.).[/caption]

La celebrazione di Juno Lucina era tenuta nei Matronalia, festa in cui le matrone portavano offerte alla Dèa per propiziarsi una gravidanza felice; in questo giorno si attuava uno scambio di ruoli tra matrone e servi, come nei Saturnalia di Dicembre tra i padroni e i loro servitori, per cui erano le matrone a servire a tavola i loro schiavi, come scrive Macrobio[6]: “Le matrone servivano la cena agli schiavi, come fanno i padroni durante i Saturnali: quelle per incitare all’inizio dell'anno con questo onore gli schiavi a pronta obbedienza, questi come per ringraziarli del lavoro compiuto”.

 

Minerva aveva la sua festa nel giorno delle Quinquatrus, giorno che cadeva, come dice il nome, il quinto giorno oscuro dopo le Eidus: il giorno era in origine sicuramente dedicato a Mars, dato che in esso i Saliari celebravano uno dei loro riti, ma venne in seguito “usurpato” da Minerva, certo in coincidenza con la sovrapposizione della Triade etrusca Juppiter-Juno-Minerva all’arcaica Triade Juppiter -Mars-Quirinus.

Viene spontaneo chiedersi: perché sostituire Mars con Minerva? L’innamoramento di Mars per Minerva tramandato nella nota leggenda di Anna Perenna è chiaramente un mito tardivo di epoca repubblicana e di origine greca, mentre Minerva si trova in origine collegata a Mars per altri motivi, in quanto è a loro due, insieme ad altre divinità, che vengono offerte in sacrificio le armi degli eserciti sconfitti[7]. Ecco perché Minerva è chiamata anche coniunx di Mars, lei che, essendo vergine, non può essere sposa di nessuno, ed il mito di Anna Perenna e Mars conferma come tra le due divinità non sia intercorso alcun rapporto sessuale.

[caption id="attachment_12823" align="alignright" width="300"]- Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine. - Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.[/caption]

Forse originariamente Minerva era non una Dèa ma una “qualità divina”, tanto che dopo l’affermazione della nuova Triade, come osserva Carandini[8], mentre a Juppiter vennero dedicate le Eidus e a Juno le Kalendae, a Minerva non vennero dedicate le Nonae, come ci si aspetterebbe per quella simmetria fondamentale anche sul piano religioso per i Romani. Questa “qualità divina” potrebbe trovarsi nella connessione del suo nome con una serie di radici affini, da cui vengono parole aventi relazione con la Dèa, quali mensis[9] dalla radice *men(e)s, mensura da *mē, da cui derivano le parole indoeuropee indicanti misura, mentre *men è all’origine dei termini indicanti memoria, ricordare, lat. memini, e da *menu deriva uomo come “uomo pensante”[10]. Il carattere precipuo di Minerva sembra quindi essere quello della “misurazione” collegata all’idea di “uomo pensante”: uomo capace di organizzare tramite la misura e di ricordare tramite la memoria.

Minerva è la Dèa ordinatrice che dà una struttura armonica ed equilibrata al cosmo, e questa sua funzione ordinatrice è realizzazione della potenza divina sul piano della creazione come su quello umano, dove senza memoria e intelletto non è possibile comprendere e seguire il volere divino espresso negli auspicia. Sul piano divino collabora con Juppiter in quanto consente l’attuazione della volontà del Dio supremo dando ordine al mondo, sul piano umano è il principio che porta gli uomini alla creazione di una societas equilibrata nelle sue componenti e in particolare, per quanto riguarda il mese di Marzo, agisce con Mars nel rito iniziatico con il quale il giovane si realizza come guerriero.

Segno della sua azione ordinatrice è anche la funzione come protettrice degli artigiani e dei pedagoghi (i quali in questo mese ricevevano il minerval, il loro salario o un dono da parte degli studenti), cioè coloro che collaborano al perfezionamento del cosmo, abbellendolo sul piano fisico con le loro opere e arricchendo le potenzialità dei giovani per mezzo dell’insegnamento.

Se Mars è l’archetipo del Re-guerriero, padre di Re e di guerrieri come Romolo, Minerva è la Dèa della misura e dell’ordine che derivano sul piano politico dall’organizzazione civile che ha al suo àpice il Re; sul piano iniziatico Minerva dà al giovane che accede all’iniziazione quell’ordine interiore che è necessario per temperare la furia guerriera indirizzandola ad un livello superiore.

La presenza di Juno alle Kalendae di Mars e la sovrapposizione di Minerva nelle Quinquatrus, in origine proprie a Mars, inducono ad una riflessione: vi possiamo vedere una sorta di progressiva invasione del femminile nell’area che fino allora era stata esclusivamente riservata a Dèi maschili e coincidente con il momento in cui la più antica Triade, costituita da Juppiter, Mars e Quirinus, si avvia alla scomparsa con la sostituzione degli ultimi due da parte di Juno e Minerva, sotto l’influsso etruschizzante della dinastia dei Tarquini, i quali cercarono di sovrapporre le loro divinità a quelle romane. La resistenza opposta nel corso della costruzione del tempio a Juppiter sul Campidoglio da due divinità, Terminus e Juventas, per non essere spostate dall’area in cui il nuovo tempio sarebbe sorto può essere anche il segno dell’opposizione del patriziato romano al piano religioso dei Re etruschi; fu necessario far spazio al tempietto di Juventas nella cella di Juno, mentre per Terminus, che aveva un altare-stele a cielo aperto, si dovette praticare un’apertura nel tetto della cella di Juppiter, perché mantenesse il suo carattere di templum sub divo. Si ha anche notizia di un tempio di Mars che esisteva già sul Campidoglio[11] e che venne non a caso raso al suolo per far posto alla nuova Triade.

MARS, Il POLO MASCHILE DI MARZO

Mars, a cui è intitolato il mese, non è il signore della guerra, come venne concepito dopo la sua identificazione con l’Ares greco, ma ha le caratteristiche di un Dio connesso con la tutela dell’Ordine sia per mezzo della guerra offensiva, sia con la protezione di ciò che è generato, la città di Roma, i giovani, i campi che iniziano a germogliare, e per questo motivo presiede al ver sacrum, l’emigrazione di una generazione di uomini e di animali consacrati dalla nascita a tale compito.

[caption id="attachment_12824" align="alignleft" width="112"]Minerva Tritonia di Lavinium, statua in terracotta del V sec. a.C. ora esposta al Museo di Pratica di Mare. Minerva Tritonia di Lavinium, statua in terracotta del V sec. a.C. ora esposta al Museo di Pratica di Mare.[/caption]

Alcuni aspetti etimologici del suo nome fanno pensare che in origine egli fosse non un Dio guerriero ma piuttosto un Dio celeste: se in osco il suo nome è Mamers e forse in sabino Marmar (se è sabino il Dio presente nei Carmina dei Fratres Arvales), le varianti italiche del suo nome sono tutte derivate da una radice *Mauort-, alla quale è stato avvicinato il vedico Marut, nome della collettività dei compagni guerrieri di Indra, ma è possibile anche risalire ad una radice *mar, in relazione con il sanscrito marikis, lucente[12], per cui Mars sarebbe “il Dio splendente”, quindi una divinità avente carattere solare e celeste, e d’altronde il Carmen Saliare, se il verso è riferito a Mars, gli attribuisce il tuono e lo chiama “Dio della luce”[13], titoli solitamente propri di Juppiter, rispetto al quale Mars sembra essere precedente.

Il Dio, quando divenne iconico (probabilmente in origine era rappresentato solo dalla lancia sacra sia a Roma che in altre città latine), era rappresentato in armi con un copricapo costituito da un elmo ornato di due penne, secondo la testimonianza di Valerio Massimo e di Virgilio[14]. Suoi animali sacri erano il picchio e il lupo, il cui aspetto umano era rappresentato da suo figlio Pico, Re degli Aborigeni e fondatore di Alba, e da Fauno, figlio di Pico e quindi nipote di Mars.

Mars è una figura complessa che si può ricostruire solo eliminando l’aspetto meramente guerriero che è divenuto il suo attributo a causa della interpretatio greca: è, come abbiamo detto, il Dio che tutela l’ordine, se necessario anche con le armi, proteggendo l’esterno della città come i campi dei suoi cittadini, allontanando ciò che si contrappone all’ordine di Roma, i nemici umani ma anche le forze psichiche negative o comunque pericolose.

Questo lo si vede nella sua qualità di custode dei confini dei campi e dei possedimenti dell’agricoltore nel sacrificio privato del suovetaurilia, un toro, un ariete e un porco (offerta in origine esclusiva di questo Dio), funzione nella quale è chiamato a tenere lontano le intemperie e le malattie dai campi e dagli animali, e non a garantirne la fecondità e la crescita, perché queste sono azioni richieste ad altre divinità esclusivamente agricole. La cerimonia purificatoria dei campi degli Ambarvalia aveva il corrispondente a livello sociale nella lustratio quinquennale dei cives riuniti come milites nel Campo Marzio: attorno ai cives inquadrati militarmente veniva fatta girare l’offerta dei suovetaurilia, i quali erano poi sacrificati per ringraziare il Dio della protezione accordata nei cinque anni trascorsi. La cittadinanza come esercito ed i campi della città sono protetti intorno al perimetro da Mars in armi: “Tutta la sua funzione si esercita sulla periferia: indifferente alla natura di ciò che la sua vigilanza protegge, egli è la sentinella che opera al limite, sulla frontiera, ed arresta il nemico[15].

La “perifericità” di Mars è evidente nella dislocazione dei suoi templi, eretti al di fuori del pomerium, dall’arcaica ara del Campo Marzio al grande tempio fuori Porta Capena, ove si riuniva l’esercito prima di muoversi per le imprese di guerra e da cui partiva la Transvectio Equitum, la parata dei Cavalieri di Roma.

Altro aspetto di Mars è la sua tutela sul ver sacrum, l’emigrazione dei giovani e degli animali di una città nati nell’anno in cui un grave evento aveva turbato l’ordine della nazione: la consacrazione di un’intera generazione è posta sotto la sua vigilanza affinché giunga senza pericolo alla mèta che la volontà divina le ha assegnato; l’“emigrazione” di Romolo e Remo da Alba potrebbe configurarsi come un ver sacrum, così come quello che in precedenza aveva condotto gli Aborigeni dai loro territori originari di Amiternum, Reate e Interamna in Sabina verso il luogo dove sorgerà Roma, sostituendosi ai Siculi intorno al XIII sec. a.C.

Mars era il Dio dell’iniziazione degli adolescenti, i quali a Marzo entravano nella societas romana assumendo nel giorno dei Liberalia la toga virilis sotto la protezione di Liber, che in origine nulla aveva a che vedere con il greco Diònisos, né tanto meno con una triade Ceres-Liber-Libera formata sui Misteri Eleusini. A Mars spetta invece l’iniziazione specifica del guerriero[16], illustrata dal ludus Troiae nel “vaso di Tragliatella”[17], nonché da particolari rituali raffigurati su vasi o specchi etruschi incisi e da una cista proveniente da Palestrina, ritrovamenti studiati da Dumézil[18] e da Torelli[19], in cui Mars, a volte triplicato in tre figure di bambini o di giovani, è seduto su un grande vaso o estratto da esso o bagnato con il liquido versato da Minerva o da una Vittoria alata, raffigurazioni così commentate da Dumézil: “Le scene considerate rappresentano probabilmente le cerimonie dell’iniziazione (o delle iniziazioni successive) del guerriero-tipo di Mars, in virtù delle quali egli deve acquistare ciò che d’ordinario si acquista in tal modo: invulnerabilità o infallibilità del colpo o furor”.

[caption id="attachment_12825" align="alignright" width="200"]L’oinochoe di Tragliatella (Caere 620 a.C. circa): i disegni sono interpretati come scene dell’iniziazione dei giovani nel corso del Ludus Troiae. L’oinochoe di Tragliatella (Caere 620 a.C. circa): i disegni sono interpretati come scene dell’iniziazione dei giovani nel corso del Ludus Troiae.[/caption]

Lungo tutto il mese di Marzo si esplica l’azione rituale dei Sacerdotes Saliares (a cui corrispondevano probabilmente le poco conosciute Virgines Saliares sul piano femminile), i sacerdoti portatori dei dodici ancili, i sacri scudi bilobati tra i quali era nascosto uno dei sette Pignora della potenza di Roma. Il fatto che l’origine della loro danza fosse fatta risalire ad Enea riporta la fondazione del loro sodalizio ad una remota antichità, in cui la Grecia micenea e il mondo latino, e Roma in particolare, erano tra loro in rapporto culturale e commerciale[20], per la funzione di crocevia che fin da tempi antichissimi ebbe l’Urbe, situata com’era al punto d’incontro tra la strada che dall’Appennino portava le greggi al mare e la via fluviale che dalle saline di Ostia conduceva verso l’Etruria e che trovava un eccellente approdo proprio alle falde del Palatino.

Un discorso sui Saliares e sulle loro Virgines sarebbe troppo lungo da farsi in un articolo, per cui rimandiamo ai testi citati in nota[21] chi volesse approfondirne il rituale e il significato.

SI APRE UN CICLO?

Potremmo a questo punto concludere che con l’Equinozio di Primavera si apre il ciclo dell’anno, ma sarebbe un errore, perché un circolo non ha inizio né fine e solo l’uomo, per le sue necessità materiali, segna con un Capodanno il principio del tempo, dimenticando che ciò non è possibile. È per questo errore di prospettiva, insito nella sua componente terrena, che l’uomo si è costruito il mito del “progresso”, che è solo un’apparenza e non una realtà, perché il tempo non si muove lungo una retta. In realtà i tempi dell’anno nel loro succedersi l’uno all’altro portano ciascuno in sé il tempo precedente e contengono i germi del tempo successivo, in un circolo (o meglio in una spirale) che non ha inizio né fine.

Se vediamo nel suo insieme i quattro tempi dell’anno nella concezione religiosa e sapienziale di Roma, ci accorgiamo come questo sia vero: con il Solstizio d’Inverno ha inizio l’Età dell’Oro di Saturnus che porta a compimento attraverso un ritorno all’Inizio il potere di Juppiter affermatosi nell’Equinozio d’Autunno. ma nell’oscurità della morte apparente del Sole vi è il germe della rinascita di Primavera; all’Equinozio di Primavera si raggiunge l’equilibrio del maschile e del femminile nella polarità di Mars e Juno-Minerva prefigurata nel Solstizio d’Inverno da Saturno e da Bona Dèa, equilibrio che contiene il sé il germe dell’acme che verrà nel Solstizio d’Estate con l’avvento di Vesta, il Fuoco sacro che arde al centro dell’Urbe, mese dell’unione dei due nel vincolo del matrimonio, che avrà il compimento nell’affermazione del potere di Juppiter nel prossimo Equinozio d’Autunno, ma in cui già ha inizio la scomparsa della luce un attimo dopo il culminare del Sole al punto più alto del suo corso; con Juppiter l’Equinozio d’Autunno porta alla pienezza il potere germinato nel Solstizio d’Estate ma nella parità delle ore di luce e di oscurità è prefigurata la fine apparente della forza creatrice del Sole nel Solstizio d’Inverno che seguirà.

A questo punto, chi può mettere un segno e dire: “Questo è l’inizio”?

  BIBLIOGRAFIA CARANDINI: La nascita di Roma - Dèi, Lari, Eroi e uomini all’alba di una civiltà; ed. Einaudi, Torino 1997 DE FRANCISCI: Variazioni su temi di preistoria romana, ed. Bulzoni, Roma 1974 DEVOTO: Origini indoeuropee - Il lessico indoeuropeo, Tabelle, ed. Sansoni, Firenze 1962 DUMÉZIL: Jupiter Mars Quirinus, ed. Einaudi, Torino 1955 DUMÉZIL: La religione romana arcaica, ed. Rizzoli, Milano 1977 GALIANO e VIGNA: Il tempo di Roma, ed. Simmetria, Roma 2013 GALIANO Mars Pater, ed. Simmetria, Roma 2014 TORELLI: Lavinio e Roma, ed. Quasar, Roma 1984 TORELLI: La forza della tradizione, ed. Longanesi, Milano 2011 pagg. 51-55.   NOTE:   [1] Per un esame completo del mese di Marzo rinviamo a Il tempo di Roma di GALIANO e VIGNA; per una più ampia trattazione di Mars e dei suoi Sacerdotes Saliares a GALIANO Mars Pater. [2] DE FRANCISCI Variazioni su temi di preistoria romana, pag. 109 nota 371. [3] CICERONE De natura Deorum I, 82. [4] PLINIO Nat Hist XVI, 44, 235. [5] OVIDIO Fas II, 441. [6] MACROBIO Sat I, 12, 7, il quale sembra non comprendere il significato di “ritorno all’Età dell’Oro” proprio di questi rituali. [7] APPIANO Bellum Punic XX; LIVIO Hist XLV, 33. [8] CARANDINI La nascita di Roma pag. 422. [9] Il rapporto tra Minerva e la misura dei mesi lo troviamo nel rito di Settembre con cui si infiggeva il clavus annalis nella cella consacrata a Minerva nel tempio capitolino di Juppiter, a segnare l’inizio del nuovo anno. [10] DEVOTO Origini indoeuropee rispettivamente n° 118, 324, 325, 328°. [11] CARANDINI cit. pag. 356 nota 161. [12] LEWIS e SHORT Latin Dictionary alla voce “Mars”. [13] Frammento 2 del Carmen Saliare: “Cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti / quot ibet etinei deis cum tonarem”, il cui testo, scritto in latino arcaico del IV sec. a.C., può essere approssimativamente così tradotto: “Quando tuoni, o Luminoso, davanti a te tremano / tutti gli Dèi che lassù ti hanno sentito tuonare”. [14] VALERIO MASSIMO I, 8, 6; VIRGILIO Aen VI, 777–780. [15] DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus, pag. 194. [16] Dell’iniziazione guerriera a Roma abbiamo trattato in GALIANO Mars Pater e in GALIANO L’Ordo Equestris a Roma, in “Simmetria on line” n° 23 Luglio 2013. [17] Oltre ai lavori citati nella nota precedente, si veda BAISTROCCHI Il Cerchio magico, riti circumambulatori in Roma antica, Roma s.d. (2010?) pagg. 72-88 [18] DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus pagg. 221–222. [19] TORELLI La forza della tradizione pagg. 51-55. [20] Relazioni confermate dai reperti archeologici più antichi ritrovati a Roma, che risalgono al Bronzo recente (circa 1350–1200 a.C.) e provengono dall’area sacra di Victoria e Vica Pota sul Palatino (CARANDINI pag. 100 nota 17) e dalla zona di Sant’Omobono ai piedi del Capitolium (idem pag. 238). [21] In particolare GALIANO Mars Pater.

La consapevolezza necessaria: vivere la Nostra Tradizione nello Spirito – Giandomenico Casalino

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È oltremodo scandaloso, nonchè sintomatico della totale perdita di memoria storica da parte dell'uomo europeo, il fatto che un libro come la cosiddetta "bibbia", sia vetero che neo­ "testamentaria", proveniente dalla Giudea ed avente per oggetto esclusivamente i fatti e le vicissitudini, la cultura e le tradizioni di un piccolo popolo medio-orientale come gli Ebrei, comprese le dissociazioni eretiche da esso come la credenza galilea, sia da considerarsi il libro "sacro" dell'Occidente ed addirittura la "fonte" della nostra Tradizione, il "luogo" dei nostri Valori, della nostra visione del mondo, la "tavola" pedagogica su cui e con cui formare i nostri figli, il mezzo espressivo della nostra religiosità come atteggiamento nei confronti del Divino. La nostra Tradizione non ha libri sacri, non ha avuto bisogno e non ha bisogno di scrivere e di codificare ciò che per essa è evidente, gioioso e libero riconoscere: gli Dei e il Mondo.

Ciò non di meno, se vogliamo ritrovare noi stessi (bene ormai perduto) ed il nostro modo di vedere il Mondo, di ordinarlo e di amare in esso e con esso gli Dei (sue Forme), il nostro sentire più autentico, sia la Giustizia che lo Stato come Imperium, come istituzione sacra, legittimata dall'Alto ed avente il fine di elevare l'uomo verso il Divino; se vogliamo tentare di ritrovare l'unità, di cultura e vita, e di queste con la religio, con la nostra spiritualità più alta, aprendoci (di nuovo) al Mondo e alla Vita, allora tutto ciò, cioè la nostra Tradizione come Valori e Principii fondati sul Sacro, la nostra paidéia, come il nostro mos majorum, la nostra stessa coscienza, che per viltà non ascoltiamo, sono scolpite ab aeterno nell'opera somma di Omero e di Virgilio!

L'Iliade, l'Odissea, e l' Eneide: sono questi i libri Sacri della nostra Tradizione, poichè sono i libri della nostra stirpe! E sono Sacri nel modo e nel significato indoeuropeo di esserlo e non come accade nelle religioni orientali: monoteistiche, settarie e dogmatiche perchè fondate sul "libro" e perciò intolleranti.Casalino 2

In Omero e Virgilio vi è la libera e spontanea espressione della spiritualità e della religiosità, dell'epistéme del Bello e del Bene, della paidèia e del mos majorum, della nostra Tradizione Elleno-Romana. Noi stessi, la natura profonda del nostro essere, sono nella spiritualità di Omero e Virgilio, in quel modo di vedere il mondo. Vi è da aggiungere che l'intera Sapienza del mondo classico proviene certamente dagli Dei: gli eternamente Beati hanno rivelato ad Omero e Virgilio, Esiodo e Platone, Aristotele e Fidia, Plotino e Lisia, tutto il loro sapere; e questi uomini non erano tutti consacrati a dei Numi? E il carattere sacro dell'intera cultura greco-romana non è forse assicurato da Apollo-Helios, suo patrono e Nume della Luce e della Verità? Tanto che tale cultura, come forma interna, carattere innato sia dell'Elleno che del Romano, da sviluppare con la paidéia ed il mos majorum, è tutt'uno con la religione. Che non è devozionismo fideistico, ma conoscenza del Divino e ritualità cultuale per attuarlo.

I vari aspetti della Welthanschauung classica scaturiscono dalla necessità, da nessuno imposta bensì razzialmente sentita, di esprimere più pienamente l'Idea, la Visione del Divino nonchè il sentimento religioso. Poesia epica, lirica e drammatica, filosofia, retorica e storia, arte, politica e diritto sono unite indissolubilmente agli Dei Olimpii, anzi non sono possibili senza di loro. Non vi è la distinzione (introdotta dal cristianesimo) tra lettere sacre e lettere profane, poichè non vi è separazione tra vita civile e vita religiosa come non vi è alcuna forma né sociale né spirituale di dualismo.

Tale è il nostro patrimonio che, nel contempo, abbiamo perduto, abbandonandolo al significato astratto, borghese, calcolante ed anemico di cultura, scisso cioè dalla Vita: si insegnano ancora la poesia di Omero e di Virgilio, come la Filosofia di Platone (anche perchè tutto ciò che si è detto dopo di Lui, non è altro che un insieme di postille alla Sua sapienza...) e l'armonia e l'equilibrio dell'arte classica; ma, con diabolica sottigliezza, già nel IV sec. d.C., da parte della superstitio galilea che aveva preso il sopravvento, si iniziò ad insinuare, per poi imporre, che tutto poteva essere accettato della Tradizione Classica ma non la spiritualità, non la sua Visione del Divino, non i suoi Dei, indissolubilmente uniti alla Res Publica nel suo ordine giuridico-religioso, non, quindi, la sua Anima, realtà ormai "acquisite" con le lettere "sacre" cristiane; restando, pertanto, come oggetto di pedagogia le "morte lettere", quelle profane, sarebbe a dire il contenuto di quella spocchiosa erudizione, da vuota crisalide, dei "dotti ignoranti", che ancora oggi si osa definire "cultura" e "formazione classica"!

Il compito dei veri tradizionalisti romani, a questo punto, è nello stesso tempo immane e semplice: immane poichè è necessario negare radicalmente questa finzione che sta alla base della deformazione culturale dell'Occidente, essendo d'altronde causa medesima della sua rovina; semplice, dal momento che, per colui che vive nello Spirito la Tradizione Classica, quelle "lettere", ad onta della pretesa galilea, lungi dall'essere "morte", sono Parole Viventi, aventi la forza di aprire gli occhi della mente, permettendo la visione di un Mondo che non è "passato" bensì Eterno! La prova, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia veridico tutto ciò, sta nel fatto che, sempre, quando l'Europa ed in particolare l'Italia si sono destati dal lungo "fideistico" sonno, perchè lo hanno voluto in quanto è stato riacquisito il Sapere, è come se si fossero destati gli stessi Omero e Virgilio, Platone e Aristotele nonchè l'intera Romanità, permettendo all'Europa medesima di essere se stessa, mediante quelle Parole Viventi, in un terribile e luminoso Ritorno dell'Eterno.

Gli Dèi di Roma nel Solstizio d’Estate – Vesta, Vergine e Madre – di Paolo Galiano ©

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  “Il Solstizio [d’Estate] cade al ventiquattro di giu­gno.

Questo è il grande cardine dell’anno e grande evento nel mondo”.

(PLINIO Nat Hist XVIII, 68, 264)     LE DIVINITÀ DEL SOLSTIZIO D’ESTATE

La concezione dei Romani circa il fluire del tempo si basava sulla certezza che nel ritmo calendariale si manifestassero divinità le cui molteplici funzioni si armonizzavano in un complesso insieme di significati (1), che si intersecavano formando un unicum che sfugge alla mentalità razionale e “scientifica” dell’età moderna.

Il particolare significato del Solstizio d’Estate per i Romani era legato al fondamento su cui si basava il loro calendario, un calendario lunisolare basato sui movimenti sia della Luna che del Sole, movimenti inconciliabili data la differenza in giorni tra i due fenomeni celesti: il Sole compie il suo movimento in poco più di 365 giorni, mentre la Luna completa il suo giro intorno alla terra in media in 27 giorni, per cui un anno lunare di 13 lunazioni è il più prossimo ad un anno solare. Per questo motivo Giugno era considerato il centro dell’anno, la settima lunazione su tredici totali, e questo dava al mese il particolare significato di fine di un ciclo, conclusione di un primo semestre e cardine intorno al quale “gira” l’intero anno, ed infatti la prima divinità celebrata nel mese è Carna, la divinificazione del cardine.

Da un punto di vista astronomico e al tempo stesso interiore (“Ciò che è in alto…”) nel mese di Giugno il Sole si trova tra il periodo della sua massima potenza e l’inizio del decadere di essa a mano a mano che si procede verso l’Equinozio d’Autunno e questa situazione di equilibrio tra i due momenti si esprime a Roma nella presenza di divinità aventi un particolare carattere “unitivo” e “protettivo”.

Giugno è il mese dell’unione (Juno, la Dèa che apre il mese insieme a Carna, ha comune radice con iunctio), nel quale si risolvono con l’atto matrimoniale i due bimestri precedenti, il maschile Febbraio-Marzo, centrato sui Lupercalia di Febbraio e sulle celebrazioni dei Sacerdotes Saliares in onore di Mars a Marzo, ed il femminile Aprile-Maggio, mesi nei quali le principali divinità sono Venus, Fortuna e Bona Dèa; in Giugno una particolare protezione viene data alla donna che lascia la sua gens per entrare a far parte di quella del marito (2) nei Matralia dedicati alla Mater Matuta. La iunctio si estende al di là degli individui nel patto di alleanza tra il popolo romano e gli altri popoli, patto protetto dagli Dèi che sanciscono il trattato.

In questa duplice azione unitiva si attua l’azione di divinità sia maschili (Mars alle Kalendae, Hercules Custos e Dius Fidius nella prima metà del mese e Juppiter nella seconda metà, nella sua forma di Summanus, lo Juppiter “notturno”, in quanto Summanus si può far derivare da “sub mane”) che femminili (Juno Moneta, Bellona, Mater Matuta e Fortuna Virgo). Gli Dèi maschili sono specificatamente protettori del patto tra gli uomini e tra le nazioni: Hercules evocato come custode, Dius Fidius che sancisce la fedeltà al patto e Summanus che punisce con la folgore, mentre le divinità femminili hanno caratteri molteplici, Juno è connessa soprattutto al matrimonio, Bellona analogamente a Dius Fidius e a Summanus punisce i popoli che vengono meno ai trattati con Roma per mezzo dei Sacerdotes Fetiales  (3), Mater Matuta è, come sopra detto, protettrice delle matrone nella loro condizione originaria di appartenenza  alla propria gens di provenienza.

Perché l’operazione unitiva sia completa è necessario sorvegliare che “dal di fuori”, spiritualmente inteso, non entrino influenze negative nel cerchio che si andrà a comporre: da qui la presenza di Mars all’inizio del mese, celebrato con la dedicazione del suo tempio più importante fuori Porta Capena (l’attuale Porta San Sebastiano sulla via Appia), il tempio dove venivano convocate le legioni prima che partissero per le operazioni belliche e da cui prendeva avvio la parata degli Equites per la Transvectio Equitum di Ottobre. Mars solo in un secondo tempo divenne il Dio della guerra, ma nella Roma delle origini era il Dio protettore del limite che sorveglia in armi i confini, sia il confine del territorio nei rituali degli Ambarvalia e dell’Amburbium, sia i cittadini nel loro insieme nella lustratio quinquennale, sia il singolo cittadino alla sua nascita con la presenza di una sua funzione personificata, la Parca Martia.

Giugno è anche l’ultimo mese del primo semestre, ed ha quindi i caratteri proprii a tale periodo di apertura−chiusura che si rivelano nei riti di Vesta, in cui il suo tempio viene aperto alle donne e poi chiuso nuovamente nei giorni del Vesta aperitur e Vesta cluditur, quasi a somiglianza del tempio di Janus per i tempi di pace e di guerra. A questa fine dell’anno corrisponde un periodo di caoticità, donde la presenza di Fors Fortuna proprio il giorno del Solstizio, motivo per cui il suo tempio era in Trastevere, fuori della città e del pomerio sacro; Fortuna era celebrata al 24 Giugno, data per i romani del Solstizio d'Estate, “grande cardine dell’anno” come dice Plinio (4), e fine del primo semestre, apertura temporanea al “fortuito” nel periodo di tempo “vuoto” che precede il Novilunio di Luglio, inizio del secondo semestre.

Tra tutti gli Dèi e le Dèe del mese di Giugno diremo in particolare di colei che si situa al centro di questo mese, che a sua volta costituisce il centro dell’anno romano: Vesta.

VESTA, LA DÈA DEL FOCOLARE

Vesta è Dèa antichissima  (5), e, anche se non è nota l’esistenza di un Flamen Vestalis, a meno che questi non sia da identificare con il Pontifex Maximus, il quale nei confronti delle Vestali aveva le prerogative di un padre e di un marito, così come a loro volta le Vestali erano vergini ma allo stesso tempo madri di ogni civis romano (l’eventuale rapporto sessuale tra una di esse ed un cittadino com­portava l’accusa di incestus, col significato di rapporto tra consanguinei).

La Dèa, non ostante le interpretazioni antiche e moderne, nulla ha a che vedere con Hestia, apparentemente sua omologa nel mondo greco: se He­stia deriva da una radice *sueit con significato di bruciare, per cui Hestia è *suit-tia “il fuoco del focolare”, Vesta origina da *wes (6), “abitare, di­morare”, e quindi è la divinità del focolare e della casa stessa, la quale in un certo senso custodisce tra le sue pareti il focolare, ma non è il fuoco stesso.

[caption id="attachment_16315" align="alignright" width="241"]Il tempio di Vesta al tempo della sua riscoperta da parte del Lanciani (dal Lanciani cit.). Il tempio di Vesta al tempo della sua riscoperta da parte del Lanciani (dal Lanciani cit.).[/caption]

La concezione della divinità del fuoco e del focolare che ne è il “luogo” è comune presso i popoli indoeuropei, e in particolare le tradizioni dell’India e di Roma sulla sacralità del fuoco possono essere sovrapposte e si spiegano reciprocamente, avendo sempre presente la differenza tra i due sistemi religiosi, più metafisico e minuzioso nella procedura rituale quello indiano, più tecnico e giuridico quello Romano. Il fuoco è sacro perché è, in primo luogo, il mezzo del sacrificio; per mezzo di lui l’oblazione viene trasformata in fumo che può giungere agli Dèi: “Il fuoco è concepito nei Veda come il tramite che unisce il mondo degli uomini a quello degli Dèi, poiché egli trasporta in cielo l’oblazione offerta dagli uomini nell’atto sacrificale, dal mondo visibile a quello invisibile” (7). Quindi è sacro il focolare perché è il luogo del fuoco, e se sono sacri tutti i focolari familiari supremamente sacro sarà il focolare dello Stato e quindi chi lo accudisce.

Il fuoco è il tramite tra l’uomo e il cielo, Dyaus (da cui Dyaus Pater, Juppiter): “Il cielo azzurro fu la più antica divinità degli Arii e verso di esso fiammeggiava la vampa, quasi dalla terra al cielo trasportando le preghiere e le offerte degli uomini” (8). E aggiunge Giamblico: “L’offerta dei sacrifici consuma la sua materia nel fuoco che la assimila a sé e la rende non simile alla materia ma la trasforma in fuoco divino, celeste, immateriale… Così noi siamo elevati nei sacrifici e portati dalla purificazione del fuoco al fuoco degli Dèi, come il fuoco riduce le cose pesanti e dure alle divine e celesti” (9).

Il culto di Vesta risale alla prima Età Regia, ma sicuramente si tratta della prosecuzione di una forma di culto ancora più antica, che si può far risalire al­meno al periodo della presenza dei Siculi sul Palatino (Età del Bronzo Medio, secondo Carandini), quando Caca, la sorella-figlia-moglie di Caco (indistinzione caotica del ruolo tipica delle età più arcaiche), era la sacerdotessa del Fuoco del Re.

Vesta è la Dèa del focolare come luogo di manifestazione del Fuoco, po­tere generatore; nella concezione sacrale dei Romani, come di altri popoli indoeuropei, è il fuoco l’elemento generatore che feconda attivamente il focolare, il quale costituisce l’elemento passivo della coppia, e “il bambino appena nato veniva omologato al tizzone e cioè al frutto nato dal fuoco, sperma pyròs, che era stato deposto nella matrice-focolare della moglie dal padre” (10). Il potere generatore a Roma si identifica con Mars e con Volca­nus, ambedue Dèi generatori ma sul piano materiale (Marte come Vulcano è padre di eroi fondatori: Caco a Roma e Ceculo a Praeneste figli di Vulcano, e Modio Fabidio a Cures e Pico ad Alba, figli di Marte, come i due Gemelli) e non su quello cosmico.

Ci sembra quindi corretto quanto scrive Baistrocchi: “Tale attribuzione [di paredro di Vesta] dovrebbe con ogni verosimiglianza essere riservata a colui che precede tutti gli altri Dèi, Janus Pater, il fuoco celeste che costituisce l’origine prima, il Principio di ogni generazione” (11).

Dumézil ha dimostrato (12) il rapporto tra Janus e Vesta dal punto di vista rituale: se il Rex Sacrorum è il sacerdote di Janus, il Pontifex Maximus per la sua stretta correlazione con Vesta e le sacerdotesse Vestali può essere considerato il sacerdote della Dèa, e in tal caso l’ordo sacerdotum riportato da Festo, cioè l’ordine in cui prendevano posto nei banchetti sacri i primi cinque sacerdoti di Roma, manifesta in modo chiaro che il sacerdote di Janus è il primo e quello di Vesta l’ultimo, così come da altri scrittori romani viene affermato che spetta nelle preghiere e nei sacrifici il primo posto a Janus e l’ultimo a Vesta (13): il primo apre, essendo questa la sua funzione in modo eminente, e la seconda, punto di contatto tra il mondo degli Dèi e quello degli uomini, chiude ogni atto religioso.

Ma non è solo sul piano metafisico e liturgico che Vesta e Janus sono accomunati: sul piano fisico a Vesta, che è la casa, il focolare, il penus, la dispensa che conserva la ricchezza prodotta dall’uomo e il posto più interno della casa in cui sono conservati i beni accumulati, corrisponde Janus, il Dio che presiede ai passaggi e alle strade, rector viarum, e quindi anche al movimento delle greggi e ai lavori dei campi e più in generale alla circolazione della ricchezza, Janus a cui “è riconosciuta la paternità del denaro, il cui nome latino pecunia conserva in modo trasparente la sua connessione con le mandrie” (14). Quindi ambedue sono fonte e luogo della ricchezza materiale che gli Dèi concedono all’uomo.

[caption id="attachment_16316" align="alignleft" width="177"]Busto di una Vestale Massima: si nodi il nodo particolare che chiude la veste in vita, detto “Nodo di Ercole” (dal Giannelli cit.). Busto di una Vestale Massima: si nodi il nodo particolare che chiude la veste in vita, detto “Nodo di Ercole” (dal Giannelli cit.).[/caption]

La capacità generatrice di Janus come fuoco è connessa alla sua identificazione con il  Sole, come scrive Macrobio nei Saturnali (15): “Chiamarono Apollo Patrôos non per il culto particolare di una stirpe o di una città, ma come autore di ogni generazione: il sole, prosciugando l'umidità, diede ori­gine alla vita… Per questo anche noi chiamiamo Giano padre, venerando con tale nome il sole”.

Questo consente di ampliare ulteriormente il discorso sul significato di Janus, divinità complessa e misteriosa in quanto primordiale e quindi poco comprensibile già per gli stessi Romani: Janus è il Sole ma è soprattutto il principio del Fuoco cosmico grazie al quale viene in essere la creazione, e questo si  manifesta nel rito di accensione e spegnimento del fuoco di Vesta il primo giorno di Marzo, quando quello che si spegne è il fuoco materiale mentre quello principiale rimane eternamente perenne: “Lo spegnimento del Fuoco adombra il processo dell’ecpirosi e cioè il passaggio, attraverso la totale combustione e quindi l’esaurimento di tutte le potenzialità della Manifestazione, nell’immobilità assoluta, nell’Immanifesto, mentre la sua accensione simboleggia il passaggio da tale stato al mondo manifestato” (16).

Ciò non significa che Janus o Volcanus o Mars siano da considerare i “co­niugi” di Vesta (come si può vedere nella tarda ricostruzione del Portico degli Dèi Consenti fatta da Vettio Agorio Pretestato nel 367 d.C., dove Vulcano e Vesta erano in coppia (17) ): Vesta è eternamente Vergine ed eternamente Madre, in quanto fun­zione di Vesta è avere in cura il creato e mantenerlo in essere secondo l’Ordine divino. Per questo nella sua custodia sono il Palladio di Troia (simbolo della continuità della Tradizione dall’italico Dardano alla Samotracia dei Misteri Cabìrici e a Troia per poi tornare di nuovo in Italia con Enea nella terra del Latium Vetus), i Penates, cioè gli Antenati divinizzati dei cives romani che rappresentano la prosecuzione nel tempo della stirpe, e forse il fascinus, il simulacro del fallo generatore (18): sono questi i Pignora custoditi nel penus del suo tempio, poiché degli altri Pignora è esplicitamente detto trovarsi in altri luoghi (19).

Un argomento non condividiamo della sapiente ricostruzione del rapporto tra Vesta e Janus fatta da Baistrocchi, là ove egli definisce Vesta come simbolo della creazione scrivendo: “La Dèa impersonava anche la maternità esuberante e prolifica e quindi, più in generale, la fertilità inesauribile della natura” (20): Vesta non è collegata, neanche nei miti tardivi, alla procreazione ma è sempre Vergine e tale rimane pur avendo l’appellativo di Madre. L’episodio raccontato da Ovidio di un tentativo da parte di Priapo di violarla rimasto senza successo ne è un chiaro indizio (21).

Vesta è quindi la Vergine Madre, a lei non spetta la creazione di qualcosa, come per Tellus o Ceres o le altre Grandi Madre romane, le quali hanno cura della generazione delle messi come delle mandrie e degli stessi umani, ma è eternamente Vergine ed eternamente Madre di tutto ciò che viene all’esistenza. Il suo essere “la casa del fuoco” ed il prototipo della Matrona, della padrona della casa, richiama alla mente una figura di divinità anch’essa Vergine e Madre, il cui unico figlio nasce da un rapporto magico e non fisico: intendiamo Iside, il cui nome si scrive con il geroglifico st, “trono”, simbolo del potere che in essa risiede e che si manifesta nella sua capacità di essere la Maga per eccellenza.

[caption id="attachment_16317" align="alignright" width="300"]Il “Nodo di Ercole” in un anello del IV – II sec. a.C., conservato al Museo del Louvre. Il “Nodo di Ercole” in un anello del IV – II sec. a.C., conservato al Museo del Louvre.[/caption]

Sarebbe infine da esaminare in che modo sia possibile un accostamento di queste due Vergini Madri con una terza figura di Vergine Madre, Maria madre del Cristo, ma questo ci porterebbe troppo lontani dall’argomento del presente articolo.

Come scrive Sabbatucci, il quale meglio di molti altri ne ha compreso il significato religioso e metafisico: “Vesta non era né la terra né il foco­lare ma una centralità-interiorità cosmica, che poteva essere rilevata nello spazio domestico (l’atrio e il focolare), così come nello spazio as­soluto [perché il suo tempio è circolare, simbolo dell’infinito] o come nel tempo [in quanto annus, anno, è correlato ad anulus, cerchio, e circolare è la forma del tempio di Vesta]” (22).

Le sue sacerdotesse erano le vergini Vestali, in origine figlie di famiglia patrizia (come patrizia erano Caca, sorella-moglie del Re Caco, e Rea Silvia, figlia del Re Numitore e madre dei Gemelli). Le funzioni delle Vestali erano molteplici: oltre ad accudire il tempio della Dèa e a vegliare il Fuoco perché non si spegnesse mai, avevano il compito di preparare tre prodotti particolari  (23) che venivano utilizzati in molte ceri­monie: il suffimen (adoperato nelle purificazioni dei Parilia di Aprile), la mola salsa (una focaccia fatta con il sale ed il farro della raccolta primi­ziale di Maggio, che era usata nei riti sacri e costituiva in particolare l’offerta da fare a Vesta) e la muries (sale cotto al forno e poi triturato e messo in salamoia in acqua di fonte) (24).

Le cerimonie a cui prendevano parte le Vestali erano numerose e si anda­rono man mano arricchendo fino all’età imperiale. Tra di esse vogliamo solo ricordare i Parentalia di Febbraio, in cui la Vestale Massima celebrava per conto dello Stato la parentatio alla tomba di Tarpea; la cerimonia delle Kalendae di Marzo, in cui veniva spento e riacceso il fuoco sacro del tempio di Vesta; i Fordicidia di Aprile, quando le ceneri dei feti di vacche gravide sacrificate a Tellus ve­nivano recati alle Vestali per la preparazione del suffimen; i Parilia sempre in Aprile, giorno in cui le Vestali distribuivano il suffimen da loro preparato per i riti di pu­rificazione; la partecipazione alle Eidus di Maggio alla cerimonia del lancio dei simulacra degli Argei dal ponte Sublicio; i Consualia di Agosto, in cui le Vestali celebravano il rito con il Flamen Quirinalis, e i successivi Opeconsivia dello stesso mese, celebrati nel sacrario della Regia dedicato ad Ops, accessibile solo al Pontifex Maximus e alle Vestali; la festa di Bona Dèa a Dicembre, celebrazione notturna da parte delle matrone e delle Vestali (equiparate quindi alle matrone pur essendo virgines) (25).

Vogliamo infine ricordare come nel 394 d.C. Teodosio abrogò definitivamente con il suo editto i culti degli Antichi Dèi di Roma: conosciamo bene la fine di quello di Vesta , perché Zosimo (26) ci ha lasciato una vivida descrizione dell’ultimo insulto alla Dèa e della punizione di chi lo aveva commesso.

Nel settembre 394, con la sconfitta da parte di Teodosio dell’imperatore Eugenio, eletto dai senatori gentili di Roma, le ultime vestigia dei templi e dei riti romani vennero distrutte per ordine dell’imperatore e le Vestali allontanate dal tempio e dall’Atrio di Vesta, ma in modo onorevole e senza essere perseguitate, come successe invece ad altri ordini sacerdotali (pensiamo per esempio ai sacerdoti di Mithra, trucidati dai fanatici cristiani, e ai suoi luoghi sacri, devastati e occultati sotto le macerie). Come scrive Lanciani (27), che aveva riportato alla luce l’Atrio di Vesta: “Le nostre Vergini non contaminarono gli ultimi anni della loro vita con innovazioni alla prisca purezza del rito: esse caddero, come suol dirsi, tutte d’un pezzo, fedeli al loro istituto undici volte secolare, scevre da ogni sospetto di cattiva condotta e rispettate anche dagli avversari”.

[caption id="attachment_16318" align="alignleft" width="300"]Il “Nodo di Ercole” in un diadema del III – II sec. a.C., conservato al Museo Archeologico di Taranto. Il “Nodo di Ercole” in un diadema del III – II sec. a.C., conservato al Museo Archeologico di Taranto.[/caption]

A lungo i sacri luoghi non vennero turbati dalla plebe che ormai vi aveva accesso, essendo divenuti proprietà del demanio imperiale, e, prosegue Lanciani, “non fu danneggiata la fabbrica, né fu recato oltraggio alle opere d’arte che conteneva. Noi abbiamo ritrovato statue, busti, piedistalli in perfetto stato di conservazione, e talvolta non mossi di posto”.

Nel 401, Serena, figlia di Teodosio, osò rubare un monile d’oro dalla statua di Vesta (significativo il fatto che fino ad allora nessuno lo avesse toccato): “Serena, deridendo queste cose [cioè i riti aboliti dal pa­dre], volle visitare il tempio della Gran Madre (28): appena vide che la sta­tua di Rhea portava al collo una collana degna del culto riservato ad una, la tolse dal collo della statua e la mise al suo. E quando una vecchia, una delle vergini Vestali che era rimasta, le rinfacciò la sua empietà, essa la oltraggiò. Allora costei lanciò contro Serena, il marito e i figli tutte le imprecazioni che il suo atto sacrilego meritava… E la Giu­stizia riuscì a compiere il suo dovere: Serena non poté sfuggire al suo destino ma porse al cappio quel collo che aveva cinto con l’ornamento della Dèa” (29).

Note:

  1. Su questo argomento rinviamo al nostro saggio Il tempo di Roma – Dèi e feste nel calendario di Roma, ed. Simmetria, Roma 2013, da cui questo articolo attinge parte dei dati.
  1. Non diversamente la Liturgia Romana prevede una particolare benedizione alla sposa, benedizione che non può essere ripetuta in caso di seconde nozze legittime, quasi co­stituisse un segno indelebile, analogo a quello proprio al sacerdote all’atto della Consacrazione (si veda BARUFFALDI Ad Rituale romanum commentaria, 1752 Venezia pag. 210).
  2. I Fetiales sono originariamente sacerdoti di Juppiter Feretrius (il cui antichissimo culto venne istituito dallo stesso Romolo) e solo in un secondo tempo divengono sacerdoti di Bellona, in quanto agiscono davanti al suo tempio. Poiché Bellona è detta uxor Martis, possiamo pensare che in realtà sia avvenuto il contrario, cioè che un rito originariamente appannaggio di Mars sia passato a Juppiter per poi fare ritorno al suo vero “titolare” nella forma personificata di una sua funzione (Bellona da bellum).
  3. PLINIO Nat Hist XVIII, 68, 264: “Il Solstizio [d’Estate] cade al ventiquattro di giu­gno. Questo è il grande cardine dell’anno e grande evento nel mondo”.
  1. Di Vesta, dei suoi riti e delle sacerdotesse Vestali che ne curavano il culto abbiamo trattato in un saggio a lei dedicato (GALIANO Vesta e il fuoco di Roma, ed. Simmetria, Roma 2011), dal quale riprendiamo qui alcuni temi principali, rinviando al testo citato per una più completa co­noscenza dell’argomento..
  1. DEVOTO Origini indoeuropee - Il lessico indoeuropeo, Firenze 1962, Tabelle n° 441.
  2. FILIPPANI RONCONI Agni-Ignis, metafisica del Fuoco sacro, in “La Cittadella” anno I, 2001, 4.
  3. GIANNELLI Il Sacerdozio delle Vestali romane, Firenze 1913 pag. 10.
  4. GIAMBLICO De Misteriis, cit. in VIGNA Roma, simbologia del periodo regio, Roma 1998 pagg. 80-81.
  5. BAISTROCCHI Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, Genova 1987 pag. 192.
  6. BAISTROCCHI Arcana Urbis cit. pag. 190; per il complesso argomento del significato di Janus e del suo rapporto con Vesta rimandiamo ad un’attenta lettura del capitolo V del testo di Baistrocchi intitolato Il fuoco sacro: Giano e Vesta pagg. 188-248.
  7. DUMÉZIL Juppiter, Mars, Quirinus, Torino 1955 pagg. 342-349
  8. DUMÉZIL riporta tra le altre conferme della sua asserzione la serie delle divinità invocate nelle preghiere degli Atti dei Fratelli Arvali, alcuni passi di Ovidio e di Cicerone ed altre possibili concordanze, per cui si rimanda al luogo citato.
  9. BAISTROCCHI Arcana Urbis cit. pag. 222 nota 73.
  10. MACROBIO  Saturnalia I, 17, 42.
  11. BAISTROCCHI Arcana Urbis cit. pag. 205.
  12. BARTOLI Il Foro romano e il Palatino, Milano 1924 tav. 26.
  13. PLINIO affermava che tra i pignora conservati nel tempio di Vesta vi fosse la raffigurazione di un membro virile: “Fascinus inter sacra romana a Vestalibus colitur” (Naturalis Historia XXVIII, 39).
  14. Il loro elenco è riportato da SERVIO in una nota all’Eneide (Ad Aen VII, 188).
  15. BAISTROCCHI Arcana Urbis cit. pag. 195.
  1. OVIDIO (Fasti VI 318 – 347). Priapo è la brama maschile priva del controllo della volontà, forza generatrice cieca che nulla ha a che vedere con la capacità creatrice del Fuoco, per cui non può in alcun modo congiungersi con la matrice di ogni potenziale creazione, eternamente Vergine.
  1. SABBATUCCI La religione di Roma antica, ed. Il saggiatore, Milano 1988 pag. 205.
  2. Si veda Vesta e il Fuoco di Roma cit. pagg. 61-62.
  3. L’acqua di acquedotto era proi­bita per qualunque uso nel tempio di Vesta, per cui si poteva utilizzare solo quella proveniente dalla sorgente della ninfa Egeria, come Numa aveva prescritto (PLUTARCO Vita Num 13).
  4. SABBATUCCI pagg. 161–163. Nella prima celebrazione di Bona Dèaall’1 Maggio non si fa parola della presenza delle Vestali: questa si svolgeva nel tempio della Dèa sull’Aventino, mentre quella di Dicembre nella casa di un magistrato in possesso dell’imperium. Secondo PLUTARCO (Vita Caes, 9) “le donne mentre sono sole si dice che compiano molti riti assai simili a quelli orfici”.
  5. ZOSIMO Storia nuova, ed. Rusconi, Milano 1977, V, 38, 3–4-
  6. LANCIANI L’Atrio di Vesta - Notizie degli scavi del mese di dicembre 1883, Roma 1884 pag. 50.
  7. LANCIANI pag. 53 ritiene che Zosimo intenda riferirsi a Vestae al suo tempio, dato che poi parla di una “vecchia Vestale”.
  8. La condanna a morte di Serena fu causata dal so­spetto che essa avesse stretto alleanza segreta con Alarico contro l’Imperatore.
PAOLO GALIANO
 

Nuovi studi sulla Romanità – Terza Parte – La Spiritualità Indoeuropea di Roma e il Mediterraneo – a cura di Luca Valentini

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Con questo articolo, la Redazione di Ereticamente ha intenzione di proseguire nella stesura della nuova sezione di approfondimento dedicata ai nuovi studi romanologici, che negli ultimi tempi hanno interessato campi d’analisi scientifici, come quelli dell’archeologia, dell’antropologia, della filologia, della semantica, oltre a quelli prettamente di natura tradizionalistica, come nel caso della presente esposizione.

Abbiamo in questo caso volutamente ripreso, come titolo della nostra disamina, il medesimo dell’ultima pubblicazione dell’amico Giandomenico Casalino, appunto “La Spiritualità Indoeuropea di Roma e il Mediterraneo”, per Libreria Editrice Aseq di Roma, in quanto, a nostro parere, tale studio si inserisce in un filone interpretativo della Tradizione Classica, che codesta Redazione ha voluto perseguire sin dal famoso simposio romano dell’8 Novembre 2014, cioè quello che concepisce il mondo romano quale parte fondamentale di una ecumene mediterranea, che, con l’affermarsi nei secoli dell’Impero, diverrà essa stessa romana.

Il testo, che rappresenta la trasposizione stenografica della conferenza tenuta a Roma il XIV Marzo MMDCCLXVIII a.U.c. presso la sede del Rotaract Club Roma Mediterraneo, la cui introduzione è curata da Paolo Bianchi, presidente dello stesso, fornisce immediatamente al lettore la chiave di lettura del discorso che poi ivi si espliciterà, nel primissimo riferimento, nelCa 2la premessa, al Divino Platone, quale collante filosofico (in guisa arcaica e non sistematico – modernista) tra una Sapienza del Divino, come espressa nel mondo ellenico e pre – socratico, e la sua affermazione nella storia, cioè Roma che rende manifesta la Politeia dello stesso Platone, così come espressa anche nel De Re Publica, quale realizzazione primariamente sapienziale prima che civica e giuridica, nel capitolo finale dedicato al Somnium Scipionis (VIII,18) :

"Sappi dunque che tu sei un Dio, dal momento che è un Dio che regge la vita, chi è senziente, chi ricorda, chi prevede, chi governa e regola, muove quel corpo a cui è preposto, così come regge questo mondo quel Dio Supremo; e come se quello stesso Dio eterno, governa il mondo per una parte mortale, così come un animo eterno muove il fragile corpo".

Casalino riaccende il proprio intuito ermetico, che lo aveva ispirato per la stesura de “Il nome segreto di Roma. Metafisica della Romanità”, concependo la nascita e la genesi dell’Urbe quale manifestazione in piena Età Oscura di un Omphalos del Mediterraneo e dell’ Europa, tematizzando sulla dimensione simbolica della storia romana, quale manifestazione di un preciso processo maieutico di natura marziale, che configura il Romano quale l’Eroe della Tradizione Ermetica. La storia di Roma, antimitica per eccellenza come ci ricorda spesso un Carandini in piena e misteriosa sintonia (per i percorsi personali assolutamente differenti) con Evola, si sviluppa, posta l’immutabilità dell’ Essere quale origine archetipale di Giano, come una palingenesi simultanea del Civis e della Civitas, indi platonicamente del cittadino e dello Stato, verso il ritorno autocosciente del Sacro al Sacro, del Divino al Divino, che realizza il mito nel divenire storico, essendo la storia di Roma un mito eternizzante:

“…questa è la forza immensa ed Eterna di questa Civiltà e questo ha consentito il governo pacifico e giusto del Mondo per oltre un millennio, governo a cui hanno partecipato tutti i Popoli dell’Ecumene romano… “ (p. 11).

In questa preziosa ed appassionata conferenza, il Casalino ha saputo mirabilmente intuire come la Metafisica della Romanità non possa essere ben intesa se non relazionata al Sapere Filosofico dell’Evo Antico e all’Ars Magna: Roma come espressione della “Tradizione Occidentale” e  della “Via Eroica al Sacro” rappresenta l’irrinunciabile dimensione iniziatica che in essa si palesa magicamente. A tale proposito, reputiamo non sia superfluo inserire un piccolo inciso per coloro che si scandalizzano quando sentono accostare il termine “Magia” alla Romanità, quale determinazione prettamente orientale e per nulla italica. In tale maldestra opera di “reductio ad dogmaticos”, ove il romano è abitualmente sminuito ad un credente timoroso e superstizioso (a tal proposito illuminante risulta essere il capitolo “Pietas et Religio – sive Superstitio”, contenuto nel testo “Aspetti esoterici nella Tradizione Romana Gentile”, a firma di Elio Ermete, per le Edizioni Primordia), spesso si citano le Leggi delle XII Tavole ed il decreto del tribuno militare Gneo Cornelio Scipione Ispano, decemviro, pretore sotto il consolato di Marco Pompilio Lenate e Lucio Calpurnio, con cui ordinò ai Caldei di andarsene in dieci giorni da Roma e dall'Italia, ma come sempre la faziosità nasconde sempre il suo punto debole, cioè l’irriducibile avversione per lo studio e le ricerche rettamente condotte. Solo per citare alcuni testi fondamentali, ci si potrebbe rifare a “Italia Magica – La Magia nella Tradizione Italica” (Biblioteca di Storia Patra) di Maurilio Adriani, in cui un intero capitolo è dedicato ai “Bona e Mala Carmina”, in cui si specifica come fosse decretata la pena capitale per il “malum carmen incantare” quale azione nefasta contro terzi, quale riferimento ad una bassa e volgare dimensione magica, legata ai sortilegi ed alle maledizioni. L’uso di un aggettivo come “Mala” determina una qualificazione di merito nell’ambito di una disciplina, in cui vi sono aspetti anche di nobilità, la “validam artem” (p. 23), che si riferisce a Numa, quale pratica augurale di natura sapienziale che nulla c’entra con le pratiche degli astrologici Caldei, che a Roma non designavano la grande tradizione magica delle terre di Ur, ma appunto i praticanti dei Mala Carmina, i fattucchieri, di cui si occupa anche Orazio nelle sue Satire (II, 1, 82ss):

Si mala condiderit in quem quis carmina, ius est iudiciumque? Esto, si quis mala; sed bona si quis? Solventur risu tabulae, tu missus abibis”.

Al lettore, su tali argomenti, rimandiamo alle pagina auree di un Pietro De Francisci che, in quell’opera fondamentale quale è Primordia Civitatis, nella disamina della cosiddetta “credenza nella potenza” specifica l’ambito “magico” insito nella Tradizione di Roma, oltre che agli scritti di uno studioso – sciamano dell’identità italica ed etrusca quale è stato Mario Signorelli.

Tornando al testo di Casalino, il tema non cambia. La via realizzativa romana è essenzialmente – al di là della mera celebrazione religiosa e privata – una via eroica, guerriera, ermeticamente marziale, essendo il Nume la qualità interiore che determina la Grande Opera, cioè la riconquista dell’Oro autunnale in Saturno, indi una via magica, cioè attiva, in cui l’orante, come nelle figure dei FlamCa 3ini o degli altri Pontefici, è appunto ponte col Divino, in quanto il Divino lo incarna, è egli stesso teurgicamente il Divino, come riporta Plutarco. In tale direzione sarebbe interessante condurre uno studio sul significato anagogico e iniziatico del Calendario Romano, al di là del suo riferimento meramente liturgico: opera meritoria che in parte è già stata svolta da Paolo Galiano (“Il Tempo di Roma” per le Edizioni Simmetria), serio studioso e caro amico di questa Redazione.

A Roma, pertanto, è stato assegnato un ruolo centrale nell’ambito della Tradizione Europa e dell’intero bacino del Mediterraneo, quale reintegrazione in spirito della Saturnia Tellus, indi della Tradizione Primordiale, nel suo nucleo più esoterico corrispondente agli insegnamenti dell’ ermetismo alchimico, come enunciati in tutte le forme tradizionali  dell’ umanità:

…la spiritualità Romana è di natura attiva e magica, <<magica>> nel significato attribuito al termine da J. Evola: essere qualificato da un atteggiamento spirituale attivo nei confronti del Mondo, attivo nei confronti delle Potenze stesse del Mondo, sia nella dimensione visibile che in quella invisibile…” (p. 31).

La nuova pubblicazione di Casalino risulta essere un lavoro imprescindibile per coloro che siano sulla via della riscoperta delle radici metafisiche della Tradizione Patria, quale doppia operazione palingenetica, interna ed esterna, che tramite lo spirito uranico indoeuropeo ha la straordinaria possibilità di  trasmutazione interiore dei metalli, in sincronica anagogia con le fasi celesti ed il sorgere di un vero Ordine politico e civile in terra. La rigenerazione animica , il “Mysterium Magnum”, vissuto e praticato sub specie interioritatis, è l’atto rigenerativo costituente e marzialmente inteso della Tradizione di Roma:

Si edifica ciò che dura nel tempo (Perennitas) solo associando i Popoli al Destino di una idea che esprima un Principio metafisico ed una Libertà spirituale nel viverlo ed assumerlo; che sia un’Idea comune a tutti e superiore a tutte le loro Culture e Tradizioni, senza annullarle ma integrandole e sublimandole con Giustizia che è proporzione e misura…” (p. 46).

Infine, quanto tutto questo si debba ricollegare necessariamente  col mondo filosofale del Platonismo (arcaico, medio e nuovo) ed a un riferimento sapienziale che si è espresso in personalità come quelle di Macrobio, di Pretestato o del Divo Giuliano, l’amico Giandomenico lo indica magistralmente nei saggi in appendice, che sono apparsi primariamente su EreticaMente, e della cui citazione in Premessa non possiamo che essere grati all’autore.

Chi volesse partecipare e contribuire a questa nuova rubrica tematica sulla Romanità, può scriverci a redazione@ereticamente.net .

Luca Valentini

   

Sulle orme del Genius: il Mistero della Fondazione e della Roma Arcana – Stefano Mayorca

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Nell’antica religione dell’Urbe, la figura del Genio deteneva un posto di rilievo e sottendeva a processi creativi di ordine occulto estremamente complessi e secretati. Il Genio era l’espressione più pura della tradizione romana non derivata dall’ambiente greco. Questa entità, presente a livello sottile nella struttura occulta dell’essere umano, presiede alla divinizzazione dell’individuo, ne decreta le qualità innate e la personalità trascendente. La sua duplice valenza attiva e passivapermea l’essere e il supporto invisibile si manifesta contemporaneamente alla nascita dell’essere umano. Il Genius, dunque, ci accoglie, ci assiste e ci protegge dopo la nostra nascita. La controparte femminea del Genius era denominata Iuno. In Politica Romana (N. 3, 1996), diretta dal carissimo amico e noto ermetista Piero Fenili, è riportato a riguardo uno scritto di Servio il quale ci informa che nel giorno della cerimonia arcana dedicata all’adorazione del Genius - corrispondente al compleanno - l’orante si toccava la fronte, punto nevralgico che per i Romani era la sede della creazione dei pensieri: “Frontem Genio (esse consecratam) unde venerantes deus tangimus frontem”. C’è da rilevare in proposito che tale concezione sembra privilegiare nelle connessioni con il Genio la parte mentale e la struttura sottile, piuttosto che concentrarsi su quelle inerenti la sfera sessuale. Da quanto sinora esposto emerge un particolare rilevante che induce a pensare circa il parallelismo concernente il Genius e la Iuno a una concezione tardiva, poiché originariamente il Genio era correlato tanto all’uomo quanto alla donna. Non a caso, un tempo, nelle dimore romane era presente la raffigurazione di due serpenti simboleggianti i geni della moglie e del marito. Questa entità celata è in intima connessione con l’esistenza dell’individuo e con il suo principio vitale, come testimoniano le parole di Plauto che descrive il Genio come una sorta di doppio da nutrire e vezzeggiare, sinergicamente al soggetto stesso. Anche la consacrazione del talamo nuziale al Genio non racchiudeva valenze di ordine sessuale, ma alludeva simbolicamente all’intervento del medesimo, giacché attraverso il Genio si sviluppava lo scambio indispensabile per la fusione dei principi vitali appartenenti ai genitori, scambio che, a quanto pare, darebbe origine ai figli. Pensiamo all’apparizione leggendaria di un fallo di fuoco nel focolare del celebre sovrano etrusco Tarquinio Prisco, che annunciava la nascita di Servio Tullio. La manifestazione fenomenica fu attribuita al Lar familiaris che, a differenza del Genius, legato all’individualità della persona, si connetteva con un luogo specifico in cui appariva. Tuttavia, anticamente il Genio e il Lar furono sovente confusi. In ogni caso, i due culti vennero ben presto associati confluendo nel culto familiare. Come è noto, all’epoca di Augusto, a ogni incrocio della Roma imperiale veniva celebrato il rispettivo Genius in compagnia dei Lares compilates. Nel I secolo a.C. era già diffusa la concezione del Genius posto in analogia con diverse divinità: Iovis Genius (il Genio di Giove); Priapi Genius (il Genio di Priapo); Genius Martis (il Genio di Marte); Genius Iunonis Sospitae (il Genio di Giunone); Genius Victoriae (il Genio della Vittoria). Più tardi, alla primeva concezione latina subentra l’influsso greco e viene introdotta l’idea di un dualismo geniale, legato alla presenza di due geni caratterizzati da aspetti morali che ne delineano una componente di vario ordine e grado. Così, mentre uno possedeva connotazioni benefiche e positive, l’altro era contraddistinto da una polarizzazione negativa tendente al male. In tale visione sembra rientrare - ma solo in parte - la figura di Giano Bifronte che simboleggiava i due volti del dio, quello occulto e nascosto e quello manifesto ed essoterico. Nel contesto che ci riguarda, viceversa, alluderebbe alle due nature geniali. Approfondendo la struttura del mito e la simbolica che concerne questo dio, apprendiamo che si tratta di una divinità antichissima prettamente italica che non trova riscontro presso alcun altro popolo indoeuropeo. Il suo nome si ricollega a ianua (porta) o ianus (passaggio). Giano dunque, potrebbe essere stato in origine un dio apritore. Peculiarità di Giano, come accennato, è la doppia faccia che guarda sia avanti verso il futuro, che indietro verso il passato. Ci troviamo di fronte a una divinità del tempo, in sostanza, un dio del Sole che sorge e tramonta. Per questa ragione veniva posto in analogia con i Solstizi. Ciò spiega, tra le altre cose, la sua funzione divina correlata all’apertura delle porte, visto che lo spuntare del Sole all’alba e il suo eclissarsi verso il crepuscolo erano considerati dei passaggi. In questa veste, Giano diviene colui che apre e chiude le porte. La soglia è l’emblema del Tempio dei Misteri, o luogo segreto che indica la zona interiore, l’autentico laboratorio di luce che è posto nelle profondità dell’essere umano evoluto, espressione elettiva del Genius. Ma 2Gli edifici dedicati a Giano mostravano una particolarità, infatti, l’arco del tempio aveva un doppio passaggio, che era riferito in qualche maniera alla volta celeste dove il giorno e la notte nel corso del loro cammino si incontrano. Quale custode delle porte, recava con sé una chiave di notevoli dimensioni. Il secondo attributo del dio era rappresentato da un bastone, simbolo del viandante che entra ed esce perennemente e conduce un’esistenza errante. In modo analogo, il Sole cammina di continuo, e il suo percorso separa il giorno dalla notte e determina il cambiare delle stagioni. Per questo motivo sono sacri a Giano la prima ora del giorno e il primo mese dell’anno, che porta il suo nome (Ianuarus Gennaio). Nonostante in origine gennaio non fosse il primo mese dell’anno romano, era comunque il primo mese dopo il Solstizio d’Inverno. Ma torniamo a parlare delle funzioni del Genio interno. Dobbiamo soffermarci su alcuni elementi relativi al destino che attende l’uomo e la sua controparte geniale dopo la dipartita. Orazio era convinto che il Genius esaurisse il suo ciclo con la morte dell’individuo. Secondo il grande iniziato e Gran Sacerdote di Iside, Lucio Apuleio, al contrario sarebbe stato immortale. In diverse iscrizioni funerarie romane rinveniamo una conferma alle parole di Apuleio, visto che si menziona il fatto che al Genius spetterebbe un destino spirituale celeste. Sorte che si differenzia da quella cui vanno incontro i Manes e gli Umbra (aspetti della materia eterica più pesante, e della personalità fisica), i quali resterebbero legati alla terra e al sepolcro. I Manes erano considerati anche le anime dei defunti, Numi tutelari della famiglia. L’iconografia che ritraeva il Genius, lo presentava spesso con un corno dell’abbondanza nella mano sinistra e una patera sulla destra. In molti casi era raffigurato con altre divinità, specialmente i Lari. Non di rado lo spirito geniale veniva associato al serpente, anche se a tale riguardo il sommo Virgilio aveva espresso dei dubbi. Di diversa matrice, invece, la cerimonia misterica delle nozze magiche.

Dignitas Matrimonii: il Matrimonio Misterico

Ci riferiamo al rito nuziale che si officiava nell’antica Roma, durante il quale la sposa, prima di congiungersi con il marito, doveva unirsi con il dio Tutinus, di origine priapica (da Priapo, divinità il cui culto si era originato nell’Asia Minore), considerato anche come Genius domesticus o Lar familiaris. Il Lare familiare era considerato il Nunme tutelare della famiglia. Una volta entrata nell’abitazione del coniuge, la fanciulla (nuova nupta) accedeva al letto coniugale solo dopo essersi seduta sul simulacro intifallico del dio, che a livello simbolico la iniziava alla vita sessuale. Alcune volte si pregava ritualmente rivolgendosi agli dèi, invocando la divinità prescelta connessa con una data propizia scelta accuratamente e in seguito ci si isolava. Nell’ambito di questo iter operativo, si possono individuare elementi sapienziali collegati a una scienza ermetica volta a fare insorgere le condizioni adatte mirate al concepimento magico. La forza esternata da tale pratica consentiva di concretare, per mezzo di processi arcani, la nascita di un figlio maschio anziché di una figlia femmina, a seconda delle necessità. È importante sottolineare circa il Dignitas Matrimonii, che il talamo matrimoniale a Roma si chiamava lectus genialis, ovvero letto del genius. Questo genere di Genio, il cui nome deriva dal verbo gigno, che vuol dire Io genero, incarnava simbolicamente la virtù procreatrice dell’uomo. La fase dell’amplesso, quindi, celava elaborate valenze di ordine magico che ritroviamo poi nel tantrismo sacro. Nel contesto della famiglia, la donna sacralizzata assumeva il ruolo di custode del fuoco incorporando così la natura di Vesta (Fiamma viva o Fuoco-Vita). L’uomo, viceversa, rappresentava la controparte maschile e prendeva il nome di Pater familias. Colei che vestiva i panni di Vesta aveva il compito di vegliare sul Fuoco Sacro allo scopo di evitare che la fiamma si spegnesse e mantenesse la purezza originaria. In tal modo, la sposa (o Flaminica dialis) invocava la forza sacra del fuoco offrendo dei sacrifici. Nell’ambito di tali usanze rinveniamo frammenti di culti brahmanici espletati in India con valenze ancora più profonde e di ordine cosmico. La sposa, unita all’uomo dal sacramento chiamato Samskara, diveniva la dea della casa o grhadevata. In questo caso, la giovane configura simbolicamente e magicamente sia il focolare (Kunda) sia la Fiamma del sacrificio. Nell’unione degli opposti si celebravano così le nozze magiche tra il principio maschile e quello femminile, che ritroveremo a livello alchimico nella Roma del Medioevo. In Grecia, gli elementi magici connessi al matrimonio sono riconducibili alla dea Aphrodite Teleia e lo sposalizio presentava elementi di tipo misterico. L’attributo con cui era chiamata Aphrodite (Teleia) deriva da telos, termine relativo all’iniziazione. L’atto procreativo racchiudeva in tal modo l’assunzione cosciente delle corrispondenze cosmiche del maschile e del femminile, unione tra il Cielo e la Terra, l’Alto e il Basso.

Genius publicus: l’ente populi

La gerarchia geniale contava diverse categorie, per così dire, e tra queste troviamo il Genius Publicus, menzionato e reso noto per la prima volta nel 218 a.C. su ingiunzione dei Libri Sibillini. La sua funzione era legata alla prosperità, alla salute e al successo del popolo romano e veniva evocato solamente nei momenti critici che segnavano la storia dell’Urbe. Comunque, questa figura rimane incerta e potrebbe essere identificabile con il Genius Populi Romani, attestato a partire dal I secolo a.C. Basandosi sul calendario di Aminterno e ai Fasti Fratrum Arvalium, (i Fasti dei Fratelli Arvali). Il Genius Publicus era associato a Fausta Felicitas e a Venus Victrix in Capitolio, come spiegato in Politica Romana. La sua ricorrenza cadeva il 9 ottobre e per la sua venerazione era previsto il sacrificio di un animale: “Iovi bovem marem, Iunoni vaccam, Minervae vaccam, Saluti vaccam, Victoriae vaccam, Genio populi Romani taurum, Genio ipsius taurum”. Di norma, il Genius Publicus aveva come attributo un diadema, ma talvolta questo veniva sostituito da un calathos, forse a causa dell’influenza degli imperatori illirici. Una conferma in tal senso proviene dalla descrizione della statua d’oro dedicata al Genio che Aureliano pose sui rostri del Foro. Nel calendario Filocaliano era riportata la festa dedicata al Genio, che si svolgeva nei giorni undici e dodici febbraio del 354 d.C. Tali festività erano denominate ludi Genialici e contemplavano feste solenni e giochi nel circo. Il Genius Augusti, da noi già menzionato, possedeva una duplice valenza poiché commisto al Genius dell’Imperatore e al Genius Publicus. Il Genius Augusti è visibile ancora oggi ai Musei Vaticani, dove è conservata la splendida statua in marmo che lo ritrae testimoniando la crescente importanza che aveva acquisito anticamente. Nel corso degli anni, il Genio imperiale veniva utilizzato anche durante i giuramenti; basti pensare alla punizione inflitta da Caligola ad alcuni cittadini che si erano rifiutati di giurare sul suo Genio. Ma non è tutto. Risulta dalle cronache dell’epoca, che alcuni cristiani si erano dovuti difendere di fronte all’accusa di lesa maestà nei confronti dell’Imperatore. Anche in questo caso si trattava di un diniego verso il giuramento al suo Genio. Gli accusati ammisero la loro colpa, aggiungendo però che avevano fatto voti per la sua salute. L’episodio è narrato da Tertulliano: “Sed et iuramus sicut non per Genius Caesarum, ita per salutem eorum, quae est augustior omnibus Geniis”. Durante il regno di Settimio Severo, viceversa, veniva punito chi giurava il falso sul Genio del principe, come testimoniato da Ulpiano. Anche il Genius Loci mostrava degli aspetti controversi, ricordiamo in proposito il Genius Loci con le sembianze di un serpente intravisto da Enea, sulla cui veridicità l’eroe aveva espresso le sue riserve. Ancora Servio, al contrario, confermerà che l’apparizione sostanziatasi a Enea era senza ombra di dubbio identificabile con questa entità geniale: “Nullus enim locus sine Genio, qui per anguem plerumque ostenditur”. A sostegno della tesi serviana il ritrovamento di un iscrizione nella città di Ercolano, tracciata accanto a un altare, attorno al quale si trovava un serpente raffigurato mentre divora l’offerta ricevuta: “Genius huius locis montis”.

Genius Urbis: il mistero della fecondazione-fondazione occulta

Siamo giunti all’argomento chiave di questo articolo, che esplicita alcune conoscenze segrete rinvenibili nella cognizione ermetica-magica legata alla fecondazione occulta, o germinazione magica,che veniva praticata per la fondazione e celebrazione della nascita di Roma. In un mio pezzo pubblicato sul numero 7 di Politica Romana (2005-2007), dedicato al Genio di Roma, titolato “Il Sole dietro il Sipario: il volto Aureo del Genius-Defensor”, ho parlato del Genio Fondatore o forza arcana intelligente che presiedeva Ma 3alla vita segreta dell’Urbe, Nume protettore e anima stessa di Roma.La sua vita segreta era intimamente legata alla città imperiale, alla sua energia ctonia, alle correnti celate che ne segnavano l’espletazione magico-sacrale. Il nome di questa Divinità-Tutelare era segretissimo, un mistero impenetrabile che ancora oggi è inaccessibile. Il divieto di divulgare la sua vera identità era mirato a scongiurare l’eventualità che la città venisse exaugurata (profanata) o, più esattamente, privata della sua entità tutelare. L’antichità di questo culto tributato al Genius Urbis è documentata in epoca storica da uno scudo ad esso dedicato in Campidoglio, come afferma Servio in un suo scritto nel quale menziona il Genio definendolo Sovrano dei cieli. Tale era il mistero che lo circondava che non si sapeva se la divinità protettrice dell’Urbe fosse maschile o femminile. Ciò che maggiormente ci interessa è comprendere se il Genio di Roma è legato alla fondazione della città eterna, oppure è preesistente e ad essa precedente. Se fosse nato con la fondazione, sarebbe strettamente associato alla Roma arcaica facente capo a Romolo. In tal caso, la sua collocazione temporale può essere ascritta a un periodo ben preciso dell’Urbe, riconducibile alla venerazione di Giove, come attestato da Servio. Difatti la denominazione Signore dei cieli era un epiteto riservato alla divinità gioviana. Qualora il Genius precedeva la nascita di Roma, invece, poteva essere relazionato a Saturno, che esule dall’Olimposi nascose nella latebre del Lazio, come riportato dalla tradizione epica romana (Virgilio-Eneide). In tutti i casi, l’intimo legame esistente tra Roma e la struttura materiale della città è innegabile, soprattutto quale elemento principe di una cultualità secretata. Del resto, i luoghi naturali, determinate e peculiari strutture e le costruzioni artificiali, erano per i Romani permeate di presenze sottili,i Geni. Questa considerazione ci riporta alla mente Le Mille e Una Notte, opera straordinaria dai contorni ermetici ed esoterici in cui sono citati più volte i Geni, con allusione ai Settantadue Demoni di Salomone e alle entità di cui stiamo trattando. Nei santuari druidici aleggiavano forze misteriose legate a certi esseri geniali e in quelli cristiani, egualmente la presenza del Genio era attiva. L’apparizione di Lourdes non era altro che la materializzazione di una creatura geniale,di una Fata.In seguito, il suo vero messaggio è stato rielaborato scartando gli aspetti pagani che la visione aveva affidato a Bernadette  Soubirous. Non bisogna dimenticare che secondo il paganesimo le grotte erano le dimore delle fate e che Lourdes era un antichissimo santuario dei sacerdoti celti: i Druidi. Ad ogni città la mente divina aveva assegnato determinati Numi tutelari e culti particolari. Analogamente all’uomo che possiede un’anima, così ciascun popolo ha un Genio che presiede al suo destino. Il Genio di Roma è correlato forse al Giove sotterraneo, Veiove, il cui simulacro è custodito nel Tabularium (Musei Capitolini). Il Grande Daimon (spirito), altro nome con il quale veniva chiamato il Genio, potente spirito guardiano, veniva accomunato anche alla divina Fortuna dell’Urbe, la Fortuna dei Romani. Tuttora agente, il Genio attende di tornare a diffondere la sua luce arcana e feconda e, nascosto nelle viscere della Roma arcaica, aspetta di poter tornare. A quanto sembra lo spirito guardiano si aggira nella Catacomba di San Callisto, e non solo. La sua presenza è stata registrata nei momenti critici legati alla città in diversi luoghi, ma il sito elettivo in cui dimora è situato nelle Grotte Vaticane, dove si snoda l’antica necropoli, vastissima, disseminata da sarcofagi millenari: il villaggio dei morti. Qui, sul Colle Vaticano originario, lungo la vera Urbe sotterranea,il Genius Urbis resta in attesa.

Stefano Mayorca

Itinerari e migrazioni: un nuovo studio sulla Romanità – Giovanni Sessa

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   In un momento come l’attuale, in cui la cancellazione delle identità è obiettivo perseguito dal potere, a partire dalla negazione dell’appartenenza comunitaria e dell’identità sessuale, è naturale che si generino sane reazioni, e che alcuni studiosi tornino ad interrogarsi sulle radici della civiltà europea. Ed è scontato che ciò avvenga, innanzitutto, in Italia, dove la Tradizione romana è stata punto di riferimento significativo in termini spirituali e politici, per tutto il Novecento, per l’avanguardia intellettuale. Segnaliamo in questo ambito di studi, un recente libro che raccoglie una serie disparata di saggi di Giuseppe Parisi. Ci riferiamo a, Itinerari e migrazioni. La diffusione di divinità e tecniche metallurgiche nel Mediterraneo, edito da Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis (per ordini: 06/5755119, fraternitasaurigarum@gmail.com). Lo studioso, deceduto una decina di anni fa, siciliano d’origine, ma romano d’adozione, attraverso la frequentazione di Pericle Perali e grazie ad una esistenza dedita alla esegesi biblica e della tradizione romana, si è servito del metodo d’indagine “archeologico letterario”, mirato a far luce sugli aspetti più reconditi del mondo Antico.

   A ricordarcelo con pertinenza argomentativa è il curatore del volume, Alessandro Barilà, nell’Introduzione. L’opera è presentata da Ennio Innocenti. In cosa consiste, dunque, il metodo di Parisi? Innanzitutto, nella disamina di fonti originarie, Enea 2lette attraverso l’interpretazione etimologica, in quanto nell’impostazione tradizionale, il linguaggio essenzialmente indica qualità e funzioni delle cose. Inoltre, tale metodologia fonda su base realistica la ricerca storico-etnografica, al fine di illuminare le fonti. E’ l’analogia tra piano sensibile e dimensione sovrasensibile il file rouge di cui si avvale in queste pagine Parisi, con la condivisione di Barilà. L’analogia consente allo studioso di superare la presunta oggettività di matrice umanistica, con la quale la scienza filologica ufficiale taccia di empatia dilettantesca gli studi che non si avvalgano dei suoi stessi strumenti ermeneutici. L’opera che presentiamo, per la sopravvenuta morte dell’autore, non è stata rivista, ma data alle stampe così come egli l’ha lasciata. E’ preceduta dall’esaustiva introduzione e seguita dalla Appendici di approfondimento del curatore.

   L’autore muove dalla polivalenza del concetto di divinità nel mondo antico. Nel divino i popoli classici leggevano una dimensione mistico-spirituale, ma includevano in essa anche il momento etico-rituale e una parte dell’attività pratica. Muovendo da tale presupposto interpretativo, Parisi pensa le divinità quali trasfigurazioni mitiche di lavorazioni tecniche, senza che ciò determini una reductio del superiore all’inferiore, dello spirituale al materiale. Due sono i precedenti cui egli si richiama: da un lato Giorgio de Santilliana e  Hertha von Dechend che ritennero il mito, oltre che luogo del precedente autorevole, del paradigma esistenziale etnico, veicolo essenziale per trasmettere conoscenze concrete. Dall’altro Luc Benoist, che sostenne il vocabolario di base dell’umanità essere fondato sul riferimento a gesti scomparsi di antichi artigiani. Le arti, in illo tempore, furono connotate dal segreto iniziatico. Ecco così svelato il significato del titolo del libro. Parisi presenta “…la diffusione delle tecniche metallurgiche più avanzate e dei connessi valori iniziatici in tutto il Mediterraneo, fino a Roma” (p. 12). L’incipit di tale processo diffusivo va individuato nella città di Troia, la cui potenza discese dalla conoscenza e controllo delle tecniche metallurgiche, originariamente diffuse dai Sacerdoti Cabiri, attraverso i Pelasgi, nel bacino del Mediterraneo. La distruzione di Troia determinò la traslazione della sua tradizione spirituale verso l’Italia, evento del quale fu protagonista Enea. Il mito di Enea non è da interpretarsi quale tardiva invenzione giustificatrice della propria potenza da parte dei Romani, in quanto è attestato già da fonti antiche etrusche e greche.

   Enea è nome che implica ed allude, assieme all’obbedienza al fato, la trasmissione di cognizioni tecniche segrete che furono applicate presso i templi di Ariccia, di Reggio Calabria e del “Facellinum”  in Sicilia. Come ricorda Parisi, tra i pignora imperii, tra le garanzie della supremazia romana, dovevano essere annoverate anche le “ossa di Oreste”, vale a dire i saperi inerenti il processo atto a trasformare il ferro in acciaio. Tale tradizione mitica confligge con la vulgata che vuole la Roma delle origini abitata da semplici pastori ed agricoltori. L’agro romano non era di certo, all’inizio, come le ricerche più accreditate hanno messo in luce, particolarmente fertile. Per l’approvvigionamento del grano la Città Eterna doveva ricorrere agli Etruschi e alle colonie greche. Per la potenza romana fu essenziale il controllo del Tevere, importantissima via navigabile. Lungo il fiume, chiatte e battelli non trasportavano prodotti cerealicoli ma manufatti artigianali tessili e, soprattutto, metallurgici. Del resto, studi accademicamente accreditati, hanno confermato che la gerarchica organizzazione militare di Roma si forgiò parallelamente alla sua struttura produttiva. In tal senso “…i collegia opificum et fabrorum istituiti da Numa Pompilio sono una conferma della…antichità dell’organizzazione industriale di Roma” (p. 18). Da ciò il grande rilievo avuto nel culto romano da Veturio Mamurio, l’Antico Fabbro, che produsse undici ancilia identici al primo, caduto dal cielo.

  Pertanto, stando a Parisi, la rilevanza dell’agricoltura presso i Romani deve essere valutata in modo diverso dal consueto, quale significativo retaggio religioso delle popolazioni autoctone che vivevano nella Saturnia tellus. In ogni caso, con Roma il mito si fa storia: solo l’osservanza rigorosa della pratica dei rituali e dei principi religiosi era garanzia del rafforzamento della potenza romana. Con Dumezil, l’autore e Barilà, leggono la religione romana quale illustre esempio di religione sociale: era praticata dall’uomo, in quanto membro della comunità. Ciò è sicuramente condivisibile, così come la difesa della libertà nella mentalità religiosa romana. Chi scrive però non può condividere la netta separazione, colta dall’autore, che distinguerebbe la religione ellenica da quella romana. Tale posizione implica un pregiudizio erroneo, simile a quello antiromano introdotto da certa cultura tedesca, il pregiudizio antiellenico. Ancor più risolutamente dissentiamo dalla lettura in continuità, sostenuta da Barilà, tra religiosità romana e cristianesimo. Egli infatti con De Giorgio sostiene al riguardo “L’universalità dello spirito di Dio…subentra all’universalità dell’Impero” (p.28). Per noi, al contrario, il cristianesimo ha rappresentato una cesura senza precedenti in quel mondo: dalla città del vir, si passò alla Città di Dio.

  Nonostante queste non secondarie divergenze esegetiche, il libro di Parisi fornisce stimoli e spunti interessanti per la comprensione del mondo antico.

  Giovanni Sessa

Roma, il Mediterraneo e la spiritualità indoeuropea – recensione a cura di Giovanni Sessa

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                          L’ultimo libro di Giandomenico Casalino

Giandomenico Casalino da anni persegue un suo ben identificato progetto spirituale ed intellettuale. Agire, per quanto possibile nelle attuali contingenze, al fine di risvegliare il ricordo assopito di un mondo altro. Non è particolarmente gravoso constatare oggi il livello di generale insoddisfazione, di insicurezza esistenziale oltre che pratica, nel quale vivono la maggior parte dei nostri simili. Nessuno può negare che subiamo, ogni giorno di più, l’accelerarsi e l’aggravarsi della crisi. Di ciò il nostro autore è convinto più di altri. Nell’ultima sua fatica, ma più in generale in tutta la sua produzione saggistica precedente, non si limita a sviluppare la deprecatio temporis che ha riempito troppe pagine, ma propone una via di uscita dallo stato presente delle cose: abbandonare l’oblio che tutto pervade e tornare alle radici profonde della civiltà europea, quelle greco-romane. Presenta tale soluzione nel volume La spiritualità Indoeuropea di Roma e il Mediterraneo, da poco nelle librerie per la libreria Editrice Aseq (per ordini: info@aseq.it).

    Il volume raccoglie la conferenza che Casalino, su invito del presidente del Rotaract Club “Roma Mediterraneo”, tenne nella Capitale il 14/03/2015. Il testo della conferenza è accompagnato da una Appendice che racchiude altri tre scritti complementari ai contenuti espressi in essa, tutti mirati ad approfondire e a chiarire il concetto di Tradizione. La loro lettura consente di entrare in modo compiuto nelle argomentazioni dell’autore. Quella di Casalino è una “invocazione dell’Idea vivente della Romanità” (p. 1). Il suo progetto è davvero ambizioso, fondato com’è sul tentativo di agire sulla dimensione interiore, profonda degli uomini del nostro tempo, che hanno avuto la ventura di ascoltarlo o che incontreranno ora le sue pagine, al fine di determinare in loro un Ca 2cambiamento profondo, nientemeno che una periagoghé platonica. I lettori giudicheranno se l’obiettivo è stato conseguito. L’incipit del libro va rintracciato nella constatazione della perdita di memoria storico-esistenziale della nostra epoca. Essa è paragonata alla situazione che si determina all’interno della cellula neoplastica, la quale si riproduce in modo anomalo, poiché dimentica dei ritmi produttivi atavici che la dovrebbero connaturare “la cellulla perde, dimentica il progetto genetico di quell’individuo…e sviluppa un suo, diverso, progetto genetico alternativo”(p. 26). Tale situazione produce disordine organico e, alla lunga, la morte del paziente. In tale situazione, sotto il profilo spirituale, vive l’uomo europeo.

  A questi Casalino rammenta che l’Europa produsse un modello d’Ordine, spirituale e politico,  subito diffusosi in tutto l’ecumene mediterraneo, imperniato sulla visione del mondo indoeuropea. I Greci per primi si fecero teorici di una possibile vita felice, mentre i romani si posero il problema di realizzare in termini politici tale modello di felicità. Gli Elleni, creatori della Filosofia, accettarono il dato, il Cosmo, riconoscendolo quale Ordine divino, i Romani, latori di una ascesi dell’Azione, individuarono nella Legge la “natura ordinata in Cosmo” (p. 33). Il cosmo romano è Res Publica, lo Stato non è un apriori ma “proprio in forza della sua natura attivo-intensiva è creato dal Romano, mediante il rito giuridico religioso” (p. 31), attraverso due momenti il Bellum Iustum e l’ordine magico-giuridico. Per comprendere realmente tale posizione tipicamente romana è necessario procedere all’esegesi della Triade arcaica divina: Juppiter, Mars, Quirinus. Juppiter è la Mente, il Cielo luminoso degli Indoeuropei, il Dio dei Patti, lo Stato romano come Idea. Mars è l’atmosfera intermedia, inspirazione ed espirazione del Guerriero in marcia, ricorda l’autore. Pertanto, a livello di riferimenti microcosmici, se a Giove corrisponde il Capo, a Marte, farà riferimento il Petto impetuoso, ma “ancor più giù del Petto…c’è il ventre Quirino: esso è il regno, la dimensione della Donna” (p. 19). A Tale divinità pertiene la tutela dei Beni, del Sesso, della Vita. La donna domina, a Roma, è custode della sobrietà dei costumi, difende dall’eccesso e dal lusso la vita pratica degli appartenenti al nucleo familiare, cellula dello Stato.

   La Mente guida e governa, Il Guerriero difende, la Donna conserva. Qui emerge la tripartizione tipicamente indoeuropea già esemplarmente presente nella Città platonica. In sua forza, il Romano sentì il dovere di agire sull’animo degli altri popoli, rispettando le loro tradizioni e costumi, ma integrandoli nella Res Publica. Tanto che questi si sentirono prima Romani e poi appartenenti alle loro etnie d’origine e, negli ultimi giorni dell’Impero, eroicamente difesero il limes, a differenza di molti “cittadini” dell’Urbe dimentichi del Mos majorum. L’ideale che li muoveva era quello di sempre: nei limiti dell’uomo tentare di essere, per quanto possibile, simili agli dei. Casalino suggerisce che, in termini di organizzazione politica, tutto ciò si tradusse in una sorta di Rivoluzione Conservatrice, centrata sulla Costituzione mista. In essa, la sovranità delle istituzioni intermedie quali i Magistrati, il Senato ed i Comizi, in cui si mostra la Sovranità del Popolo, è per così dire, garantita dal Sacro. Si formò così una circolarità aperta e dinamica in cui il Sacro, identificato con il Pubblico, permetteva l’accesso a pieno titolo nella Comunità della figura del fante-legionario-cittadino, sempre in sintonia con le deliberazioni senatoriali mirate alla custodia della Tradizione. La Sovranità popolare a Roma era sacra, un dato di fatto irrinunciabile, a differenza di ciò che sta accadendo oggi alle democrazie moderne, le quali vanno mostrando senza infingimento il loro tratto epidemico, in senso greco, ed antipopolare. Per questo la serenità si mostrava sul volto dell’autentico Romano. Come rilevarono, con sorpresa, gli ambasciatori del Sinedrio ebraico ricevuti dal Senato, i Senatori romani mostravano serenità, austerità e da essi promanava, per questo, la forza autentica dell’autorità.

   Per dirla con Kerenyi, come fa Casalino, l’uomo greco-romano è uomo festivo perché capace di sospendere la “linearità profana della vita”. Solo tornando a guardare tale modello sarà possibile lasciarci alle spalle la mesta e grigia ferialità dei giorni in cui ci è toccato in sorte di vivere.

 

Gli Equites: il Ludus Troiae e l’asse equinoziale – Paolo Galiano ©

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Il giorno dopo le Eidus di Settembre, e quindi a stretto contatto con la celebrazione del dies natalis del tempio di Juppiter O M e del lectisternium offerto al Dio in tale giorno dal Collegio degli Epulones (ben diversi nella loro sacralità dal “ricco epulone” della tradizione evangelica cristiana), si teneva la Equorum Probatio, la solenne cerimonia degli Equites, distinta dalla Transvectio Equitum di Luglio: questa coincidenza di tempi dimostra il particolare rapporto tra Giove e gli Equites (1)e tra questi e l’Urbe, di cui assumevano la funzione, come vedremo, di protettori nei giorni degli Equinozi.

[caption id="attachment_19893" align="alignright" width="200"]La oinochoe ritrovata nella necropoli della Tragliatella a Caere La oinochoe ritrovata nella necropoli della Tragliatella a Caere[/caption]

La Equorum Probatio era “una specie di prova iniziatica [dei giovani] per essere ammessi, una volta in età, all’ordine equestre” (2), giovani nobili che dovevano dimostrare la loro abilità nel condurre i cavalli come sembra dalle parole di Dione Cassio (3): “I figli dei patrizi fecero una giostra a cavallo, chiamata Troia, secondo l’antico costume”. Tale “prova iniziatica”, detta  ludus Troiae, aveva quindi anche un risvolto “tecnico” nell’abilità di condurre la cavalcatura (simile al “capo d’opera” che l’apprendista doveva presentare ai Maestri per essere ammesso nella Corporazione), che forse comportava anche la dimostrazione della capacità del giovane di usare la lancia montando il cavallo senza le staffe (che compariranno solo alla fine dell’Impero portate in Europa dagli Àvari 4); infatti la cavalleria romana, contrariamente a quanto si ritiene, agiva come vera e propria cavalleria e solo in caso di necessità quale “fanteria smontata da cavallo”, come altrove abbiamo scritto (5).

Cosa sia il ludus Troiae o semplicemente Troia non è certo: sembra trattarsi di un arcaico rituale italico o etrusco, forse raffigurato su di una oinochoe FOTO 1

ritrovata a Caere nella necropoli della Tragliatella (6): il vaso presenta nella fascia centrale un labirinto a sette giri sul più esterno dei quali è scritta la parola “Truia”; dal labirinto sembrano uscire due cavalieri imberbi con una gru disegnata sugli scudi FOTO 2 (incerto il significato della figura seduta dietro il primo cavaliere:

[caption id="attachment_19892" align="alignleft" width="300"]Particolare dei due cavalieri con la figura della cicogna o della pernice sullo scudo; questi animali sono ambedue collegati a danze sacre, quella delle gru di tipo guerriero e fatta risalire a Teseo o ad Achille, quella della pernice di carattere prevalentemente erotico, ed in effetti alla destra del labirinto si vedono due coppie intente all’atto sessuale. Particolare dei due cavalieri con la figura della cicogna o della pernice sullo scudo; questi animali sono ambedue collegati a danze sacre, quella delle gru di tipo guerriero e fatta risalire a Teseo o ad Achille, quella della pernice di carattere prevalentemente erotico, ed in effetti alla destra del labirinto si vedono due coppie intente all’atto sessuale.[/caption]

un dèmone?). Davanti a loro marciano sette guerrieri FOTO 3, anch’essi raffigurati senza barba, armati con sette corte lance, o forse giavellotti, e scudo, su cui è disegnata la parte anteriore di un cinghiale, preceduti da un “istruttore” (?) nudo e seguiti da un sacerdote che porta un bastone, forse un Àugure. Dietro il disegno del labirinto vi sono due coppie impegnate in un rapporto sessuale.

La “Troia” in questione potrebbe anche non essere la città di Enea ma una località del Lazio, il cui nome per vicinanza di suono venne assimilato al nome della città da cui veniva l’eroe (7). Infatti la Vanotti ritiene che, nel passo in cui Dionisio di Alicarnasso parla del “campo fortificato” costruito da Enea nella zona attualmente del Fosso di Pratica di Mare (ove si trova il tempio di Sol Indiges), la frase di Dionisio, scritta in greco, possa avere il senso che il luogo in cui era stato costruito il campo fortificato si chiamasse Troia già prima dell’arrivo di Enea, il che significherebbe che il toponimo “Troia”

[caption id="attachment_19891" align="alignright" width="300"]Particolare dei sette giovani guerrieri con l’insegna del cinghiale sullo scudo, animale connesso nel mondo celtico ai Druidi Particolare dei sette giovani guerrieri con l’insegna del cinghiale sullo scudo, animale connesso nel mondo celtico ai Druidi[/caption]

era già in uso nel Lazio (8).

Del ludus Troiae parla Virgilio nell’Eneide (9), ricordando l’esibizione dei giovani a cavallo guidati da Ascanio, prima per i funerali di Anchise in Sicilia e poi in occasione della fondazione di Albalonga, città tramite la quale il rito sarebbe giunto a Roma; i movimenti

[caption id="attachment_19889" align="alignleft" width="300"]Il Vaso François. Sull’orlo del vaso è dipinta la nave con cui Teseo fa ritorno dopo l’impresa del Minotauro. Il Vaso François. Sull’orlo del vaso è dipinta la nave con cui Teseo fa ritorno dopo l’impresa del Minotauro.[/caption]

eseguiti vengono paragonati dal poeta al disegno del Labirinto di Creta e Virgilio identifica senza esitazione il nome del rituale come derivato da quello della città di Enea.

Di sicuro il ludus è “un antico costume”, come scrive Dione, ed è collegato ad un “movimento labirintico”, il quale potrebbe essere la raffigurazione dei movimenti che i cavalieri dovevano far fare al loro cavallo per dimostrare la perfetta capacità nel guidarlo.

Il labirinto, “uno schema magico difensivo che solo a particolari condizioni permetteva il passaggio verso l’interno” (10), ha un significato misterico in quanto cammino verso un centro nascosto ai più, ed il nome stesso, da labrys, la scure a doppia lama, ci rimanda alla civiltà minoico-micenea che così spesso ritroviamo alla base dei riti più arcaici di Roma (11). La “danza delle gru” di Teseo, eseguita a Delo in onore di Afrodite per celebrare la vittoria sul Minotauro a Creta e dipinta sul Vaso François FOTO 4 e 5, era detta seguire un percorso labirintico e costituiva il prototipo della danza pirrica dei Sacerdotes Saliares in onore di Marte.

La presenza degli Equites all’Equinozio d’Autunno a nostra parere non è casuale, né d’altronde vi è “casualità” nel modo in cui i Romani costruirono il loro Calendario.

Se infatti consideriamo in una visione d’insieme l’anno romano, ci sembra di poter rilevare in rapporto con gli Equites la presenza di due assi che si intersecano: un asse temporale collega l’Equinozio di Primavera e i due Equirria connessi al Novilunio di Febbraio ed al Plenilunio di Marzo con l’Equinozio di Autunno e l’Equorum Probatio correlata al Plenilunio di Settembre;

[caption id="attachment_19890" align="alignright" width="300"]Particolare: Teseo che suona la cetra, seguito da sei giovani e sei fanciulle che danzano tenendosi per mano Particolare: Teseo che suona la cetra, seguito da sei giovani e sei fanciulle che danzano tenendosi per mano[/caption]

un asse sacrale unisce, e sempre a sei mesi di distanza, la Juno Sospita (= Protettrice) delle Kalendae di Febbraio, di cui gli Equites sono i Sacerdoti, con la Transvectio Equitum delle Eidus di Luglio, commemorazione della vittoria del Lago Regillo ottenuta grazie agli Equites e allo stesso tempo momento di revisione delle centurie dei Cavalieri da parte dei Censori, revisione della loro capacità economica di mantenere l’equipaggiamento, ma soprattutto della loro condotta per stabilirne la conformità alle qualità morali indispensabili per mantenere il ruolo di eques romanus (12).

Sulla base di questi elementi il Cavaliere potrebbe rappresentare quindi il custode in armi della sacralità dell’Urbe nel tempo e nello spazio, il tempo ritmato dagli Equinozi e lo spazio protetto dall’azione guerriera degli Equites, su cui si estende la presenza salvifica degli Dèi ed il potere vittorioso di Roma (13).

  Note:   1)     Tale rapporto tra il Dio e gli equites non può nascere, secondo noi, se non dalla fine dell’età monarchica, con il ruolo assunto da Giove come primo tra gli Dèi di Roma: la Cavalleria di Roma era stata fondata dallo stesso Romolo e quindi essa alle sue origini, anche per il suo significato guerriero, doveva avere in Marte, divino Padre di Romolo, il suo Dio di riferimento; 2)     SABBATUCCI La religione di Roma antica, Milano 1988 pag. 313; 3)     DIONE CASSIO XLIII, 23; 4) [caption id="attachment_19898" align="alignleft" width="202"]6 – Cippo onorario di Lucio Licinio Fabio Valeriano, eques romanus, esposto nella chiesa romanica di san Liberato presso Bracciano, eretta nel luogo dell’antica Forum Clodii su di una villa romana di nome Pausylipon, come attesta l’incisione ora affissa sull’atrio della chiesa. 6 – Cippo onorario di Lucio Licinio Fabio Valeriano, eques romanus, esposto nella chiesa romanica di san Liberato presso Bracciano, eretta nel luogo dell’antica Forum Clodii su di una villa romana di nome Pausylipon, come attesta l’incisione ora affissa sull’atrio della chiesa.[/caption] Le prime citazioni della staffa risalgono all’opera in dodici volumi sull’arte della guerra attribuita all’imperatore bizantino Maurizio, il quale combatté contro gli Àvari nel 584 (GIBBON Storia della decadenza dell’Impero romano, Roma 1973  cap. XLVI); 5)     GALIANO Sciamani e Cavalieri, in www.simmetria.org; 6)     Un’accurata descrizione del vaso e delle scene in VANOTTI L’altro Enea, Roma 1995. Sul ludus Troiae si veda anche BAISTROCCHI Il Cerchio magico, riti circumambulatori in Roma antica, Roma s.d. (ma probabilmente 2010, a quanto scrive Del Ponte nella prefazione), pagg. 72-88; questo Autore sembra dare al ludus Troiae un’interpretazione esclusiva di rito funerario connesso alla fondazione di città, non mettendo in risalto il particolare significato iniziatico di esso in rapporto alla classe degli equites; 7)     ROSS Virgil’s Aeneid, ed. Blackwell, Oxford 2007, pag. 102; 8)     VANOTTI pag. 190; il riferimento è a DIONISIO DI ALICARNASSO Ant rom I, 53, 3: “Alla fine sbarcarono in Italia a Laurento… e costruirono un campo trincerato. La località in cui si accamparono fu chiamata da allora Troia”. Anche Catone e Livio attestano il toponimo Troia in Ita­lia, ma è impossibile dire se nel loro caso si tratti di un toponimo preesistente o successivo allo sviluppo del mito di Enea in Italia; 9)     VIRGILIO Aen V, 545–560 (trad. A. Caro): “In quante si discorre / per le molte intricate e cieche strade / del labirinto che si dice in Creta / esser costrutto; in tante s'aggiraro, / si confusero insieme, e si spartiro / de' Teucri i figli… / Questi torniamenti e queste giostre / rinnovò poscia Ascanio, allor ch'eresse / Alba la lunga; appresongli i Latini; / gli mantenner gli Albani; e d'Alba a Roma / fur trasportati, e vi son oggi; e come / e l'uso e Roma e i giuochi derivati / son da' Troiani, hanno or di Troia il nome”; 10)  BAISTROCCHI cit. pag. 76; 11)  Ad esempio la cerimonia degli Argei a Maggio, arcaico rito espiatorio e purificatorio, è da molti Autori espressamente collegata ad Argo, città micenea; 12)  Il titolo di eques romanus lo ritroviamo su di un cippo commemorativo dedicato a Lucio Licinio Fabio Valeriano, eques romanus, patronus et curator della città di Forum Clodii sul lago di Bracciano, praefectus, aedilis et praetor di Laurentum e Lavinium, la città di Enea, sacerdos di Mars Gradivus FOTO 6; 13)  Sulla sacralità della Cavalleria e in particolare sugli Equites romani rimandiamo a GALIANO La mistica della Cavalleria medievale, in “Simmetria” n° 8 2005, Le origini della Cavalleria, in “Simmetria” 11 2007, e Galgano e la spada nella roccia, Roma 2015 (prima ed. 2007).     PAOLO GALIANO

L’Equinozio di Autunno nel Calendario Romano – Paolo Galiano ©

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IL DUPLICE CALENDARIO DI ROMA

Il rapporto tra il Calendario di Roma ed i quattro punti cardinali dell’anno, Equinozi e Solstizi, non è chiaro perché, a differenza di altre civiltà tradizionali (si pensi al Giappone che celebra ancora oggi Solstizi ed Equinozi come festività), il Romano non dà un significato specifico a questi momenti dell’anno, non esiste un Dio o una Dèa che abbia il ruolo esplicito di divinità dell’una o dell’altra stagione.

È l’insieme del mese che consente di trovare il sapiente rapporto tra feste calendariali e cardine dell’anno, come si è visto nei precedenti articoli sull’Equinozio di Primavera e il Solstizio d’Estate. Il discorso si fa ancora più complicato nel parlare dell’Equinozio d’Autunno, e questo per due motivi: Giove, signore indiscusso del mese, è solo dal tempo dei Tarquini che assume il ruolo di primo tra gli Dèi, quindi le feste in suo onore sono da considerarsi tardive rispetto al Calendario romano arcaico, ma, e questo complica ulteriormente il problema, è lo stesso Settembre ad essere stato introdotto tardivamente nel Calendario.g-1

È noto lo sviluppo del Calendario di Roma da una più antica forma in dieci mesi ad una successiva in dodici, chiamate rispettivamente “anno romuleo” e “anno numano”, ma più correttamente “anno della prima” e “della seconda età regia”. In realtà si dovrebbe parlare di tre forme di Calendario: del periodo preurbano (risalente alla fondazione della prima comunità del Germalus: periodo laziale IIA2) (1), del periodo protourbano (fondazione del cosiddetto “secondo Septimontium”: periodo laziale IIB2-III B) e del periodo dei Re di Roma, a sua volta distinguibile in un Calendario risalente al tempo dei primi Re e nella successiva variazione apportata dagli usurpatori Etruschi. Non possiamo certamente approfondire questo argomento in un articolo, per cui ne faremo una breve esposizione (2).

Per quanto possa sembrare strano al modo di pensare moderno, riteniamo sia possibile che a partire dal periodo preurbano, intendendo con questo nome la fase archeologicamente identificabile con l’organizzazione dei primi pagi nel territorio che sarà Roma, potessero esistere non in sequenza ma contemporaneamente un anno di dieci mesi ed uno di dodici, il secondo di tipo lunisolare, con il quale si cercava di far quadrare 12 cicli lunari sinodici (3) di 29,5 giorni medi (29,5 x 12 = 354) con i 365 giorni di durata dell’anno solare mediante l’introduzione periodica di un mese intercalare, il primo invece, a nostro parere, di tipo né lunare né solare ma sacrale. Questo anno di dieci mesi è quello al quale si riferiscono i nomi delle feste arcaiche scritte in lettere di maggiori dimensioni sui calendari che ci sono pervenuti (4) (per altro il più antico, i Fasti Antiatini veteres, risale al 60 a. C., ben distante da un proto-Calendario del periodo preurbano e protourbano). Un esempio relativamente recente della coesistenza di un duplice calcolo calendariale, l’uno sacro e l’altro civile, lo troviamo dall’altra parte dell’Atlantico nella civiltà degli Aztechi, ancora ambedue in uso al momento dell’arrivo degli invasori spagnoli.

Sarebbe tutta da approfondire, ma non è qui possibile uno studio del genere, l’ipotesi dell’esistenza di un Calendario sacrale, il quale potrebbe essere costituito dalle celebrazioni degli Dèi più antichi di Roma che forse potrebbero identificarsi con le divinità familiari delle gentes che comporranno in seguito il Senato di Roma (la più antica capanna del Germalus, IX secolo a. C., presenta due differenti luoghi di culto accanto alla capanna principale, identificati da Carandini con quelli di Marte e di Ops, forse le divinità della gens del “capo” della comunità preromana).

Ciò che qui interessa è la sicura esistenza di due calendari distinti, in cui quello di dodici mesi sembra abbia sostituito quello di dieci portando nell’uso corrente due mesi, per l’appunto Settembre e Novembre, i quali potrebbero essere considerati due mesi extra-calendariali aventi solo scopo lavorativo e non sacrale (si tratta dei periodi in cui l’attività dell’uomo si incentra sulle operazioni lunghe e faticose della vendemmia e della semina dei campi prima della stasi invernale).

Di certo Settembre, e quindi l’Equinozio d’Autunno, cade in apparenza al di fuori del Calendario arcaico, in quanto Giove, il Dio che si celebra in questo mese, è solo a partire dal tempo dei Tarquini che prende la supremazia sul pantheon di Roma con l’introduzione della nuova triade Giove-Giunone-Minerva che sostituì l’originaria Giove-Marte-Quirino (5). Ma si potrebbe anche pensare che in origine la divinità correlata all’Equinozio fosse una di quelle celebrate nell’arcaico Ottobre, e in tal caso ipotizziamo che si trattasse di Marte a cui erano dedicati i Meditrinalia, la cerimonia con cui il Flamen Martialis offriva a Marte il primo vino dopo la vendemmia. Notiamo infatti che delle tre (o quattro? 6) feste del vino le altre sono celebrate in onore della coppia Giove-Venere e solo questa appartiene a Marte, per eccellenza il Dio protettore di Roma, genitore dei Gemelli fondatori dell’Urbe, ma anche venerato nell’arcaico Carmen Saliare come Dio del cielo e della tempesta, caratteri che di solito si attribuiscono a Giove (7).

Basiamoci quindi sul Settembre del Calendario dell’età dei Tarquini per fare alcune considerazioni.

 

SETTEMBRE, INIZIO DELL’OSCURITÀ

L’Equinozio d’Autunno è un momento particolare dal punto di vista astronomico per il nostro pianeta e, per l’analogia tra macrocosmo e microcosmo, per l’individuo: astronomicamente segna il punto di passaggio al periodo di maggiore oscurità, si passa dalla luminosità che è andata in crescendo dalla Primavera all’Estate all’oscurità che aumenta fino a raggiungere il suo culmine nel Solstizio d’Inverno; a questo momento astronomico corrispondono nel mondo antico sul piano delle attività umane attività agricolo-pastorali di “riposo”, quali il ritorno delle mandrie dai pascoli d’altura a quelli della pianura presso i ricoveri che ospiteranno il bestiame durante il freddo invernale, e due fondamentali operazioni agricole, la semina del grano e la vendemmia dell’uva, cioè due eventi che comportano il “passaggio al buio” dell’uva, che nei tini deve fermentare per trasformarsi in vino da gustare a Primavera, e del seme, che nella terra “muore” per generare una nuova vita.

Anche per il singolo inizia in questo periodo una fase di “passaggio al buio” che prelude al “ritorno al centro” nella re-instaurazione dell’Età dell’Oro nei Saturnalia di Dicembre, in cui ad un’interiorizzazione della propria trasformazione seguirà, con l’aiuto del Sole che a Dicembre vincerà sulle Tenebre, la rinascita di Primavera.

Non è un caso che per i Greci l’Equinozio d’Autunno coincidesse con i Grandi Misteri di Eleusi, in cui veniva realizzato lo stato di myste che aveva avuto il suo avvio nei Piccoli Misteri dell’Equinozio di Primavera. “È questo il momento per l’essere umano di ‘raccogliere’ ciò che si è realizzato nel semestre primaverile ed estivo e ‘seminare’ quello che dovrà essere attuato nel prossimo periodo” (8).

A Roma il mese di Settembre esprime questi significati incentrandosi sul Dio supremo dal periodo degli ultimi Re, Giove come Juppiter Optimus et Maximus a sottolinearne la qualifica di sommo tra gli Dèi (9): egli è in pratica l’unica divinità celebrata nel mese equinoziale, affiancato da Ops Consivia, l’“Abbondanza” (che però è riportata solo in alcuni calendari), la quale è la personificazione della Fonte da cui discende sugli uomini il Potere derivante da Giove, e pertanto è giusto che la sua festa possa ricorrere in questo mese.

La presenza di Giove è così esclusivizzante che le Kalendae sono dedicate a Juppiter Tonans, unico esempio di Kalendae a lui riservate. In armonia con la presenza di Giove, non è un caso che Roma in Settembre celebrasse il giorno 20 il dies natalis di Romolo, il primo Re rappresentante in terra del suo Potere.

La celebrazione del Dio ha due momenti di particolare rilievo: i Ludi Magni o Romani, romanizzazione delle Feriae Latinae che venivano celebrate nello stesso mese in onore di Juppiter Latiaris, il Dio della Lega Latina che aveva sede nel santuario sul Monte Cavo (10), e il dies natalis del suo tempio sul Campidoglio, dedicato alla (nuova) triade Giove-Giunone-Minerva.

Un particolare aspetto di Settembre è dato dal suo essere un “mese di inizio”, analogo a Marzo, che come questo è un mese equinoziale. Si viene così a costituire un parallelo tra il Marte della Primavera, con cui si ha l’inizio dell’attività bellica e del ver sacrum che ampliava la potenza della città con l’invio de suoi giovani ad insediarsi in nuove terre, e il Giove dell’Autunno, tempo della pienezza del Potere che si avvia a ri-generarsi attraverso il passaggio all’Età dell’Oro del Saturno di Dicembre. L'ordinamento del mese di Settembre è però relativo ad un tempo storico, visto che si tratta di riti che possono esser fatti risalire all’epoca dei Tarquini, mentre quelli di Marzo, l’altro “mese di inizio”, ci rimandano ad un tempo mitico, il tempo dell’ancile di Marte caduto dal cielo che i Saliares, guerrieri sacri le cui cerimonie risalgono molto indietro nel tempo (11), portano nelle loro danze rituali.

Il carattere iniziale del mese è confermato da due cerimonie: l’infissione del clavus annalis nel giorno delle Eidus per segnare l’inizio di un nuovo anno (12) e l’entrata in carica dei Consoli, rappresentanti in terra di Giove, fissata anch’essa nello stesso giorno (poi spostato al 14 Marzo in coincidenza degli Equirria e più tardi al primo di Gennaio). Notiamo per inciso che, mentre i Consoli costituiscono una carica di età repubblicana, quindi relativamente recente, e perciò hanno un “inizio”, il Rex-Sacerdos del periodo arcaico invece non conosce “inizio di potere”, ma solo “rinnovamento di potere”, come sembra di poter riconoscere nel Regifugium di fine Febbraio, mese catartico, e forse nell’Armilustrium di Ottobre.

Il giorno successivo alle Eidus, nel quale cade il rito dell’Equorum Probatio, è dedicato agli Equites, i Cavalieri di Roma, il cui ruolo particolare in rapporto ai due Equinozi nel Calendario di Roma richiede un discorso a sé stante.

GIOVE, IL DIO DEI SUMMA

Il Dio supremo della Triade Capitolina ha le sue origini nel comune retaggio indoeuropeo dei Latini: definito come il Dio dei summa (13), a lui sono proprie le “sommità”, tutto ciò che è “al di sopra” (mentre di Giano sono i prima, gli inizi di tutto), in quanto egli è il Cielo nel suo aspetto luminoso, che sovrasta tutto il creato e da cui tutto viene agli uomini, i quali mediante il rituale dell’augurium, con il quale si cercano i signa esprimenti la volontà divina, possono conoscerne la volontà.g-2

I diversi appellativi con i quali Giove era invocato, e che costituiscono una sorta di “specializzazioni” dell’area di competenza del Dio, talvolta possono far smarrire il senso più profondo di questa divinità, così essenziale nell’àmbito della religiosità romana.

Il nome stesso di Giove, Juppiter, esprime la sua qualificazione come “cielo luminoso”: “Infatti una volta egli era chiamato Diovis e Diespiter, cioè Dies Pater [Padre Giorno], da cui quelli che ne discendono son detti Dèi, e così dius [Dio] e divum [cielo], da cui l'espressione sub divo [sotto il cielo] e Dius Fidius [il Dio della fides]” (14). La radice *Diou- è di provenienza indoeuropea e dà in vedico Dyáuh e in greco Zεύς; dal punto di vista fonetico è immediato l’accostamento tra il vedico Dyáuh pitā ed il latino Diespiter, col significato in entrambe le lingue di “Padre Cielo”. Ricordiamo che Diespiter è anche il nome della divinità sotterranea identificata con Plutone, sposo di Proserpina, la cui più importante celebrazione si teneva nei riti notturni del Tarentum, ma la spiegazione di questa apparente contraddizione nella coesistenza di un Dio di eguale nome celeste e tellurico ci porterebbe troppo lontano (potremmo dire per semplicità che “come è in alto, così è in basso”).

Il “cielo” non è, o meglio non è solamente, quello atmosferico ma, come scrive Macrobio (15) parlando di Giano in quanto Principio della manifestazione, è l’Ente che tutto avvolge, permea e sostiene: “Colui che plasma e governa ogni cosa unì circondandole con il cielo l’essenza dell’acqua e della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell’aria, leggera e tendente a sfuggire verso l’alto: l’immane forza del cielo tenne legate le due forze contrastanti” (16).

Il “Cielo”, visto sotto questo aspetto, rappresenta la forza ordinatrice che regge, consolida e stabilisce i principii, i quattro Elementi, dei quali la realtà fisica è composta, ne regola le relazioni e le proporzioni e fa sì che la realtà sia ciò che è, e non altrimenti.

Tale azione di “ordinatore” e di “reggitore delle cose” di Giove-Cielo si riflette sul piano umano in termini di giustizia, intesa non come l’aderenza alle leggi che regolano la convivenza civile e la struttura di una società umana, bensì come armonia cosmica, uno stato di equilibrio dove ogni cosa sta al suo giusto posto, a somiglianza della funzione svolta dall’egiziana Ma’at. In questo senso Giove viene invocato quale testimone dei patti e dei trattati con altri popoli, come previsto nei riti dei Sacerdotes Fetiales (17), nei quali era contemplato l’uso della selce, simbolo della folgore divina di Giove, e dello scettro, attributo della regalità proprio al Dio.

A questa funzione sul piano cosmico corrisponde sul piano della realtà fisica la manifestazione di Giove secondo due modalità ben precise: un’azione premonitoria per mezzo dei signa ex caelo di cui gli Àuguri gli interpreti, e un intervento di tipo magico sugli eventi umani.

I signa ex caelo venivano interpretati dagli Àuguri come espressione del volere degli Dèi: nulla può essere intrapreso sia nella vita pubblica che privata che non sia sotto “buoni auspici”, cioè secondo il volere degli Dèi, ma alla loro volontà a sua volta l’uomo può rispondere accettando o meno i signa, perché “i segni annunciano ciò che avverrà, se non si prendono provvedimenti” (18), e questo perché il Romano conosce quello che noi chiameremmo “il libero arbitrio” ed ignora il concetto greco di Ananke, il Fato a cui per i Greci gli stessi Dèi si sottomettono, concezione che prenderà piede solo verso la fine della Repubblica, quando la corruzione causata dal pensiero greco sarà ormai inarrestabile a causa della decadenza del mos maiorum, quando il “prendere gli auspici” non era mera superstizione, come comunemente si crede, ma un preciso atto con cui l’uomo entrava nella sfera del Divino per conoscere direttamente il “programma” degli Dèi.

L’uomo ha quindi la possibilità di non accettare il volere divino, ma sa che contravvenendo alla disposizione degli Dèi incorre in un pericolo, ed infatti sono diversi gli esempi che possiamo trovare nella storia di Roma di inosservanza degli auspicia conclusisi in modo tragico.

Cicerone (19) afferma esplicitamente nel trattare delle azioni delegate agli Áuguri che vi sono antiche leggi, “non così antiquate come nelle vecchie XII tavole e nelle leggi sacrate, e pur tuttavia un po' più arcaicizzanti, tali da assumere una maggiore autorità”, le quali stabiliscono che “gli Áuguri pubblici, interpreti di Giove Ottimo Massimo, prestino attenzione ai segni e agli auspici; vigilino sulla disciplina e sui sacerdoti; interroghino la volontà degli Dèi se sia il caso di piantare vigne o boschetti di salici, o nei confronti del benessere del popolo romano; comunichino il significato del volo degli uccelli a coloro che conducono una guerra o che governano il popolo, e che questi gli obbediscano; riescano a prevedere l’ira degli Dèi; se in determinate zone del cielo si osservano fulmini, agiscano per moderarne la violenza; consacrino e delimitino le città, i campi, i templi. Tutto ciò che l’Àugure abbia fissato che sia ingiusto, infausto, difettoso o funesto sia considerato inesistente, come se non fosse stato fatto; chi non obbedisce a questa disposizione, sia condannato a morte”.

Sottolineiamo i quattro aggettivi iniustus, nefastus, vitiosus, dirus usati non a caso da Cicerone: ingiusto, contrario allo Jus, nefasto, contrario al Fas, difettoso, incompleto nell’esecuzione del rito, funesto, che arreca eventi tremendi e spaventosi. I primi due aggettivi concernono il modo con cui gli Dèi regolano la vita dell’uomo, il terzo il rito con cui l’uomo si collega agli Dèi, il quarto il risultato dell’azione umana.

La seconda forma di intervento di Giove sulle azioni degli uomini consiste in un atto magico nel provocare determinati eventi destinati a mutare il corso della storia.

Ad esempio, Livio (20) racconta come, nel corso della battaglia contro i Sabini durante la guerra iniziata a seguito del ratto delle loro donne, i Romani erano stati messi in fuga, ma “Romolo, travolto egli pure dalla turba dei fuggiaschi, levando le armi al cielo: ‘O Giove,’− esclama − ‘sotto i tuoi auspici io ho gettato qui, sul Palatino, le prime fondamenta di questa città. I Sabini occupano ormai la rocca comprata col tradimento; di là essi tentano di raggiungere in armi questo punto, dopo aver superato la valle intermedia; ma tu, Padre degli Dèi e degli uomini, almeno da qui respingi i nemici: libera i Romani dal terrore e arresta questa fuga vergognosa’“. E così fu: i Romani si fermarono e lanciandosi contro i Sabini li sconfissero, e Romolo per esaudire il voto eresse il tempio di Juppiter Stator ad Portam Mugoniam, celebrato secondo il Calendario alle Eidus di Gennaio.

L’azione magica degli Dèi è presente in divinità delle altre popolazioni indoeuropee: in India Varuna non combatte contro i suoi avversari ma li “lega” con lacci invisibili che li costringono all’impotenza, e in modo analogo Ódhinn dispone di tutta una serie di poteri straordinari, principalmente la facoltà di accecare, stordire e paralizzare i suoi nemici. Come loro, così anche Giove lascia a Marte il compito della guerra: egli non combatte perché è il Sovrano-Mago e il Sovrano-Giurista, e sarà solo con l’avvento dell’Impero che il Dio “si evolve in senso nettamente militare: il suo corrispondente non è più il primo dei tre Flamines maggiori, il Dialis, ma l’Imperator trionfante” (21).

Se queste sono le funzioni di Giove, la sua connessione con l’Equinozio d’Autunno la possiamo riconoscere proprio nel suo aspetto di Dio “ordinatore” e “fondatore” della Legge, dello Jus: egli, attraverso la ripetizione della sua presenza nel mese a lui tutto dedicato, si pone all’inizio del periodo “oscuro” e “pericoloso” dell’anno, nel quale è necessaria l’affermazione di un potere superiore che possa mantenere lo stato di armonia e di equilibrio che le Tenebre potrebbero distruggere. Il Cielo, che per volontà della Forza che ha creato i molteplici stati dell’esistente avvolge e conserva il tutto secondo le parole di Macrobio, consente al Sole di attraversare il rischioso passaggio angusto del Solstizio d’Inverno, preservando e affermando la stabilità e l’ordine del Cosmo contro il Caos che lo minaccia.g-3

Con una diversa prospettiva e un diverso linguaggio, potremmo ricordare che questo mese era considerato anche come il mese di Pomona (22), divinità antichissima la quale aveva un suo Flamen (il Flamen Pomonalis) e veniva venerata in un santuario cinto da un lucus, il Pomonal, situato sulla via Ostiense. Pomona, come indica il suo nome, è la Dèa dei pomi, “la Dèa che offre i pomi d’oro posti sotto la sua custodia all’Heroe che ha portato a termine l’Opera. Sono i pomi aurei del Giardino delle Esperidi, che la più antica tradizione nostra identifica con l’Italia stessa, i cui Fati è dato cogliere nel Latium, nelle cui ossa e viscere eternamente giace in stato liminale Saturno, Dio dell’Età dell’Oro” (23). L’accostamento fatto da “Rumon” sul piano ermetico-alchemico di Pomona con l’Equinozio di Settembre si conclude con queste parole: “La morte è alle porte, la maturazione sembra segnare il confine impalpabile tra un ciclo e un altro, l’Heroe coglie ed eleva i pomi al cielo. È il perfezionamento dell’Opera, la completa assunzione in cielo per atto di volontà assoluta dell’Ercole-Augusto che, cogliendo i frutti offertigli da Pomona, si indìa spandendo i suoi raggi benefici sulla terra nella veste definitiva di Apollo regnante”, il Sole che fra tre mesi rinascerà con rinnovata potenza dopo il Solstizio invernale.

  Note:   1)     La cronologia distingue i Periodi laziali in: IIA2 870-830 a.C., IIB1 830-800, IIB2 800-770, IIIA 770-750, IIIB 750-725; 2)     L’argomento è stato estesamente trattato in GALIANO Il tempo di Roma, Roma 2013, e in parte ripreso e corretto per quanto concerne il “ciclo del vino” in Venere, la Grazia divina, Roma 2014,. Per quanto qui scriviamo, si vedano i lavori di CARANDINI La nascita di Roma – Dèi, Lari Eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997 pp. 405-429, TORELLI Lavinio e Roma, riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia, Roma 1984 pp. 75-116, idem La forza della tradizione, Milano 2011 Parte Prima passim, MAGINI Calendari e gravidanze di Roma arcaica: due tesi a confronto, Quaderni del Centro Warburg Italia, Università di Siena 2006-2007, lavori con cui le nostre conclusioni non sempre concordano; 3)     Il mese sinodico è l’intervallo tra due fasi eguali e consecutive della Luna, indipendentemente dai rapporti con le stelle dello Zodiaco, che dà invece luogo al mese siderale di 27,3 giorni, computabile solo con un calcolo più complesso, come rileva Magini . 4)     Le feste evidenziate nei calendari pervenutici sono (CARANDINI La nascita di Roma cit. pag. 420 e Addendum VII): Marzo: Equirria, Liberalia, Agonalia, Quinquatrus, Tubilustrium, QRCF Aprile: Fordicidia, Cerialia, Parilia, Vinalia Priora, Robigalia Maggio: Lemuria, Agonalia, Tubilustrium, QRCF Giugno: Vestalia, Matralia, QStDF Quintile (poi Luglio): Poplifugia, Lucaria, Neptunalia, Furrinalia Sestile (poi Agosto): Portunalia, Vinalia Rustica, Consualia, Volcanalia, Opiconsivia, Volturnalia Settembre-Ottobre (poi Ottobre): Meditrinalia, Fontinalia, Armilustrium Ottobre-Dicembre (poi Dicembre): Agonalia Indigeti, Consualia, Satur­nalia, Opalia, Divalia, Larentalia Novembre-Gennaio (poi Gennaio): Agonalia, Carmentalia Dicembre-Febbraio (poi Febbraio): Lupercalia, Quirinalia, Feralia, Terminalia, Regifugium, Equirria. Dallo sdoppiamento di Settembre-Ottobre e di Ottobre-Dicembre avrebbero avuto origine rispettivamente Settembre e Novembre, ambedue privi di feste arcaiche; 5)      Come ha affermato DUMÈZIL nel suo Juppiter, Mars, Quirinus la triade Juppiter, Juno e Minerva era andata a sostituirsi alla più antica triade costituita da questi Dèi, nei quali si trovano quei caratteri di divinità della Prima, della Seconda e della Terza funzione che sono alla base della religione di tutti i popoli di matrice indoeuropea; 6)     Sulle possibili quattro feste del vino nel Calendario romano rimandiamo a quanto scritto in GALIANO Venere, la Grazia divina cit. pp. 82-101, con particolare riguardo all’equivalenza tra il sangue ed il vino come offerta sacrificale suprema; 7)      La supremazia di Marte potrebbe essere dimostrata che a lui venivano offerti in sacrificio arieti integri di una specie più nobile detti altilanei, mentre a Giove animali castrati e a Giano arieti integri ma ordinari (DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus Torino 1955 p. 380; per un esame più completo della figura di Marte rimandiamo a GALIANO Mars Pater, Roma 2014); 8)      VIGNA I cicli naturali, Roma 2010 p. 86; 9)      Il che, come si è detto, vale solo a partire dal  periodo della dinastia etrusca, mentre altre divinità avevano tale ruolo nella religione arcaica di Roma, quali Giano, ma forse anche Vulcano, Marte e il poco conosciuto Vertumno, probabilmente il primitivo Dio del Trionfo venerato in Agosto; 10)  Ricordiamo per inciso come il nome della cima del Colle Albano sia fatto derivare con una paraetimologia da caput bovum, il bove offerto al Dio; 11)  Sui Sacerdotes Saliares e la loro origine arcaica rimandiamo ai lavori del DE FRANCISCI citati in Mars Pater cit; 12)   Il rito consisteva nell’infissione rituale di un chiodo detto Clavus Annalis sulla parete che divideva nel tempio capitolino la cella di Giove da quella di Minerva, la Dèa della misura, in quanto essa, il cui nome potrebbe ricondursi a *men, radice di termini come mensura e mensis, era connessa all’invenzione del numero, alla divisione del tempo e al ricordo dei fatti avvenuti (anche Mnemosine deriva dalla stessa radice); 13)  Come dice VARRONE in Agostino De civ Dei VII, 9: “Penes Iovem sunt summa, penes Janum prima”; 14)  VARRONE De l . V, 66 ; 15)  MACROBIO, Sat I, 9, 14, parlando di Giano quale origine della manifestazione cita le parole di Marco Valerio Messalla Rufo, Console nel 53 a.C. e Àugure per 55 anni, ricordato da GELLIO Noct Att XIII 15, 3 per un trattato De auspiciis, da cui è tratta la citazione di Macrobio, e da PLINIO Nat hist XXXV, 8 per un'opera De familiis sulle gentes di Roma; 16)   Questo non va interpretato nel senso che Giove sia da considerarsi un Dio creatore: Roma non conosce miti della creazione, che forse sono adombrati (come sempre il Romano è alieno da considerazioni metafisiche e da elucubrazioni filosofiche more graeco) nelle divinità più antiche nella forma di una cosmogonia-teogonia storicizzate, come accenna CARANDINI La nascita di Roma cit. pag. 123; 17)   Per i riti e le formule dei Fetiales vedi LIVIO Hist I, 24; 18)   CICERONE De divin I, 29; 19)   CICERONE De leg II, 8, 18 e 20–21; 20)   LIVIO Hist I, 12; 21)  DUMÉZIL Juppiter, Mars, Quirinus cit. pag. 218 ; 22)  Come scriveva nel IV sec. d.C. il rètore Decimo Magno Ausonio nella IX delle sue Egloghe: “Autumnum, Pomona, tuum September opimat”; 23)  “RUMON” Kalendarium, commento al mese di Settembre (testo non pubblicato). Come spiega in nota l’Autore “usiamo la dizione Heroe con chiaro riferimento alla nozione che del termine ebbe Cesare Della Riviera, autore del  trattato ermetico Il mondo magico de gli Heroi (1605)”. Anche se non concordiamo con l’Autore sulla possibilità di un’interpretazione ermetica, ci è sembrato utile presentare al lettore una diversa concezione dell’evento equinoziale dal punto di vista di un altro Autore.   PAOLO GALIANO

“Sacer” e “Sanctus” nella tradizione giuridico-religiosa romana – Giandomenico Casalino

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Nella cultura, in senso lato, indoeuropea e quindi in tutte le sue varie e diversificate ramificazioni linguistiche, le parole “sacro” e “santo”, con i loro categoriali semantemi, sono, ovviamente, atteso il campo significante a cui appartengono, che è quello che noi chiamiamo “religioso”, abbastanza contigue, anzi confinanti.

Infatti, santo (greco: òsios; sebastòs/ latino: sanctus) ha in sé il valore del “confine”, di quella dimensione visibile dell’Invisibile che segna, appunto, il limite, che è posto o che comunque sta a protezione e ad indicazione della dimensione del totalmente Altro che è il Sacro, essendo ciò che è riservato esclusivamente per gli Dei. In tale intreccio di semantemi, il Santo, che appare quasi come un preambolo o come un avviamento al Sacro, è anche il Puro e cioè il purificato (tenendo a mente che l’etimo di codesta parola è pýr che in greco vuol dire: fuoco!). Qui risiede la ragione per cui nella parte orientale dell’Impero, il titolo di Augusto è tradotto in greco con la parola Sebastòs: il Santo!

Nella mia terra, che è il Salento, gli anziani ancora qualificano la “morte” come “santa” e parlano di “santa morte”! Cosa significa ciò? Ritengo che faccia riferimento, secondo la nostra arcaica cultura contadina, alla verità che la “morte”, come evento che segna un passaggio, una mutazione di essere e di dimensione, tanto nello spazio che nel tempo profani, è il confine ultimo, valicato il quale, si entra nell’Altro che è il Sacro e cioè il Mistero!

Ciò non fa che richiamare tutti i complessi rituali che accompagnano, da sempre ed in tutte le Civiltà, l’evento morte, sentito proprio come passaggio di un limite che segna il transito verso l’Invisibile; da qui, per esempio, l’antica consuetudine, già vigente nell’abitazione del defunto, quando lo stesso era deposto in casa per la pietà dei familiari, di coprire tutti gli specchi ivi esistenti onde impedire che le Potenze dell’Altro, i Mani dei Romani, potessero valicare il confine attraverso lo specchio, porta che, da sempre, in tutte le mitologie e culture religiose, conduce da un Mondo ad un Altro: è abbastanza nota la centralità dello specchio e del suo alto valore simbolico in tutte le Tradizioni iniziatiche, quale “passaggio” o presa di coscienza (visiva) dello stesso in quanto apertura per il mutamento da uno stato ad un altro dello Spirito! È sufficiente riflettere sulla parola latina speculum, da cui il nostro “specchio”, e sul fatto che è letteralmente sovrapponibile alle parole speculazione e speculare che dallo stesso derivano, e che, oltre ad essere in Hegel sinonimi di mistico, fanno proprio riferimento, in buona sostanza, nel lessico filosofico, alla Sapienza suprema che ha per oggetto il rapporto e l’effettuale riconoscimento dell’Io quale Sé nella immagine speculare riflessa.

Quanto sopra esplicitato, in via abbastanza generale, può favorire l’ingresso del nostro discorso nella dimensione spirituale, in quanto Realtà vivente, della Tradizione giuridico-religiosa romana che, ed è bene rammentarlo, è,  nella sua esperienza attivo-intensiva del Sacro, come afferma Evola[1], di natura esclusivamente magico-religiosa poiché è qualificata da un atteggiamento attivo dello Spirito il quale, mediante il Rito e cioè l’Ascesi dell’Azione, crea letteralmente la realtà fenomenica per mezzo di tale Azione su quella numenica; e ciò è totalmente estraneo ad ogni ritualità di natura sia teurgica che misterica, per la semplice ragione che, come credo di aver dimostrato nei miei libri e come insegnano, nel ‘900 ed oltre, sia Julius Evola, Mircea Eliade e Karoly Kerenyi, che decine di studiosi del Diritto Romano, della Religione e della fenomenologia della spiritualità di Roma antica quanto della medesima antropologia culturale romana, anche sotto il profilo di natura filologico-linguistica, essendo assente nella Romanità, la mediazione mitologica, che è la dimensione animico-fantastica sia teogonica che cosmogonica, del Sovrasensibile, l’Io è in diretto, attivo ed immediato contatto con le forze dell’Invisibile solo ed esclusivamente con il Rito che, attesa la sua natura primordiale, è nella sua immodificabile operatività ed ineluttabile efficacia magica, molto simile a quello Vedico, essendo ambedue qualificati proprio dal rapporto necessario e pericoloso, asciutto ed essenziale tra l’Io ed il Metafisico, rapporto che si fonda sulla Conoscenza esoterica della specularità eziologica sussistente tra l’Invisibile e il visibile. (Vedi la Dottrina che emerge dai Rituali e dai Formulari degli stessi Sacerdozi Pubblici: Auguri, Feziali, Flamini).

Nella Romanità il concetto di santo acquisisce, pertanto, una specificità tutta particolare che è figlia proprio di quanto abbiamo sopra sinteticamente rammentato; nel Digesto (I, 8,9, par. 3), infatti, vi è tale categorica definizione: “Proprie dicimus sancta quae neque sacra, neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut leges sanctae sunt…”!c-2

Al fine di poter comprendere il senso profondamente romano di tale massima giuridico-religiosa, è necessario confrontare il significato di Santo ivi esplicitato con quello di Sacro, che viene definito però in via negativa e che noi invece cercheremo di esplicitare.

Mediante il Sacrificio, che è il Rito per eccellenza, infatti, si “crea” il Sacro (greco: Hieròs; latino: Sacer), che per natura o per decisione, è riservato, separato per gli Dei: nel sacrificium, l’animale, la victima (parola che ha la stessa radice di weihen) “è estratta dal suo uso consueto ed offerta all’Invisibile destinatario”[2]; e chi viola determinati ruoli o regole è “consecratus” cioè investito dalla Forza (infera in questo caso) di cui è pregno quel luogo od a cui è consacrata una legge, luogo o legge difesi cioè sancti. Tanto che nell’antica legislazione romana la pena era applicata dagli stessi Dei che intervenivano come vendicatori. Il principio in simili casi può essere formulato così: “qui legem violavit, sacer esto”, “colui che ha violato la legge sia sacer”; di qui l’uso del verbo sancire per indicare questa clausola che permetteva di promulgare la legge. Dalla Tradizione pertanto risulta che sancire vuol dire delimitare il campo di applicazione di una disposizione e renderla inviolabile, mettendola sotto la protezione degli Dei, richiamando sull’eventuale violatore l’inevitabile castigo divino: infatti si dice Via Sacra, mons sacer, dies sacra, ma sempre murus sanctus. Pertanto è sanctus il muro, ma non il territorio che il muro circoscrive che è detto sacer; è sanctum ciò che è proibito per mezzo di alcune sanzioni. È bene chiarire che “il fatto di entrare in contatto con il Sacro non porta di conseguenza lo stato di sanctus; non vi è sanzione per colui che, riguardo al sacer, diventa egli stesso sacer; è bandito dalla comunità, non lo si castiga e nemmeno colui che lo uccide. Si direbbe che il sanctum è ciò che si trova alla periferia del sacrum, che serve ad isolarlo da ogni contatto”[3].

A questo punto, la massima del Digesto richiamata, appare alquanto chiara ed inequivocabile, solo che la si interpreti in senso tradizionale e cioè  organico e spirituale: essa, infatti, preliminarmente spazza via tutto lo sciocchezzaio messo in campo da alcuni studiosi moderni, intorno alla cosiddetta “ambivalenza del Sacro”, conseguenza del fatto che, evidentemente, non riescono a comprendere che, onde avvicinarsi al senso delle culture tradizionali, è necessario uno sforzo di umiltà ermeneutica affinché si tenti di guardarle con i loro occhi e non con quelli moderni, essendo questi del tutto impotenti ad entrare nel mondo spirituale di tali Civiltà, oltre che pericolosamente ed antiscientificamente mistificatori; pertanto la pretesa “ambivalenza” non solo non esiste ma si tratta di ben altro! Infatti il Sacro che è, come abbiamo visto, una sfera, una dimensione Invisibilmente visibile del Mondo, una Forma, una Idea, una Essenza della Vita al massimo grado di potenza, circoscritta e difesa da una “sanzione” quindi sancita, può risolversi in damnum (italiano: dannati e cioè coloro che hanno violato la legge divina), in scatenamento di forze Infere che investono e “consacrano” il fallito (vedremo il motivo per cui è da usare questo termine).

Certamente l’ignoranza moderna non capirà mai perché il “consecratus” sia tale agli Dei Inferi, in seguito al suo avvenuto contatto irrituale con il Divino e perché il sanctus, come ci documenta Cicerone[4], sia da riferirsi ai Manes e quindi agli Inferi stessi. Noi sappiamo però che la Forza Universale (simboleggiata dalla Tradizione con l’Albero della Vita) è depositaria della Scienza del Sovrannaturale, che è la potenza Femminile definita nella Tradizione indù: Çakti e nella Tradizione Ermetica: Mercurio ignificato o lunare, ma simultaneamente, in modo “ambivalente”, è fonte di pericolo e di morte[5] (gli Dei Mani); ciò ha il significato che per chi la sublima e fissa con il Rito, si risolve nel Sacro luminoso il quale concede l’Immortalità olimpica; chi commette, invece l’errore (non il peccato!) di affrontare la Forza fuori dal Rito, viene travolto da ciò che per l’esecutore  può essere solo caotico ed oscuro, proprio perché non ha suggellato ed invertito verso l’Alto la Forza medesima. Ha commesso un falso!

Tale è la ragione per cui innanzi ho usato la parola fallito, cioè caduto (dal latino fallĕre = cadere[6]); al contrario, “vero” ha il significato di Vittorioso – sia a livello giuridico che a livello religioso, cioè di realizzato, che deve essere creduto, in termini esoterici: ciò che ha Vita da sé, ciò che è; “falso”,invece, ha il significato di ciò che non è. In termini filosofici, l’uno è l’Essere e l’altro è il divenire.

La sapienza giuridico-religiosa della Tradizione Romana si fonda pertanto sulla necessità rituale che lo Spirito si riconosca e si identifichi, nell’atto del Rito, con la Realtà altrettanto spirituale di forze nude e pure, Mondo in cui la limitata e limitante dualità moralistica di bene e male si dimostra illusione delle passioni, delle fedi o delle leggi dogmatiche, aventi la sola funzione essoterica relativa alla buccia e non al nocciolo. Da tali forze caotiche e prive di Forma, il Romano in tutta la sua vicenda storica, ha tratto, creandoli, con la virtus magica della Parola e del Gesto[7], ordinandoli, rendendoli santi, difesi e quindi governandoli, gli Ordinamenti, le Leggi, l’Impero che sono lo specchio del Cielo, cioè Juppiter Optimus Maximus.

 

 

 

NOTE

 

[1] GRUPPO DI UR (a cura di), Introduzione alla magia, Roma 1971, vol. III, pp. 219 ss..

[2] G. DUMEZIL, La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 126; cfr. anche V. ROTONDI, Il sacrificio a Roma, Roma 2013; C. SANTI, Alle radici del sacro. Lessico e formule di Roma antica, Roma  2004; IDEM, Sacra facere, Roma 2008.

[3] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino 1970, vol. II, pp. 427-8;

cfr. R. FIORI, Homo sacer, Napoli 1996.

[4] K. KERENYI, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Roma 1951, p. 76.

[5] J. EVOLA, La tradizione ermetica, Roma 1971, pp. 17-8.

[6] G. DEVOTO, Avviamento alla etimologia italiana, Firenze 1979.

[7] G. CASALINO, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2003.

“Parca Martia Dono”– Paolo Galiano ©

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Ho avuto il piacere di poter leggere prima della sua pubblicazione per le edizioni Simmetria di Roma l’ultimo lavoro lasciato incompiuto da Domizia Lanzetta (1), autrice di numerosi saggi sulla Roma delle origini e sugli aspetti meno conosciuti della sua spiritualità complessa e articolata. Alcuni passi in particolare mi hanno colpito, quale quello in cui l’Autrice parla dei Tria Fata, giocando sul senso in italiano del plurale di fatum che in italiano suona come “fata”, la creatura delle favole che porta aiuto al suo protetto: “Si parla di Tria Fata, entità misteriose i cui simulacri si trovavano tra la Curia e il Comizio; secondo la Guarducci nei pressi di Tor Tignosa, doveva trovarsi un santuario dedicato ai Fati, ove vi erano tre cippi destinati a Martia, Neuna e Decima. Erano forse loro le Tria Fata? o, forse, erano le Carmentes che cantano i destini dei nuovi nati?”. Il breve accenno che fa la Lanzetta su questo argomento mi ha spinto ad approfondirlo per comprendere meglio le connessioni che possono intercorrere fra i due gruppi di divinità, le prime appartenenti al mondo religioso di Lavinium, le seconde a quello di Roma.

[caption id="attachment_20193" align="alignright" width="255"]Cippo di Neuna Cippo di Neuna - Fata[/caption]

Dobbiamo prima però precisare alcuni punti, cominciando dai Tria Fata di cui si fa parola.Le notizie sui Tria Fata sono scarse e confuse: erano indicate con questo nome tre statue collocate tra i Rostra e la Curia nel Foro Romano ed erette secondo la tradizione da Tarquinio Prisco, come ricorda Plinio (2), rappresentanti i Fati o le Sibille e considerate tra le più antiche statue erette in Roma (3). Il loro nome potrebbe forse identificarsi con quello delle tre divinità che presiedevano alla nascita: Neuna, Decima e Morta, nomi indicanti i tre possibili gradi di fine gestazione, basati sul calcolo romano del mese in termini di mese siderale di 27 giorni (4), per cui Neuna si correla con il feto prematuro di nove mesi siderali, cioè di circa 240 giorni, e Morta con il feto nato morto perché ha superato il decimo mese di gravidanza, mentre solo Decima è il “fato” giusto del feto nato al termine dei 270 giorni necessari perché la gravidanza giunga a buon fine.

Varrone, secondo Aulo Gellio (5), riferisce che i nomi dei Fata sono tre, Nona, Decima e Parca, nomi derivati rispettivamente dal nono e decimo mese di gravidanza e da ‘partorire’, in quanto “Parca deriva da partus con il cambio di una lettera e le altre sono chiamate Nona e Decima a seconda del mese di espletamento della gravidanza”. Solo dopo l'invasione culturale greca il nome dei Fata romani sarà grecizzato come Moirae o Moerae, secondo la denominazione ellenica, e verranno identificati con Cloto, Lachesi ed Atropo.

Gellio prosegue riportando le parole di Lucio Cesellio Vindice, grammatico latino dell’età di Adriano, secondo il quale il loro nome era non Nona, Decima e Parca, come sopra detto, ma Nona, Decima e Morta; quest’ultimo nome Vindice lo faceva derivare da un verso di Livio Andronico (6), il che pone un problema circa la possibile origine dell’ultimo dalla corruzione di quello di una divinità della sfera laviniate, chiamata Parca Maurtia, problema per la cui risoluzione è stata avanzata un’interessante ipotesi: “È opinione comune che Morta debba considerarsi come interpretatio latina di un Moira dell’originale [greco]…etimologicamente collegata alla stessa radice *(s)mer (si ritiene ormai infondato il rapporto di Moira con Parca Maurtia dei cippi di Tor Tignosa 7). Il dato più interessante resta comunque il fatto che, pur assolvendo funzioni analoghe a quelle della Moira omerica, a Morta si attribuisce un’attività profetica (profata est), che non ha paralleli greci e l’avvicina alle antiche divinità latine della nascita; questo spiegherebbe l’interpretazione di Vindice, che annovera Morta tra le Parche” (8).

Questa citazione consente di mettere in luce l’importante differenza tra le Parche romane (e più in genere latine) e le Moire greche: queste, infatti, non hanno funzione profetica ma agiscono solo sul piano dell’esistenza umana, decidendo la “lunghezza del filo” che corrisponde alla durata della vita del singolo, mentre per le Parche, come per altre divinità ad esse affini quali le Carmente, è possibile rilevare in modo netto una duplice azione profetica sul destino del nascituro e della madre che lo genera. Ancora una volta, e questo lo abbiamo più volte ripetuto in altri lavori, si deve rilevare la non-dipendenza del pantheon romano da quello greco (e spesso anche da quello etrusco, ma qui non mi soffermerò ulteriormente).

Quindi i destini dell’individuo, come quelli della nazione, erano affidati alle tre Parche, ma ciò non era concezione esclusiva dell’Urbe, bensì era presente in tutto il mondo latino, e lo possiamo vedere con sicurezza per quanto concerne Lavinium, dove esisteva una triade di divinità del Destino analoghe a quelle di Roma.

I rapporti tra Roma e Lavinium (attuale Pratica di Mare) sono troppo conosciuti perché ci si debba soffermare su di essi: ricordo solo che Lavinium, in quanto sede del culto di Enea antenato di Romolo fondatore di Roma, era considerata la città-madre dell’Urbe per il tramite di Alba Longa, a sua volta fondata da Julo Ascanio figlio di Enea, e che da essa provenivano il Palladio e i Penati, portati da Troia e considerati tra i più sacri pignora imperii di Roma, ma che secondo Macrobio erano rimasti a Lavinium, per cui i Consoli, i Pretori e i Dittatori, prima di entrare in carica, si recavano in questa città per sacrificare loro (9).

Alba, Lavinium e Roma costituivano i tre vertici di un triangolo sacro i cui lati erano rappresentati dalle vie che univano le tre città, corrispondenti circa alle attuali via Appia, via Pontina e Via del Mare – Via della Solforata (SP 101 A). Circa a metà di quest’ultima si trova la località di Tor Tignosa presso Pavona, dove in due differenti fasi di scavo (la prima nella seconda metà degli anni ’40 e la seconda alla fine degli anni ’50) sono venuti alla luce quattro cippi (10) di analoga fattura, in cui la Guarducci ha letto il nome di Enea e quello di tre divinità identificabili con i Tria Fata della regione che si può considerare come il Latium vetus, il territorio della nazione latina gravitante come entità sacrale intorno al santuario di Juppiter Latiaris sul Monte Albano.

[caption id="attachment_20191" align="alignleft" width="223"]cippo-di-parca-maurtia Cippo di Parca Maurtia[/caption]

Particolarmente importante la posizione di questo “santuario di Tor Tignosa” (11): in primo luogo per la sua localizzazione, poiché esso veniva a trovarsi nella sylva laurentina lungo la strada che i magistrati romani seguivano, una volta recatisi a sacrificare allo Juppiter del Monte Albano, per giungere a Lavinium ad onorare i Penati di Roma, strada che giungeva alla foce del Numico, il fiume nel quale era scomparso Enea e dove si trovava il santuario di Sol Indiges, con cui Enea era identificato; in secondo luogo per la prossimità con una sorgente di acque sulfuree (donde il nome di ‘Solforata’ dato alla zona), le quali sono da sempre considerate sede di divinità connesse con il mondo infero e con la profezia, come era a Roma per la zona del Tarentum sacro a Dis Pater e a Proserpina. Come scrive Granino-Cecere: “Prima che il santuario possa aver assunto un carattere pubblico… dovette essere sede, come spesso nell’antichità i luoghi caratterizzati da bocche di vapori sulfurei, di un culto di carattere ctonio ed oracolare, come forse può suggerire l’appellativo fata di Neuna” (12).

Senza approfondire ulteriormente, ricordiamo solo che a Roma nel Tarentum, il luogo situato sulle rive del Tevere dove si celebravano i Ludi Saeculares per il rinnovo della potenza dell’Urbe, aveva sede il culto ctonico dei Signori del mondo infero insieme a quello di Tellus e delle due Ilithie, divinità protettrici del parto, ed esso era sede di esalazioni vulcaniche sulfuree, per cui ritroviamo la connessione mondo ctonico - divinità del parto - acque sulfuree; non è certa la funzione oracolare del Tarentum, ma verosimilmente i Ludi Saeculares, venendo celebrati all’inizio di un nuovo ciclo generazionale, dovevano avere anche una connessione con tale funzione (13).

Ritorniamo ai cippi del santuario di Tor Tignosa; le iscrizioni sono al dativo (arcaico) e almeno in tre casi esprimono un’offerta fatta alla divinità:

-        Neuna fata = al Nono destino

-        Neuna dono = dono alla Nona

-        Parca Maurtia (14) dono = dono alla Parca di Marte

-        Lare Aenia dono = dono a Enea Lar.

Notiamo che nella prima iscrizione, Neuna fata, ci troviamo di fronte ad un femminile di fatum, neutro, e d’altra parte Gellio (15) usa fatus al maschile, quindi è possibile un “sesso” del Destino; più interessante è la terza dedica alla Parca Maurtia, per la connessione che viene sottintesa tra la Parca, divinità del Destino, e Mars, il Dio che sorveglia il limite (16) e per le implicazioni che ne derivano.

Che Maurtia debba essere posto in relazione con Mars non vi è dubbio, come afferma Flobert: “In tutti i casi, è difficile separare Maurtia da Mauors, Maurte, e vi si può vedere una relazione con la crescita dell’infante”(17); la Guarducci conferma scrivendo che “mentre è innegabile un riferimento alla Morta di cui parlava Cesellio Vindice (18) riferendo un verso di Livio Andronico, è anche certo che il nome Maurtia non può essere staccato dal nome del dio Marte (Mars, Maurs)”, rapporto che sarebbe dovuto alla presenza di Mars nel santuario di Tor Tignosa: “Sembra che la presenza di Marte nel santuario di Tor Tignosa possa essere spiegata inquadrando quel Dio nel contesto delle tradizioni relative alle origini di Roma… È molto probabile che l’epiteto Maurtia aggiunto a Parca debba la sua origine al desiderio d’inserire in qualche modo la figura dell’antichissimo e veneratissimo Dio che presiedeva alle fortune di Roma in un santuario che alle medesime fortune si riferiva” (19).

La spiegazione di Flobert che la Parca sia “marziale” per “una relazione con la crescita dell’infante” ci sembra un po’ troppo generica, così come quella della Guarducci, che collega la Parca con Mars per il “desiderio d’inserire in qualche modo la figura” del Dio nel contesto “delle tradizioni relative alle origini di Roma”: perché allora, tanto per dire, non fare invece una dedica a Venere, anch’essa “madre” dei Quiriti e (forse) segreta Dèa protettrice di Roma?

Secondo noi la connessione tra divinità del Fato e Mars è proprio nella qualità di “Dio del limite” propria di Mars, in questo caso il limite fra “non esistere” ed “esistere”, limite che si infrange nel momento del parto in cui il nuovo essere entra fisicamente nel mondo, per entrarvi spiritualmente nel dies lustricus (20) dopo otto giorni (se femmina) o nove (se maschio); nel dies lustricus entrava in azione una particolare forma dei Fata, i Fata Scribunda, le divinità femminili che avevano il compito di scrivere il destino del neonato (21). Questo giorno Weinstock (22) lo collega al nome della seconda divinità delle triade di Tor Tignosa, Neuna, vedendo in essa la personalizzazione del nono giorno.

Come Mars assiste il nascituro al momento dell’ingresso nella vita, proteggendolo dagli influssi negativi (così come fa nei campi con il rito degli Ambarvalia, o per tutto il popolo romano nella lustratio quinquennale), così di nuovo sarà con lui, se maschio, quando giungerà al momento dell’iniziazione guerriera per entrare come uomo integrale nella romana societas. Dalle iscrizioni dei cippi di Tor Tignosa sembra emergere una differenza tra una Neuna e una Neuna fata che non riusciamo a definire: se si fa un confronto con i tre Fati di Varrone, Parca, Nona e Decima, risulta evidente che Neuna fata dovrebbe essere correlata a Decima, come se solo il neonato partorito nel modo corretto al decimo mese di gravidanza fosse in grado di avere un “fato”, un destino, ma questa è solo una supposizione in alcun modo confermata da altri elementi.

Un’ultima considerazione sulla località di Tor Tignosa: come si è detto, in essa si trova una sorgente di acqua sulfurea, acqua di colore biancastro che la mette in relazione da un lato con l’Albunea di Virgilio (23), sede dell’oracolo di Faunus, e dall’altro con la Sibilla Albunea di Tibur, in ambedue i casi con località aventi spiccata connotazione oracolare; d’altra parte almeno una delle quattro entità venerate a Tor Tignosa è correlata con l’attività profetica, come “forse può suggerire l’appellativo fata di Neuna”, il che rende “ammissibile che [il santuario] fosse destinato alla venerazione di divinità collegate ai destini di Roma” (24).

Il nome Albunea a Lavinium è legato al colore opalino dell’acqua e il nome viene da Servio messo in relazione con Leucothea: “Molti vogliono che la fonte e la selva [laurentina] abbiano come unico nome quello della stessa Leucothea” (25), la divinità marina che a Roma in età repubblicana sarà identificata con la Mater Matuta del Foro Boario, a sua volta venerata insieme a Fortuna Virgo, e sappiamo come una delle azioni di Fortuna sia per eccellenza quella oracolare, insieme a quella di “donatrice della regalità”, come si vede dalla mitistoria di Servio Tullio (26). A Tibur Albunea è il nome della decima Sibilla, nel cui tempio, identificabile con il cosiddetto “tempio rotondo di Vesta”, Coarelli ha riconosciuto il luogo in cui erano tenuti i Libri Sybillini prima del loro trasferimento a Roma (27).

Ciò che ci sembra più importante, e questo non è rilevato dai numerosi autori che ne trattano, i due nomi sono etimologicamente collegati non solo alla radice *alp, monte, da cui Alpi e Albula (il nome dell’Aniene, in quanto fiume che scende dai monti), ma anche ad albus, il colore bianco che è archetipo dello stato di purezza originaria e, per questo motivo, collegato al simbolo del monte, il “luogo elevato” vicino agli Dèi, e dell’axis mundi. Non è quindi un fatto meramente artistico che il frontone del tempio di Juno Curitis a Tibur fosse ornato con scene della conquista del Vello d’oro da parte degli Argonauti (28), il cui significato è ben conosciuto, quella Juno Curitis che aveva posto sotto la sua protezione l’impresa degli Argonauti, una Dèa ben diversa dalla Hera greca, la protettrice in armi di Tibur ma anche di Falerii, coperta con l’egida caprina e portatrice di lancia (in sabino curis). analoga alla Juno Seispes di Lanuvium, altra antica città del Latium vetus.

Juno come Quiritis era venerata a Roma alle Nonae di Ottobre insieme a Juppiter Fulgur nel Campo Marzio (ora Largo Argentina) ma ancor prima era presente nella sede di tutte le Curie, ove Tito Tazio aveva decretato mense in suo onore (29), il che ci riporta alle origini stesse di Roma. La figura della Juno latina quali rapporti ha con la funzione oracolare della Sibilla Albunea e con le divinità del Fato venerate nella sylva laurentina? A Roma troviamo una Juno che ha questa funzione, la Juno Moneta venerata nel tempio sull’Arce del Campidoglio. L’aggettivo con cui Juno è qualificata, Moneta, si correla a molteplici si­gnificati (30) ed in particolare, per quel che qui ci interessa sottolineare, con la capacità di dare ammonimenti (monere = ammonire, ispirare): Cicerone (31) riporta l’“ammonimento” per cui Juno ebbe il nome di Moneta: “Molti hanno scritto che, dopo un terremoto, una voce prove­niente dal tempio di Giunone sul Campidoglio ammonì che si sacrificasse in segno di espiazione una scrofa gravida: perciò la Giunone a cui era dedicato quel tempio fu chia­mata Moneta”.

Più arcaica di Juno Moneta è Carmenta, divinità della profezia e del parto e quindi perfettamente corrispondente alle divinità fatali di Lavinium, insieme alle due Carmente Antevorta e Postverta a lei collegate. Carmenta (attestata anche al maschile come Carmentis 32) era anche collegata all’acqua, sia per il suo rapporto con Juturna (33), celebrata nello stesso giorno dei Carmentalia di Gennaio nell’area del fons Juturnae, sia perché le era sacro un antichis­simo sacello (o ara?) situato in prossimità del guado del Tevere presso la Porta Carmentalis o Triumphalis, in quello che in futuro sarà il Forum Holitorium, dove celebrava i suoi riti il Flamen Carmentalis, segno dell’antichità della Dèa nel pantheon romano, antichità di cui ulteriore segno era la sua confusa identità come madre o figlia di Evandro.

[caption id="attachment_20192" align="alignright" width="216"]Cippo di Neuna Cippo di Neuna[/caption]

Carmenta è la Dèa del vaticinio (carmen) in stato di trance (34), ma, poiché a Roma la divina­zione era proibita o comunque vista con grande sospetto e le era preferita la tecnica romanamente “precisa” dell’avinspicium che nulla lasciava al caso, è probabile che in tempi successivi all’età monarchica essa sia stata “ridimensionata”, visto che, pur essendo in origine una Dèa, Virgilio e Ovidio ne parlano come di una ninfa: infatti per Servio il suo sacello era anche la sua tomba, il che si può accettare per una ninfa ma non certo per una Dea (35). Nel periodo repubblicano la sua funzione oracolare andò ad attenuarsi e diventò prevalente la sua connessione con la gravidanza e la nascita; in tal modo le due Carmente, le quali erano legate al ritmo calendariale in quanto correlate alla fase calante e crescente della Luna nel primo Plenilunio dell’anno a Gennaio (36), furono connesse con la posizione del feto alla nascita (Antevorta corrisponde alla posizione regolare, Postverta alla posizione podalica, indice di parto difficile e spesso fatale al neonato), perdendo o quanto meno nascondendo la loro funzione originaria e avviandosi così ad una identificazione con i Tria Fata.

Nelle tre Carmente si vengono a riunire significati ancora più complessi di quelli dei Tria Fata, per le quali almeno al momento non è nota una correlazione con i ritmi calendariali, così fortemente sentiti nel mondo romano; la differenza principale, come nota Torelli (37), è data dal fatto che mentre le due Carmente Antevorta e Postverta proteggono il modus della nascita, Neuna e Decima proteggono i tempora. Meno chiara la corrispondenza fra la Dèa Carmenta e la fata Morta, a meno che non si consideri il nome di questa come una corruzione (o una sostituzione, se si preferisce) di un più antico Parca Maurtia, nel quale caso ben si adatterebbe a Carmenta il carattere di Parca come “tessitrice di destini”: un residuo di questa sua funzione lo troviamo in Ovidio, nei cui Fasti è lei a predire la futura nascita di Roma e il destino di Hercules di essere assunto tra gli Immortali (38), presentandosi così, come i Fata di Roma e di Lavinium, nella sua qualità di oracolo per gli umani e per le nazioni.

Note: 1 -LANZETTA La Fortuna e il fato nella religione di Roma (con quattro articoli di Lanzetta  in appendice), ed. Simmetria, Roma 2013. 2 -PLINIO Nat Hist XXXIV, 22: “Certo, ammiro con stupore le statue delle Sibille che sono presso i Rostri in numero di tre, una restaurata dall’edile Sesto Pacuvio Tauro e le altre due da Marco Messalla”. 3 - RICHARDSON A new topographical dictionary of Ancient Rome, Baltimore and London 1992 sub voce “Tria Fata”.

4 - Sulla costituzione del mese secondo i Romani rimandiamo a Galiano e Vigna Il tempo di Roma – Gli Dèi e le feste nel calendario di Roma, ed. Simmetria Roma 2013 pag. 11 nota 3. Citerò di frequente questo testo non per vanità di autore ma perché, dato il suo carattere enciclopedico, raccoglie materiale molto utile per una consultazione rapida.

5 - GELLIO Noct Att III, 16, 9-11. 6 - LIVIO ANDRONICO framm. 11: “Quando dies adveniet, quem profata Morta est”. 7 - Su questo, come dirò più avanti, non mi trovo d’accordo: il fatto che Varrone dia come terzo nome Parca, identificata da Vindice con Morta, mi sembra avvalori l’ipotesi che i loro nomi siano connessi con Parca Maurtia. 8 - COLAFRANCESCO Dalla vita alla morte: il destino delle Parche da Catullo a Seneca, Bari 2004 pag. 19 nota 29. 9 - MACROBIO Saturnalia III, 4, 11. 10 - Il ritrovamento è stato pubblicato per la prima volta dalla GUARDUCCI, rispettivamente in Bull. Com. vol. 72, 1946-48 e Append. Bull. Com. vol. 76, 1956-58. 11 - Sempre GUARDUCCI ritiene di aver trovato le prove dell’esistenza di un tempio nella stessa zona (GUARDUCCI Scritti scelti sulla religione greca e romana e sul cristianesimo, Leiden 1983 pag. 208).

12 - GRANINO-CECERE Epigrafia dei santuari rurali del Latium vetus, in “Melanges de l’Ecole française de Rome – Antiquité”, 104, 1, 1992 pag. 127, la quale fa risalire il sito, sulla base degli ex voto ritrovati, al V sec. a.C. Il riferimento ai fata di Neuna concerne l’iscrizione sul cippo di cui si dirà più avanti.

13 - Nella zona del Tarentum si trovava la località che aveva nome Ad Nixas (“le inginocchiate”, nome che però non si riferisce alle due Ilithie, che nella monetazione romana sono sempre raffigurate in piedi e non in ginocchio), ove si teneva il rituale dell’October Equus per il rinnovamento della potenza del Rex: questo conferma la valenza sacrale multipla della località e, in un certo senso, anche una sua funzione oracolare, considerato che la cerimonia dell’October Equus si concludeva con una singolare lotta fra le due fazioni dei Sacravienses e dei Suburani, equivalente in pratica ad un’estrazione di sortes (sull’argomento rimandiamo a Galiano e Vigna Il tempo di Roma cit. pagg. 348-355).

È singolare che a Roma fosse conosciuto un gruppo di tre statue, tre come i Tria Fata, chiamate “i Nixi” (sostantivo plurale maschile), raffigurante tre divinità, rappresentate inginocchiate, che assiste­vano le partorienti, statue poste davanti alla cella di Minerva nel tempio di Juppiter O M in Capitolio (RICHARDSON cit. sub voce “Nixae”): si tratta forse del corrispondente maschile delle tre Parche? D’altronde esistono un fatus e una fata, come si dice più avanti.

14 - Sul nome Maurt- si veda POCCETTI Sulle dediche tuscolane del tribuno militare M. Furio, in “Mélanges de l'Ecole française de Rome - Antiquité “ 94, 2, 1982 pag. 657-674. Le iscrizioni oggetto dello studio provengono dalla villa e dal sepolcro della gens Furia a Tusculum, “una delle gentes patrizie più famose per aver esercitato a Roma un ruolo di considerevole importanza nella vita pubblica e sociale fin dall’inizio della repubblica”. La forma Maurt- deriva da Mavort-, “denominazione di Marte diffusa in poesia e nei testi stilisticamente più elevati”.

15 - GELLIO Noct Att III, 16, 9.

16 - Solo più tardi Mars sarà per eccellenza il Dio della guerra, ma la sua funzione originaria è quella di “porsi sul limite” tra due mondi, come ho scritto ne Il tempo di Roma cit. pag. 109; d’altra parte, è proprio del guerriero agire al limite tra protezione della legge e infrazione della legge, come dimostra Dumézil Le sorti del guerriero, ed. Adelphi, Milano1990, in particolare pagg. 59 e 121: “Indra è tutt’altra cosa da Mitra e da Varuna, i contratti e le leggi non gli competono… Il guerriero, proprio perché si pone al di sopra o ai limiti del codice, si aggiudica il diritto di graziare e il diritto di infrangere”.

17 - FLOBERT L’apport des inscriptions archaiques a notre connaissance du latin prélittéraire in Latomus 50, 3 - 1991 pagg. 538-539. 18 - L’equivalenza fra Maurtia e Morta viene invece negata da WEINSTOCK Two archaic inscriptions from Latium, in “The Journal of Roman Studies”, 50, 1-2 1960, pagg. 112-118, che la considera “artificiosa”. Sull’opinione di COLAFRANCESCO si è detto in nota 6. 19 - GUARDUCCI Scritti scelti cit. pag. 211.

20 - Il dies lustricus era il giorno in cui il neonato veniva purificato e gli veniva imposto il nome, come scrive FESTO 110: “Il giorno si chiama lustrale perché in questo giorno i neonati, l’ottavo per le femmine e il nono per i maschi, vengono purificati e gli si impone il nome”. In tale giorno “si offriva un sacrificio nella casa, accompagnato da una festa, e si dava un indirizzo religioso alla vita del bambino, al quale veniva posto al collo un piccolo contenitore con un amuleto” (THURSTON PECK Harpers Dictionary of Classical Antiquities, New York 1898 sub voce “Education”), cioè la bulla, che al momento del passaggio adolescenziale veniva offerta ad una divinità femminile, come Giunone a Lavinium.

21 - THURSTON PECK Harpers Dictionary cit. sub voce “Moerae”. 22 - WEINSTOCK Two archaic inscriptions cit.

23 -  VIRGILIO Aen VII, 81 ss.: “Il re Latino / si reca all'oracolo di Fauno, profetico / suo padre, e consulta i boschi sotto l'alta / rupe Albunea, di dove tra gli alberi scaturisce / con rumore una grande sorgente sacra famosa, / dall'acqua opalina e dal puzzo di zolfo”. Il rituale che segue latino è di tipo incubatorio, come si evince dal seguito del racconto di Virgilio, e il luogo ha valenza ctonica, visto che il richiedente “dal profondo Averno evoca l'Acheronte”.

24 - GRANINO-CECERE Epigrafia cit. pag. 127. 25 - SERVIO Ad Aen VII, 84. 26 - Su questo complesso ed importante argomento rimando a Galiano e Vigna Il tempo di Roma cit. pagg. 142-147 e 228-231. 27 - COARELLI I santuari del Lazio e della Campania tra i Gracchi e le guerre civili, in “Les bourgeoisies municipales au IIème et Iere siècles a.C.”, Paris-Napoli 1983 pag. 217. 28 - TORELLI Lavinio e Roma ed. Quasar Roma 1984 pag. 185. 29 - DIONISIO D’ALICARNASSO Ant rom II, 50, 3: “[Tito Tazio] in ogni Curia pose delle mense a Hera detta Kuritis [= Juno Quiritis], che esistono ancora ai nostri giorni”.

30 - L’aggettivo “moneta” proviene da *meon, radice che indica la Luna come mezzo di misura (mensura) del mese (mensis), così come mezzo di mi­sura è la moneta prodotta nella zecca situata presso il tempio della Dèa (donde per l’appunto il nome stesso del denaro come “moneta”), ma da cui deriva anche mens (da qui la connessione con il tempio di Mens in Capitolio, il cui dies natalis ricorre a Giugno in prossimità di quello del tempio di Juno Moneta) e memoria ed infine la femminilità feconda esprimentesi con il menstruum mensile. Occorre per altro notare che PLATNER e ASHBY A Topographical Dictionary of Ancient Rome, ed. Oxford University, Oxford 1929 non concordano con questa serie di etimi collegabili a Moneta, né al suo rapporto con la moneta come zecca, istituto che entrò in funzione solo nel 269 a.C. (o nel 273 secondo RICHARDSON cit. sub voce “Iuno Moneta”), per cessare l’attività alla fine del I sec. a.C.

31 - CICERONE De divinatione XLV, 101. Anche le sacre oche di Juno Moneta “ammonirono” i Romani della penetrazione dei Galli nell’Arx. 32 - DUMéZIL La religione romana arcaica ed. Rizzoli, Milano 1977 pag. 343. 33 - Juturna è essa stessa connessa con Lavinium, in quanto SERVIO la dice originaria di questa città (ad Aen XII, 139), come confermano i reperti archeologici. 34 - SABBATUCCI La religione di Roma antica, ed. Il saggiatore, Milano 1988 pag. 26–29. 35 - SABBATUCCI La religione di Roma antica cit. pag. 27. 36 - Questo ci riporta a Juno Moneta, il cui aggettivo sostantivizzato è in rapporto anche con la mensura del mensis. Inoltre, considerata la qualità oracolare di carmenta, le due Carmente possono essere anche interpretate come “Colei che guarda avanti (il futuro)” e “Colei che guarda indietro (il passato)”. 37 - TORELLI Roma e Lavinio cit. pag. 183. 38 - OVIDIO Fas vv. 515-516 e 583-584.   Paolo Galiano

Gesti di Rinascita – Ass. Pietas – Giuseppe Barbera

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"Giuliano l’Apostata che fu iniziato ai veri, non concepiva perchè il paganesimo integro ed esuberante della iniziatura romana dovesse sostituirsi con una eresia antimagica che preparava alla morte e non alla vita e che si chiamava cristianesimo appunto per un simbolo di morte".

Giuliano Kremmerz, La Porta Ermetica, cap. VII   Gesti di Rinascita, con tanto di R maiuscola, R come Roma.

Gesti di Rinascita, questo vogliono essere le azioni della comunità di soci e amici dell’Associazione Tradizionale Pietas, risorgenza della giustizia, dei valori sani di un tempo, della reale Libertà, quella di volare come aquile, di non esser servi o schiavi di nessun sistema ma uomini liberi impegnati nella ricerca del Pyr, l’Ignis, il fuoco che consente di reperire la Vis per trasformarsi in Vir, ovvero in degno cittadino dell’Urbe Arcana da rifondare in se stessi a mò di novelli eroi romulei.

Chi vuole vivere la Tradizione Romana ricerca questi e altri valori profondi. Perché essa rinasca è necessario riappropriarsi dei tempi e degli spazi. Così la Pietas organizza, in quelle che sono le “nostre” feste tradizionali, eventi pubblici, culturali e rituali. La presenza di luoghi dove frequentare e praticare il culto è importante per la Rinascita della Tradizione. A tal proposito, dopo il felice esperimento del “Templum Minervae”, condotto fino al 2010, Pietas sta innalzando un tempio a Giove, il Sommo Dio dei Romani, affinchè tutti coloro i quali si rivedono, in cuor loro, nel cultus deorum, possano avere un luogo da frequentare, sia per formarsi sul culto individuale privato, sia per onorare gli dei ed entrarvi in contatto.

Per fare ciò Pietas si autofinanzia tramite il tesseramento e le sue piccole pubblicazioni editoriali quali, ad esempio, la rivista omonima. Tutte le persone di buona volontà, che vogliano partecipare a questo grande progetto sono invitate a tesserarsi per aiutarci nella realizzazione di questi grandi obiettivi in onore degli Dei nei quali riponiamo il nostro culto.

Iscriversi a Pietas è facilissimo: è sufficiente connettersi all’apposita pagina internet e compilare il modulo on line   http://tradizioneromana.org/iscrizioni.html Successivamente si potrà effettuare il saldo del tesseramento tramite paypal o versamento su C/C bancario o ricarica postepay. Un piccolo gesto per una Grande Opera. Ad Majora Semper,   Associazione Tradizionale Pietas.   Il Presidente, dott. Giuseppe Barbera

Il Solstizio d’Inverno e gli Dèi di Roma – Paolo Galiano©

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Se nel Solstizio d’Estate, astronomicamente parlando, il Sole giunto all’àpice della sua elevazione inizia a declinare, nel Solstizio d’Inverno il movimento si inverte e l’astro ricomincia ad innalzarsi nel cielo portando di nuovo luce e calore sulla terra. Quanto accade sul livello dell’esistente altro non è che il riflesso di ciò che accade su altri piani (1): ciò che si manifesta ai nostri occhi con i moti del Sole, in quanto situato sul piano intermedio tra lo Spirito immanifesto e la sua manifestazione creata, è sottoposto a fasi alterne di decadenza e di ascesa, e questo in Dicembre si presenta attraverso un  simbolismo di morte e rinascita (usiamo simbolo nel suo primo significato di “ciò che unisce”, in questo caso un piano all’altro) che si ritrova in altre Tradizioni, dall’Egitto, in cui il Sole nella sua forma di Râ nella notte passa per l’Amduat per rinnovarsi e recuperare nuova energia, all’America centrale, in cui gli Dèi devono essere “nutriti” con il sangue per mezzo del sacrificio di esseri umani.

A Roma il rinnovo della potenza del Sole (o, meglio, del Potere che si manifesta attraverso di esso) si attua nel mese di Dicembre (2) con la presenza del Femminile nelle molteplici figure di Dèe e di donne mitiche quali Gaia Fufezia/Gaia Cecilia e Acca Larentia (3), presenza che giunge con Tellus e Cerere ad occupare anche il giorno delle Eidus sacro di solito a Giove: sono tutte figure del Potere non ancora passato all’atto, ciò che sarà realizzato nell’anno successivo in Marzo, dopo la preparazione di Gennaio e di Febbraio, con l’azione del Maschile presente con Marte e i suoi Saliares.

A questo “potere in potenza” delle divinità femminili connesse con la “ricchezza” intesa nel senso più ampio, anche ricchezza materiale del farro e del grano che sotto terra muoiono per rinascere e alimentare gli uomini e quindi generare il benessere che da essi deriva, rappresentato da Ops, paredra di Saturno e personificazione della Ricchezza o meglio della Pienezza, corrisponde nella seconda metà di Dicembre la ricchezza spirituale che si realizza nel ritorno all’armonia primordiale dell’Età di Saturno, il Dio degli Aborigeni più antico di tutti gli altri Dèi, la cui azione inizia quando né gli umani né le bestie erano sottoposti al giogo della fatica e tutti vivevano con tutti in pace ed armonia, quando il Dio si scioglie dalle catene del terrestre, simboleggiate dai compedes che legano le gambe della sua statua, e crea i presupposti per l’inizio del nuovo ciclo.

[caption id="attachment_20905" align="alignleft" width="300"]g-2 Bona Dea[/caption]

Il Femminile in questo mese trova il suo centro di riferimento in Bona Dèa, divinità arcaica del mondo latino e romano (4), il cui nome segreto che non poteva essere pronunciato sembra sia stato Fenteia o Fentia(5), la cui festa cade il giorno 4 di Dicembre e quindi prima delle Nonae, segno della sua antichità poiché precede la costituzione del Calendario a date fisse costituitosi circa nel VII secolo, in cui il giorno delle Nonae era quello in cui venivano proclamate le cerimonie del mese. Antichissimo è il suo luogo di culto sull’Aventinus minor, presso il luogo ove Remo prese gli auspici per il diritto a fondare la nuova città dall’auguraculum situato sul Saxum dell’Aventino, per cui il nome del luogo di culto della Dèa prese il nome di aedes Bonae Deae Subsaxana.

Il rapporto con Remo, ucciso da Romolo, collega la Dèa al mondo degli Antenati, infatti suo animale è il serpente ctonio, ma Bona Dèa ha anche funzioni connesse alla fertilità e alla guarigione, per cui queste sue qualità ne fanno una divinità analoga a Maia, a Fauna, moglie, sorella o figlia di Fauno, e a Ops, come scrive Macrobio(6): “Questa nei libri dei pontefici è indicata con i nomi di Bona e Fauna, di Ops e Fatua: Bona perché produce tutto ciò che è buono per il vitto, Fauna poiché favorisce tutto ciò che è utile agli esseri viventi, Ops perché per opera sua, cioè con il suo aiuto, la vita sussiste, Fatua dal parlare [fari] poiché, come ab­biamo già detto, i neonati non hanno voce prima di aver toccato la terra”. Essa può essere descritta come  “la materializzazione [preferiamo dire “incarnazione”] dell’aspetto femminile lunare che presiede alla crescita e governa il limite tra ciò che è e ciò che non è” (7).

Il tempio era precluso al sesso maschile, così come i Misteri che in esso celebravano le matrone unitamente alle Vestali, i quali Plutarco riferisce essere “simili a quelli orfici”. Le cerimonie in onore di Bona Dèa del primo di Maggio (8) erano eseguite nella casa di un magistrato in possesso dell’imperium, “la facoltà di entrare in rapporto con la divinità ed essere depositario degli auspicia populi romani”(9), potere in origine riservato solo al Rex, ed anche queste erano severamente proibite agli uomini, i quali dovevano uscire dall’edificio nel quale rimanevano le sole donne. Tutto ciò che sappiamo del rito è che esse adornavano il tempio con rami di vite e fronde di alberi, con eccezione per il mirto sacro invece a Venere, e che le  libagioni erano fatte con il vino che doveva essere chiamato latte e conservato in recipienti per contenere il miele detti mellaria: tutto ciò si può collegare alla proibizione fatta alle donne fin dal tempo di Numa Pompilio di bere il vino per impedire che, ubriache, avessero comportamenti indecenti, o meglio perché il vino, “sangue della terra”, doveva essere riservato a determinati culti(10).

Il significato di morte e resurrezione insito in Dicembre (presente sul piano agricolo nei rituali collegati alla semina, la morte del seme che rinasce come farro, celebrata nella festa del Septimontium, l’ultimo giorno utile per la semina, da cui septimontalis satio, “semina settimonziale”11) si trova nella polarità di maschile e femminile espressi da Consus, la cui duplice etimologia del nome da condere come “immagazzinare” e “seppellire” lo correla sia al grano immagazzinato nei depositi sia alla “sepoltura” dei semi necessaria alla successiva rinascita, e dalle divinità femminili del Lacus Iuturnae, figure divine o divinificate connesse alla morte e all’Aldilà, la cui presenza si concentra nella zona del Lacus Iuturnae, dove si trovano i culti di Larunda madre dei Lares, gli Antenati defunti, e di Acca Larentia, zona posta sul limite della palude del Velabrum maius, caratterizzata anche fisicamente dalla presenza delle Acque simbolo della potenzialità dell’esistente ma anche del corrosivo, la cui connotazione infera è evidente.

Gli Agonalia di Dicembre(12) dedicati in taluni calendari a Indiges Pater sottolineano il legame degli Antenati (in questo caso rappresentati dall’Antenato per eccellenza, poiché Indiges era identificato con lo stesso Enea 13) con la comunità dei viventi, a cui la loro presenza nel sottosuolo garantiva anche la necessaria sussistenza fisica: la relazione tra cibo e Antenati, i quali assicurano l’alimentazione essendo “sotto terra” come il seme, è evidente nel significato simbolico del penus Vestae che è al tempo stesso dispensa e luogo dei Pe­nates, gli Antenati divinizzati del popolo romano; gli Agonalia erano celebrati nello stesso giorno, l’11 Dicembre nel calendario a date fisse, del Septimontium e quindi del termine della semina.

Tra le divinità femminili di Dicembre un ruolo centrale per il significato di questo mese è quello della Dèa Angerona, la cui celebrazione si teneva presso il sacello di Volupia al lacus Iuturnae (14): di essa molto poco è conosciuto, tranne il fatto che la sua festa coincideva con il giorno del Solstizio d’Inverno, punto critico dell’anno nel passaggio tra il Sole che muore e il Sole che rinasce.

Angerona veniva rappresentata con un dito posto sulle labbra, proprio come Arpocrate figlio di Iside, la cui festa per “coincidenza” cadeva nello stesso giorno: per questo gesto da alcuni essa è considerata la custode del Nome segreto di Roma. Ricordiamo che due erano i segreti conservati con la massima attenzione dai Romani, quello del Nome di Roma e quello del nome del Dio o Dèa sotto la cui protezione era l’Urbe, tanto segreti che, secondo Plinio ed altri scrittori, il tribuno Valerio Sorano fu punito con la morte per aver reso noto il vero Nome di Roma (15).

Plinio(16) la descrive “ore obligato et obsignato”, due termini che si adoperano per indicare la chiusura di una missiva a cui si appone il sigillo: “obligare e obsignare: il primo indica in generale l’atto di legare qualcosa, spesso utilizzato anche in àmbito medico per descrivere fasciature ben strette; il secondo è generalmente impiegato per descrivere una chiusura ornata da un signum fatto con la cera”(17), per cui sembra che la bocca della Dèa fosse chiusa da una benda su cui si apponeva un sigillo per accertarne l’integrità.

Il nome della Dèa è stato messo in relazione con angina, malattia che causa il restringimento della gola e il soffocamento del soggetto, o con angor, in quanto il malessere psicologico derivante dall’angoscia comporta una sensazione di sofferenza fisica; poiché la molteplicità funzionale su piani diversi era tipica della religiosità romana, Angerona fu anche protettrice dall’angina e dall’ansia, ma a questi livelli fisico e psicologico si aggiunge, e a nostro avviso prevale, quello metafisico di Dèa del silenzio interiore, necessario all’uomo per concentrarsi sul passaggio angusto dall’oscurità spirituale dell’Inverno dell’anima al rinascere con il fiorire della Primavera.

Per la sua grande antichità essa può essere considerata una “divinità funzionale”, cioè una divinità il cui nome è derivato dal significato della sua funzione; pur se ovviamente non concordiamo con la terminologia adottata dall’autrice, si può dire che “la ‘funzionalità divina’ e le ‘divinità funzionali’ rappresentano un terreno privilegiato, capace di rivelare in modo chiaro ed approfondito una modalità di pensare il divino specifica della religione romana, dove il nome di un Dio o di una Dèa sono una password estremamente efficace per avere accesso al contesto ecologico che li ha prodotti”(18). Sulla base di tale interpretazione si riconosce la validità delle parole del Mommsen(19),  il quale faceva derivare il nome della Dèa da quello delle feste Angeronalia, a sua volta derivante da un verbo *an-gerere, strutturato sul greco anaferein, “portare in alto”, riferito al momento dell’inversione del movimento del Sole dopo il Solstizio, per cui Angerona è “colei che inverte il moto del Sole”.

È anche possibile collegare il suo nome con angustus, la ristret­tezza delle ore diurne che si fanno sempre più brevi, e Macrobio (20) infatti definisce il giorno solstiziale con le parole “tempus quo angusta lux est”, o con il simbolico passaggio stretto che il Sole deve percorrere per rinascere, come si ritrova nella concezione egizia secondo cui al tramonto Râ, nel corso della sua navigazione verso l’Altro Mondo, entra nella Duat passando per un’angusta gola montuosa.

Il Dio centrale del mese, attorno al quale ruotano queste figure del potere e della ricchezza, è Saturno(21), venerato come Re dell’età mitica della pace e apportatore delle pratiche agricole, il cui rito antichissimo era stato istituito dallo stesso Ercole, o secondo altre fonti ancora prima di lui dagli Aborigeni dopo la sconfitta dei Siculi, ai quali risalirebbe l’erezione dell’Ara Saturni e la fondazione del primo culto a Roma, secoli prima che Romolo fondasse la sua città sul Palatino. L’Ara Saturni era scavata nel tufo della piana che poi diventerà il Foro Romano e veniva detta in imo Clivo Capitolino perché situata alla base del Capitolium, ed è da identificare, secondo le ricerche di Coarelli (22), con quello che finora era chiamato Volcanal.

[caption id="attachment_20908" align="alignright" width="263"]Ara Saturni Volcanal-rilievo 1902 da Scavi di Roma Ara Saturni Volcanal-rilievo 1902 da Scavi di Roma[/caption]

Il Saturno romano ha un significato del tutto differente da Kronos, la divinità greca raffigurata come un vegliardo divoratore dei suoi figli: Saturno è il Dio dell’ordine che nasce dal Caos primordiale della creazione, ordine sia nel mondo agricolo, con la conoscenza delle coltivazioni e degli innesti, sia in quello umano, con la costruzione della città Saturnia e con l’avvento della regalità attraverso il figlio Picus, primo Re del Lazio.

Saturno trae il suo nome dalla radice indoeuropea *sat, da cui deri­vano in latino satis e satur, termini indicanti pienezza e soddisfazione, conseguenza dell’abbondanza dei campi coltivati grazie alle tecniche da lui insegnate agli uomini tra cui l’uso del concime, motivo per cui Saturno era identificato con Sterculius o Stercutus, la divinità della concimazione dei campi.

Macrobio(23), facendo seguito all’assimilazione tra Saturno e Kronos e all’evirazione di quest’ultimo da parte del figlio, lo mette in rapporto con un termine greco significante “membro virile”: “Presso di noi fu chiamato Saturno anche in seguito alla leggenda dell'evirazione, da sàthe, che in greco designa il membro virile, come a dire ‘Saturnio’, e la stessa origine viene indicata pure per il termine ‘satiri’, come a dire ‘saturni’”. Varrone (24) lo collegava a sates in quanto era il Dio dei seminati, per cui Macrobio aggiunge: “A lui si fa risalire la pratica del trapianto e dell'innesto nella coltivazione degli alberi da frutta e la tecnica di ogni altro procedimento agrario”(25). Da qui trae origine la rappresentazione di Saturno con il falcetto, per Macrobio (26) attributo dato al Dio dallo stesso Giano, segno della ricchezza perché il falcetto è in rapporto non con la semina dei campi ma con la raccolta di quanto da essi prodotto.

In quanto Dio della ricchezza (non solo agricola, visto che presso il suo tempio nel Foro aveva sede l’aerarium dello Stato) aveva come sua paredra Ops, l’Abbondanza, Dèa anch’essa arcaica, probabilmente in origine divinità familiare del Rex, visto che i suoi rituali venivano celebrati nella Regia.

Saturno è un Dio “pericoloso”, pericolosità testimoniata dal fatto che la sua ara era posta al di fuori dei limiti della Roma più antica, in quanto “Dio della fine” non solo temporale dell’anno ma anche di ogni legge che stabilisce i limiti della convivenza civile e lascia aperta la via alla libertà assoluta, libertà appunto pericolosa perché può essere mal utilizzata da chi non sa usarne nel modo dovuto. Per tale ragione questa sua “qualità pericolosa” era personificata, secondo quanto riferisce Gellio (27), come Lua Saturni, cioè la “Dissoluzione di Saturno”, “qualità” che entra in azione nella cerimonia con cui si distruggevano le armi prese al nemico (28) insieme con Marte, Vulcano e Minerva (la quale è probabilmente sostituzione della più antica Neriene, personificazione della “virilità” di Mars, dal significato sabino del suo nome).

Il Dio era celebrato nei Saturnalia, istituiti “ufficialmente” nel 497 a.C. in occasione della consacrazione del tempio di Saturno nel Foro ma certamente di epoca più alta, in origine celebrati nel solo giorno 17 ed in seguito prolungati per altri sei giorni (ma solo il 17 rimase festus cioè dedicato al rito sacro) comprendendo così anche gli Opalia, i Divalia e i Larentalia, tutte feste connesse con il significato di “fine anno” dei Saturnalia.

Quali fossero i rituali eseguiti in onore di Saturno non è dato sapere, in quanto “in merito all'origine dei Saturnali il diritto divino non mi permette di rivelare nozioni connesse con la segreta essenza della divinità... Quanto alle origini occulte e promananti dalla fonte della pura verità, non si possono illustrare nemmeno durante le cerimonie sacre; anzi, qualora si giunga a conoscerle, è obbligo tenerle ben nascoste dentro di sé” (29).

In tali giorni i padroni portavano il pileus, il berretto degli schiavi liberati, e gli schiavi venivano da loro serviti a tavola, a somiglianza di quanto facevano le matrone nei Matronalia di Marzo; ci si scambiavano doni consistenti in cibo, ceri e statuine (sigilla), le quali, a detta degli Autori romani, sostituivano i sacrifici umani che in origine erano fatti a Saturno (30). Il segno della temporanea sospensione delle leggi si vede nella libertà concessa solo in questi giorni al gioco d’azzardo, che presso i Romani era severamente proibito nei tempi più antichi.

Secondo gli Autori romani il mito di Saturno racconta di come il Dio, detronizzato dal figlio Juppiter, si nascose nel Lazio (31) dove fu accolto da Giano, che allora governava quelle terre dalla sua città sul Gianicolo, il quale donò al nuovo venuto il colle capitolino, sul quale Saturno costruì la Seconda Roma (32), che da lui prese nome di Saturnia. Varrone (33), parlando del Capitolium, afferma: “Secondo la tradizione questo colle era chiamato un tempo colle di Saturno e da ciò tutta la zona per larga estensione era chiamata Terra Saturnia, come la chiama anche Ennio. Si legge che su questo colle c’era un’antica città chiamata Saturnia”.

Macrobio (34) mette in risalto l’azione civilizzatrice del Dio: “Questo Giano ospitò Saturno giunto per mare presso di lui e da quello imparò l’arte dell’agricoltura, migliorando così il sistema di alimentazione che prima della scoperta delle messi era selvaggio e rozzo: come compenso se lo associò nel regno” (35). L’Età dell’Oro, inaugurata da Saturno, rappresenta un’epoca mitica, nella quale uomini e animali vivevano insieme pacificamente ed è quindi uno stato principiale nel quale la realtà, lungi dall’essere già completamente definita e consolidata, inizia ad essere organizzata ed ordinata dal Caos primordiale (36). Mentre sotto la sovranità di Giano, Dio archetipale e indifferenziato, origine dell’esistente come lo descrive Ovidio (37): “Io che ero stato mole rotonda ed informe / presi l’aspetto e il corpo convenienti ad un Dio”, vi era una realtà ancora non strutturata, Saturno è il Dio civilizzatore per eccellenza, colui che insegna agli abitanti dell’epoca primordiale l’arte della  coltivazione e dà origine all’Età dell'Oro.

[caption id="attachment_20913" align="alignleft" width="183"]Angerona Angerona[/caption]

Il rapporto tra Giano e Saturno è significativo: mentre Giano è al di fuori della storia, è il Dio che dà inizio al processo che porterà alla Roma storica ed assiste immutabile ed imperturbabile agli avvenimenti con una presenza costante ma “al di sopra delle parti”, Saturno è all’inizio della storia mitica, poiché costituisce il principio della civiltà.

Questo secondo Macrobio (38) lo dimostrava la presenza delle statue di Tritoni nel suo tempio: “Sul frontone del tempio di Saturno furono posti i Tritoni con trombe, perché dai suoi tempi ad oggi la storia è chiara e quasi parlante, mentre prima era muta, oscura e sconosciuta, come dimostrano le code dei Tritoni immerse nella terra e nascoste”. La connessione di Saturno con i Tritoni è per noi un ulteriore simbolo della sua attività ordinatrice sulla creazione, raffigurata nel dominio del Dio sulle Acque simbolo della potenzialità generatrice; per questo i Romani lo consideravano il più grande degli Dèi: “Voi Romani celebrate Saturno con grandissimo onore, forse più di tutti gli altri Dèi” (39).

Completiamo l’articolo con una considerazione a cui in questo luogo possiamo solo fare accenno: poiché vi è una corrispondenza tra i diversi piani dell’esistente (ciò che è in Alto… ), il mese di Dicembre può anche essere “letto” in chiave alchemica per il suo essere il periodo in cui dal nero della massima riduzione della luce del Sole si giunge al suo vittorioso ritorno, vicenda di morte e rinascita che sul piano del naturale riflette quanto avviene nei mondi superiori. Il mese è sotto il segno di entità collegate alla morte-rinascita ma soprattutto di Saturno, il Piombo del corporeo che attraverso il nero della putrefazione di Dicembre nei successivi mesi di preparazione e di purificazione, Gennaio e Febbraio, si trasmuta nel verde della Primavera per giungere al rosso del Sole fiammeggiante dell’Estate. Non è certo un caso che in alcuni testi alchemici (40) l’Opera abbia inizio “al tramonto del sole” nel segno zodiacale del Capricorno (Solstizio d’Inverno) per concludersi in quello del Cancro (Solstizio d’Estate) dopo sette cicli di solve et coagula della “nostra Pietra filosofica”.

Note:

1 Ci riferiamo al mundus imaginalis, argomento che però qui non è possibile trattare.

2 La complessità della struttura civile, religiosa e sapienziale di Dicembre e delle divinità in esso celebrate non consente una trattazione completa dell’argomento, per cui rimandiamo a GALIANO e VIGNA  Il tempo di Roma, ed. Simmetria, Roma 2013 pp. 369-393, di cui questo articolo rappresenta un ampliamento.

3 Gaia Fufezia era la Vestale che donò ai Romani le sue terre nel Campo Marzio, la cui figura si confonde nei miti con Gaia Cecilia, nome romano di Tanaquil, colei che aveva spinto prima il marito Tarquinio Prisco e poi il figlio adottivo Servio Tullio a prendere il potere regale a Roma; Acca Larentia, come Gaia Fufezia, aveva donato ai Romani i propri beni ricevuti in dono da Ercole. Sono tutte e due figure connesse al potere regale o materiale, analoghe sul piano storico alla funzione di alcune tra le divinità femminili di Dicembre.

4 La sua assimilazione con Damia, la divinità della Magna Grecia venerata a Taranto e portata a Roma dopo il 272 a. C., non va interpretata come una introduzione ex novo di Bona Dèa nel pantheon romano ma come il riconoscimento di un’analogia tra le due forme del Femminile.

5 CANDILIO e BERTINETTI Bona Dèa: una statuetta ritrovata, in “Bollettino di Archeologia on line della Direzione Generale delle Antichità”, IV 2013, 1.

6 MACROBIO Saturnalia I, 12, 21-27.

7 CANDILIO e BERTINETTI Bona Dèa cit.

8 PLUTARCO Vita Caes 9. Su Bona Dèa e le celebrazioni a lei connesse in Maggio e Dicembre rimandiamo a GALIANO e VIGNA  Il tempo di Roma cit. pp. 181-184 e 372-373.

9 GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma cit. pp. 42-44.

10 Sul vino e il suo uso rituale si ved GALIANO Il vino, dai riti di Roma all’altare cristiano pubblicato in Ottobre sul sito di EreticaMente.

11 SABBATUCCI La religione di Roma antica, ed. Mondadori, Milano 1988 p. 340.

12 Gli Agonalia di Dicembre sono i quarti dell’anno: ­gli altri tre erano celebrati nei mesi di Gennaio (in cui erano dedicati forse a Janus), Marzo (sicuramente detti di Mars) e Maggio (forse di Vediovis). Anche su questo rimandiamo per un approfondimento a GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma cit. sub voce

13 L’identificazione si basa sullla presenza dei due altari orientati sul sorgere e tramontare del Sole ritrovati nel santuario di Sol Indiges a Lavinium, risalenti all’Età del Bronzo, cioè coincidenti con il tempo della venuta di Enea, e descritti da Dionigi di Alicarnasso come eretti da Enea al suo arrivo nel Lazio.

14 MACROBIO Saturnalia I, 10, 6.

15 Vi è chi non concorda che questa sia stata la motivazione della condanna di Valerio Sorano come DE MARTINO L’identità segreta della divinità tutelare di Roma, ed. Settimo Sigillo, Roma 2011: inutile sottolineare che il sottoscritto non accetta l’identificazione fatta dal De Martino del Nume tutelare di Roma con una forma di Venere di origine orientale e greca, visto che Roma ebbe la sua Venere, ben differente dall’Afrodite greca e dall’Astarte orientale (GALIANO Venere, signora della Grazia, ed. Simmetria, Roma 2014).

16  PLINIO Nat hist III, 65.

17 PERFIGLI Le pericolose angustie della Dèa Angerona, in “I Quaderni del Ramo d’Oro on-line” 2009, 2  pagg. 273-303.

18 PERFIGLI Le pericolose angustie cit.

19 C.I.L. I pars I p. 338: Ut agonalia ab agendo, ita angeronalia dicta sunt ab angerendo, id est apo tou anaferestai ton elion.

20 MACROBIO Saturnalia I, 21, 15.

21 Per una più completa conoscenza di Saturno nella visione religiosa di Roma rimandiamo a GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma cit. pp. 382-388.

22 COARELLI Foro romano, ed. Quasar, Roma 1983, vol. I p. 206.

23  MACROBIO Saturnalia I, 8, 9.

24  VARRONE De lingua  latina V, 64.

25  MACROBIO Saturnalia I, 7, 25.

26  MACROBIO Saturnalia I, 7, 27.

27  GELLIO Noctes atticae XIII, 23, 2.

28 Ad esempio si veda LIVIO Hist VIII, 1: “Il Console Gaio Plauzio [sconfitti i Volsci]… diede le armi dei nemici a Lua Mater”.

29 MACROBIO Saturnalia I, 7, 18.

30  MACROBIO Saturnalia I, 7, 31–32 attribuisce ad Ercole l’aver fatto cessare i sacrifici umani offerti a Saturno e a Dis Pater secondo quanto prescritto dall’oracolo di Dodona riportato da DIONISIO DI ALICARNASSO Ant rom I, 19, 3: “Inviate… / le teste al Cronide e al padre [Dis Pater]  inviate un uomo”.

31  È nota l’etimologia di Latium da latere, nascondere. DI NARDO ne Il preistorico culto infero del Vulcano laziale, Velletri 1942 p. 34 fa derivare Latium da “pietra”: “da Later = massello squadrato (da cui Latomia = pietrara) ebbe origine la voce Lazio, che ha per sinonimi lateus e lateo (occulto, nascosto)”.

32  La Prima va identificata con quella del Re (o Regina) Camese (MACROBIO Saturnalia I, 7, 18), insieme a cui regnò Giano.

33  VARRONE De lingua  latina V, 42

34 MACROBIO Saturnalia I, 7, 21.

35 Come si è detto sopra, a Saturno veniva anche attribuita l’arte di innestare gli alberi da frutto, segno del passaggio da una società di raccoglitori, che consumavano ciò che trovavano in natura, ad una di agricoltori, capaci di migliorare quanto era disponibile allo stato spontaneo. Il mito di Tutula e del caprifico si potrebbe ricollegare a questa transizione: si veda Il complesso festivo delle Nonae Caprotinae in Il tempo di Roma cit. pp. 253-258 e in particolare p. 257.

36  Roma, che non conosce i virtuosismi intellettuali dei Greci, non possiede in modo esplicito una cosmogonia ma è possibile desumerla da alcune tracce che gli Autori romani ci hanno lasciato.

37 OVIDIO Fasti I, vv. 111-112.

38 MACROBIO Saturnalia I, 8,4.

39 MACROBIO Saturnalia I, 7, 16.

40  Si veda ad esempio la Conclusio operis dello Speculum alchimiae attribuito a Frate Elia (GALIANO Lo Speculum alchimiae di Frate Elia, ed. Simmetria, Roma 2016).

  Paolo Galiano

Diana e Apollo – Paolo Galiano, Massimo Vigna – a cura di I. R.

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La benemerita Casa editrice Simmetria persiste nell’opera di restituzione della prima facies delle divinità romane, aggiungendo una nuova perla alla collana Roma e la civiltà mediterranea. Dopo Vesta, Mars e Venus è la volta di una diade particolarmente interessante e di complessa disamina, quella dei ‘fratelli’ Diana e Apollo.

Mirabile quanto ostico è il fine del libro (e, in verità, di tutte le monografie citate): svincolare i numina dalle catene concettuali e immaginali loro imposte dal mito greco e renderne il volto che fu autenticamente italico-romano, espressione del Sacro proprio della Saturnia Tellus. La peculiarità di questo saggio è rappresentata dal perno intorno a cui ruotano le riflessioni degli Autori: vale a dire il pendant costituito da due realtà, conflittuali eppure complementari, quali la Selva e l’Urbe. Alla prima dimensione è naturaliter associata la dèa vergine e saettatrice, alla seconda il dio dall’arco d’oro (curioso, da un punto di vista simbolico, notare come negli Inni Omerici – quindi in un contesto tutt’altro che romano – la prima scagli l’aureo strale, il secondo sia appellato dall’arco d’argento).

Massimo Vigna (già co-Autore, con Galiano, del pregevolissimo Il Tempo di Roma, il miglior testo dedicato al calendario dei nostri Maggiori apparso in Italia negli ultimi decenni) si sofferma sulla Selva, operando una apprezzabile disamina della figura numinosa che ad essa presiede e riconducendola, in primo luogo, alla dimensione presumibilmente originaria di Signora degli animali. Gli animali, che popolano i boschi sacri a Diana: nome fatto derivare da un radicale i.e. Diouh- esprimente l’idea della luce (si noti anche il parallelo con Ianus, operato altresì in epoca tarda da Nigidio in Macrobio, Sat., I, 9, 8: “Pronuntiavit Nigidius Apollinem Ianum esse Dianamque Ianam, adposita d littera quae saepe i litterae causa decoris adponitur, reditur redhibetur redintegratur et similia”. Sul punto cfr. anche le importanti considerazioni alle pp. 59-60 del testo in esame).

Ma quale luce? Non certo quella del cielo sereno, dominio indiscusso di Iuppiter Optimus Maximus, “bensì quella che filtra dalle fronde degli alberi nelle radure boschive” (p. 13), in cui la dea era massimamente onorata e celebrata. Si rimarcano i profili tipicamente italici del nume, in qualità di Signora del lucus e propiziatrice dei parti, la cui arcaicità è messa altresì in risalto dall’associazione con Silvano, “dio de’ campi e degli armenti” molto onorato dai “Pelasgi / primi del Lazio occupatori esterni” (Verg., Aen., VIII, 925-934), come altresì attestato dall’importante cippo delle Terme di Caracalla recante la dedica “Sacrum Dianae Siluano Bonadiae”.

La sacertà delle selve come feudo di Diana trova la sua espressione certamente più nota nel culto ad essa tributato a Nemi, cui l’Autore dedica un intero capitolo, altresì soffermandosi su alcuni aspetti poco noti afferenti al mito di Oreste, le cui ceneri rientravano nel novero dei pignora imperii, e ponendo in luce i legami della dea con la ninfa Egeria, ispiratrice di Numa. La disamina del culto di Aricia non poteva, naturalmente, esimere dall’esame dei rapporti tra la dea e gli schiavi; ma altrettanto forte, per quanto meno lumeggiata, era la sottile liaison con la dimensione della sovranità adombrata nel celebre episodio della vacca prodigiosa riportato in Livio, Hist., I, 5. Sul punto, giova mettere in risalto le riflessioni sul simbolismo delle corna e sullo stesso radicale KRN-, che attrasse a suo tempo l’attenzione di René Guénon nel fondamentale Simboli della Scienza Sacra (richiamato in nota al testo) e su cui eccellenti considerazioni sono altresì reperibili nell’importante contributo di Mario Giannitrapani (edito, anch’esso, da Simmetria) intitolato Il Sacro Arcaico. Forme della Sacertà neolitica.

Da ultimo, si prendono in considerazione la “mappa” dei templi di Diana a Roma, il suo ruolo in seno all’Impero e il doveroso parallelo con Artemide, rimarcando la tardività dell’associazione con la Luna.

Paolo Galiano si sofferma su Apollo, numen tra i più indecifrabili tanto del pantheon greco, quanto di quello romano. E non certo per carenza di informazioni, atteso il profluvio di testimonianze, bensì proprio per la sovrabbondanza di ‘funzioni’ al medesimo riconosciute dagli antichi.

Ma qual è, al netto delle ‘incrostazioni elleniche’, l’autentico volto dell’Apollo romano? L’Autore prende le mosse dalla figura del dio come “medico, protettore e purificatore” (pp. 79 e ss.).

La qualifica di medicus, cui Galiano non esita a ricondurre la primissima funzione storicamente impersonata dal dio a Roma, risalta sin dalle prime testimonianze circa la presenza di quest’ultimo nell’Urbe. Il primo tempio di cui è nota la dedica ad Apollo, infatti, è quello eretto in Prata Flaminia nel 433 a.e.v. e consacrato due anni dopo dal console Cn. Giulio Mentone (appartenente alla gens Iulia, i cui rapporti col dio sono universalmente noti: cfr. pp. 101 e ss.) ed il primo lectisternium risale al 399 a.e.v.: in entrambe le circostanze il numen è chiamato in causa al fine di debellare un morbo pestilenziale particolarmente virulento. D’altra parte, l’antichità dell’Apollo Medico è messa in luce anche dal culto tributato al figlio Esculapio in insula Tiberina sin dal 293 a.e.v.

E se un dio medico reca con sé, implicita, la qualifica di purificatore, tuttavia la sua poliedricità non consente di esaurirne le funzioni nello spettro concettuale legato alla arti curative: Apollo è infatti anche protettore dell’Urbe, ruolo che verrà esaltato dal princeps Ottaviano Augusto (che ne farà, in un certo senso, il protettore dell’Impero stesso, quindi dell’Orbis quasi ‘proiezione’ dell’Urbs 1) allorquando, nel contesto della più grande opera di risistemazione e riconduzione alle origini della religio che la storia di Roma abbia conosciuto, portò con sé il dio non solo sul Colle dei primordi (il Palatino), bensì – per volontà numinosa espressa per mezzo del fulmine, che “cadde proprio sullo spazio che divideva le due domus previste dal piano architettonico” (p. 121) – in un’area riservata della sua stessa casa, che accolse significativamente anche il Fuoco di Vesta. Lasciamo al lettore il piacere di profondersi nella lettura dell’ultimo capitolo del saggio, emblematicamente dedicato ad “Apollo e Ottaviano”, imperatore particolarmente caro all’Autore (che ha dedicato al medesimo anche lo scritto intitolato Apollo nella religione romana dall’età antica ad Ottaviano, apparso in Atrium n. I, Marzo 2014), per lumeggiare, giocoforza, rapidamente gli ulteriori collegamenti che vedono protagonisti Apollo ed altri numina.

A cominciare da Apollo e Libero, assimilazione operata da Macrobio attraverso il filtro dell’ormai conclamata (ai suoi tempi, e non dimentichiamo che parliamo del IV-V sec. e.v.) identificazione del dio col Sole, per continuare con l’assimilazione a Giano quale dio che, sempre secondo l’Autore dei Saturnalia (I, 9, 5), comprenderebbe in sé tanto Apollo quanto Diana. Ancora, vengono esaminate le diadi Apollo-Faunus e Apollo-Soranus, quest’ultima per il tramite di Plinio (Nat. Hist., VII, 19), che ricollega i due numina con riferimento agli Hirpi dell’agro falisco: in questa cornice troverebbe autonoma collocazione il simbolismo legato al lupo come animale apollineo di là dall’etimologia greca che legherebbe lykòs a lykè, luce promanante dal dio quale ipostasi del Sole.

Note: - Cfr., in argomento, le interessanti riflessioni di M. Bettini in Dèi e uomini nella Città, Carocci 2015, pp. 27 e ss., “La Città, il pomoerium e il perimetro del mondo”. Paolo Galiano – Massimo Vigna, Diana e Apollo. La Selva e l’Urbe, Simmetria 2015, pp. 144.   I.R.  

Oltre le soglie del tempo: l’ermetica visione dell’Arcana Urbe – Stefano Mayorca

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Nel lungo ciclo temporale, ciclico divenire, che mena verso le regioni impenetrabili del mito e delle sue misteriose e arcaiche dimensioni, si cela il magico cammino dell’Urbe, magica testimonianza di antichi splendori e di ermetiche assonanze. Luogo carico di ancestrali richiami e di ctonie vibrazioni,  che nelle pieghe del tempo, hanno visto nascere l’eterna impronta dell’immortale Roma e dei suo Déi e Dee dalle multiformi effigi. Scriveva Empedocle, il filosofo greco: “La divinità non porta testa umana, né dalle sue spalle scendono due rami, non ha né piedi né ginocchia veloci né il sesso peloso, ma solo uno spirito, sacro ed ineffabile, governa e percorre tutto l’universo con la velocità del pensiero”. Questa è l’Urbe, intrisa di magia, ricoperta di mistero. E nel nome degli Dèi si cela l’incantamento. Il coro dell’Antigone di Sofocle, invocando Dioniso, lo chiama: “Dio che di nomi abbondi”. Il nome era di vitale importanza nella religione ermetica- magica di Roma, poiché il nome racchiude una potenza evocatrice come nel caso del Genius, vera matrice che infondeva vita alla Civitas e alle sue correnti più secretate. Evocando il nome del Dio non si evocava soltanto la sua persona ma si faceva anche sprigionare tutta la sua potenza benigna o maligna che fosse e, in questo contesto sacrale, rientra anche il nome segretissimo di Roma, ovvero dell’ente geniale di cui si accennava, che ne costituiva  la formazione occulta, i suoi poteri e la sua vita dimensionale, tanto nel visibile che nell’invisibile. Il nome, dunque, è l’apice di ogni creazione umana ed ermetica, perché finché non avevano un nome, gli Dèi, non potevano essere né venerati e tantomeno invocati o evocati. Il Verbum è lo strumento operativo che, attraverso l’opera immaginativa, dà vita al Tutto. Il nome è l’autentica e speculare essenza dell’essere. Per questo motivo ogni religione circondava il nome degli Dèi di particolari attenzioni, oppure era lecito solo ai sacerdoti-niziati pronunciarli, utilizzando specifiche conoscenze e la giusta pronuncia che solo essi conoscevano, con buona pace di chi ancora oggi nega l’esistenza di un collegio iniziatico-sacerdotale nell’Urbe. Così, solo essendo al corrente del nome, era possibile vivificare la deità.  Pensiamo al mito di Ra e Iside. Iside chiamata a guarire Ra, vuole conoscere il suo nome. Ra è contrario a svelarlo, teme che una volta conosciutolo, chiunque potrebbe acquisire potere su di lui. Iside insiste è dice con fermezza” Dimmi il tuo nome, poiché vive soltanto colui che è chiamato col suo nome”.

Il Lapis Niger

la via infera

 

Un altro luogo legato alle origini, suggestivo e intriso di una sottile malia, è un angolo del Foro dove è visibile il sacro Lapis Niger (letteralmente la pietra nera), conosciuto anche come Lapis Romuli, la pietra di Romolo. Secondo la

[caption id="attachment_22220" align="alignright" width="209"] Lapis Niger[/caption]

tradizione quella pietra segna il punto in cui fu sepolto Romolo. Qui intorno al 23 agosto si officiava la cerimonia del Volcanal dedicata al dio Vulcano, denominata anche Vulcanalie. Vulcano, divinità romana di probabile matrice etrusca, si chiamava in origine Sethlans e a lui erano sacri il fuoco terrestre e quello celeste. Nel sotterraneo che custodisce il Lapis Niger aveva luogo il viaggio infernale che alludeva al viatico spirituale ed iniziatico, principio di rinascita intimamente connesso con l’Opera al Nero, la nigredo alchimica. Al di sotto della pietra nera si scorgono i gradini che conducono alla porta infera attraverso la quale si accede al ventre della Terra (la Grande Madre). Il passaggio è chiuso e nessuno può visitare l’oscuro pertugio dove aveva inizio il viaggio nelle regioni infere, initium dell’autentico cammino di trasmutazione e di rinnovamento spirituale. Qui, si avvertono vibrazioni che vanno oltre il comune sentire, qualcosa che non è possibile descrivere con il frustro linguaggio umano. La lapide di tufo nero reca un’iscrizione, la più antica in lingua latina oggi conosciuta. La scritta che appare sulla sua superficie è stata redatta con il sistema bustrofedico, ossia con le righe alternate dall’alto in basso e dal basso verso l’alto.  Le prime parole che compongono l’iscrizione dicono: “Chi violerà questo luogo sia consegnato alle ombre dell’Aldilà”.

Cibele la Magna Mater.

Spostiamoci ora in cima al Palatino, il sacro colle, per vedere da vicino una dea misteriosa e i cruenti riti a lei dedicati, il cui culto, guarda caso, prima di approdare a Roma era diffuso nel cuore dell’Oriente segreto. Qui veniva adorata Cibele, la Magna Mater. L’aspetto simbolico legato a questa dea è ben descritto dal grande Lucrezio nella sua importante opera De rerum naturae (II, 604-616): “ …due leoni aggiogati guida, seduta in un cocchio,  nel cielo, a volo, per dire che sta sospesa l’immensa terra, e poggiar  sulla terra non può la terra. V’aggiunsero le fiere, perché la prole, domata dai benefizi dei genitori, si deve, se pur feroce ammansire. E perché tiene sui colli le ben munite città, a sommo il capo le cinsero della murale corona: ora si porta, adornata di tali insegne, a spavento di terra in terra la statua della Dea Madre. Diverse genti la invocano Madre idea, secondo l’antico rito del culto, e le danno caterve frigie a corteggio, perché si dice che dalle terre di Frigia per prime in tutto il mondo le messi han cominciato a prodursi”. Dalle parole di Lucrezio si riceve conferma del fatto che Cibele era una divinità adorata dalle popolazioni dell’Asia Minore. Il centro del suo culto in effetti, si trovava a Pessinunte, in Frigia. Il suo nome non è che l’adattamento di Matar Kubile con il quale la chiamavano i Frigi. Adottato in seguito dalle popolazioni elleniche sopraggiunte nell’Asia Minore, il suo culto si estese fino alla Triade, dove fiorì nelle vicinanze del monte Ida. Per tale circostanza, quando fu introdotta a Roma, Cibele non venne considerata una dea straniera, giacché i Romani si consideravano discendenti dei Troiani. La ritualità espressa dagli aspetti occulti della dea erano strettamente collegati al culto del suo amante Attis, della mitologia frigia. Attis, dio della natura, rappresentava la morte e la rinascita della vegetazione, incorporando in se alcune analogie con il dio assiro–babilonese Tamuz. Il concetto di morte e rinascita racchiusi nei misteri di Attis, contemplavano una ritualità violenta, al culmine della quale gli iniziati e i sacerdoti, in preda al furore mistico si eviravano e le sacerdotesse si mutilavano.

[caption id="attachment_22219" align="alignleft" width="200"] Cibele[/caption]

Il culto di Cibele venne introdotto intorno al 204 a.C., quando re Attalo di Pergamo donò a Roma (o forse fu persuaso a farlo), la pietra nera di Pessinunte, un grande meteorite, una immagine simbolica della dea che fu collocata sul Palatino. Nota quale divinità montana, come testimoniano alcuni suoi epiteti legati ai nomi di diversi monti, Berecinzia, Dindèmene e Idea, divenne celebre a Roma con l’appellativo di Magna Mater, la Grande Madre, la divinità primigenia universale. Il suo santuario, edificato sulla sommità del Palatino, era indicato con il nome di Magna Mater Deum Idaea. I sacerdoti di Cibele erano detti Galli e Coribanti, ma anche Arcigalli (sacerdoti questi ultimi devoti ad Attis). I riti magico–cultuali in onore della dea del monte Ida (Deum Iadea), erano contraddistinti da azioni cruente e sanguinarie; per tale motivo Cibele era anche denominata dea sanguinaria. Vediamo in pratica in cosa consistevano questi riti, che si tenevano in un luogo sacro ed esoterico per eccellenza, il Collis Palatinus, dove il confine tra Cielo e Terra cessava creando una fusione con il Tutto. Il profumo dell’incenso si diffondeva nell’aria, mentre il suono fragoroso dei cembali, dei flauti, dei timpani, dei dischi metallici e dei rombi accompagnavano il culto orgiastico - da orgiaismo, celebrazione di qualunque azione sacra misterica, come i misteri dionisiaci, nei quali l’azione sacra sconfinava nel parossismo - nel corso del quale i sacerdoti, giunti nel momento di maggiore esaltazione, si infliggevano profonde ferite e in alcuni casi si autoeviravano. Nonostante Cibele non fosse ritenuta una divinità straniera, dal suo sacerdozio venivano esclusi i cittadini romani e le cerimonie a lei dedicate, a parte la levatura pubblica del suo simulacro, erano assolutamente segrete e private. Le uniche feste aperte al popolo in onore della dea, erano i ludi Megalenses. Anche il dio Attis era soggetto a celebrazioni in suo onore, officiate da sacerdoti–iniziati venuti dall’Oriente che si esprimevano in una lingua incomprensibile per i Romani. L’inizio dei festeggiamenti veniva chiamato Canna intrat (la canna entra), presieduta dai Cannophori e gli Arcigalli, gli eunuchi che avevano raggiunto un elevato grado di purezza interiore. I Cannophori sventolavano lunghe canne, allo scopo di ricordare il dio che era stato abbandonato neonato tra le canne che crescevano lungo le rive del fiume Sangario (da notare le analogie tra Attis, il Mosè biblico e i gemelli Romolo e Remo). La sacra cerimonia proseguiva ricordando l’amore tra Attis e la dea Cibele. Il suono di timpani e tamburi si faceva sempre più forte e alla fine il rito prevedeva il sacrificio di un toro, simbolo di fecondità, come si evince anche dal culto di Mitra, altra divinità orientale rappresentata nell’atto di trafiggere un toro. Cibele stessa ne aveva sacrificato uno, allo scopo di fabbricare con la sua pelle il primo timpano (strumento a percussione che produce un suono determinato, costituito da una membrana tesa in una cassa di risonanza chiusa inferiormente). Verso sera il corteo si incamminava in direzione del santuario della dea dove si teneva il rito magico dell’Arbor intrat, l’albero che entra, officiato questa volta dai Dendrophoroi, i sacerdoti preposti a portare l’albero sacro. Entrati nel recinto consacrato, i Dendrophoroi tagliavano un pino, il simulacro fallico che alludeva all’evirazione e morte di Attis. L’albero, avvolto in bende di lino e ornato da viole profumate e seguito dalla statua di Attis, veniva portato poi verso il luogo dove in una fossa molto profonda sarebbe stato calato, simboleggiando in tal modo il corpo privo di vita del dio. Il giorno seguente i sacerdoti si autinfliggevano punizioni corporali, si flagellavano e sanguinavano copiosamente a causa della lacerazione delle carni. Nonostante il recente divieto imposto dal Senato di Roma, qualcuno si evirava al fine di avvicinarsi interiormente alla dea Cibele (fu proprio lei dopo essere stata tradita da Attis, ad evirarlo mortalmente). Al di là dell’aspetto cruento Cibele era dispensatrice d’amore e protezione, fertilità e solidarietà. Molti erano i templi in cui si praticavano culti di origine orientale. Basti pensare al mitreo situato alle spalle del Palazzo Barberini e scoperto nel 1936. L’edificio fu ricavato nel III° secolo d.C. da una fabbrica più antica. Notevole e ricca di fascino è la decorazione che appare sulla parete di fondo: nella scena principale è rappresentato il dio Mitra in atto di uccidere il toro, alla presenza di due portatori di fiaccole, i Cautes e Cautopates. In alto è visibile la volta celeste con i segni dello Zodiaco, sui quali campeggia ancora una volta l’immagine del dio. Le allusioni astrologiche e alchimiche appaiono evidenti. Una serie di riquadri, posti a fianco della rappresentazione principale, contengono le scene più significative legate alla storia di Mitra. Grazie a questo mitreo è stato possibile ricostruire a livello mitologico e rituale, il culto segreto di una delle religioni maggiormente diffuse nella Roma del III° secolo d.C. Il velo del tempo, soglia antica di vecchi miti e di Dèi, sta calando di nuovo celando agli occhi profani,  impreparati a comprendere, l’ermetico mondo che nei secoli fu fecondo, germe di sapienza che mai verrà disseccato, fino a che la fiamma viva della Conoscenza arderà copiosa sul buio dell’ignoranza e della corrente volgare.

Stefano Mayorca

2770° Natale di Roma – Alessandra Colla

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Il 21 aprile 753 prima dell’Era Volgare è una data che ancora si studia, nonostante la tragedia che sta vivendo il nostro sistema scolastico: il giorno fatale in cui Romolo, aggiogati all’aratro un bue e una giovenca, tracciò il solco che avrebbe fissato i confini dell’Urbe, continua a figurare fra le poche nozioni di base che devono (dovrebbero) figurare nel bagaglio culturale di ogni italiano.
Sappiamo ora che la fissazione della data, come riporta Plutarco, è frutto dei calcoli astrologici di Lucio Tarunzio Firmano (astrologo e matematico amico di Varrone) e non è mai stata provata scientificamente; e sappiamo pure che, curiosamente, fu un fiero avversario di pagani ed ebrei a riconoscerne per primo la validità — Bonifacio IV, sessantasettesimo papa della Chiesa cattolica morto nel 615, che identificò l’Annus Domini, l’anno della nascita di Gesù, con l’anno 754 a.U.C., ab Urbe Condita, cioè “dalla fondazione della Città (per eccellenza)”.

Ma non sono queste minuzie a contare: è il soffermarsi a pensare che in un giorno quantificabile dal punto di vista storico — e computato in modo così preciso da determinare la datazione dei millenni a venire — ha preso vita la costruzione sociale, culturale e politica più grandiosa dell’Occidente la cosa che continua a dare i brividi.

Al di là dei significati e delle valenze religiose o ideologiche strutturatesi attraverso i secoli, il Natale di Roma dovrebbe essere considerato una ricorrenza fondamentale per tutti, e particolarmente in questo momento storico: perché — di nuovo — al di là dei significati e delle valenze religiose o ideologiche la Roma dei sette re e della Res Publica rappresenta un autentico discrimen epocale capace di dar senso ai secoli e alle genti che verranno dopo di essa.
Lasciamo da parte tutta la retorica e la propaganda che nel bene e nel male hanno accompagnato il nome di Roma (soprattutto nel secolo scorso), e indugiamo per un momento a meditare sulle parole famosissime che Virgilio mette in bocca ad Anchise (Eneide VI, 851-853), quando dai Campi Elisi predice al figlio Enea gli eventi che verranno:
tu regere imperio populos Romane memento — hae tibi erunt artes — pacisque imponere morem, parcere subjectis et debellare superbos.
(«tu, o Romano, rammenta: governerai con mano ferma i popoli e queste saranno le arti che applicherai — imporre un costume di pace, esser clemente con coloro che avrai sottomesso e abbattere, combattendoli, gli arroganti»).
Anche se certa critica individua in queste parole «la norma brutale dell’imperialismo romano assunta come canone della virtus» (così Luca Canali nel 1993), non facciamoci fuorviare dai condizionamenti culturali e ideologici ma consideriamo i princìpi generali enunciati da Virgilio: essi costituiscono, in tutta evidenza, le fondamenta su cui dovrebbe edificarsi ogni autorità statuale, indipendentemente dalla forma assunta — impero, monarchia o repubblica. (E non credo di essere troppo lontana dal vero suggerendo che questi princìpi sono così ampiamente suscettibili di attualizzazione da poterli recuperare per il corretto approccio a un’antica e alta concezione del Politico che riprenda finalmente il ruolo che le compete, sgombrando il campo dalle grettezze che hanno segnato decenni di storia italiana).
1)    Imporre un costume di pace. Naturalmente la critica ha sempre interpretato queste parole alla luce della politica estera di Roma: una politica, com’è noto, di conquista e di espansione, temperata però da un’autentica missione civilizzatrice della quale restano significative e cospicue vestigia in tutto il continente eurasiatico. Ma a dispetto del dettato costituzionale e delle celebrazioni per l’unità d’Italia è sotto gli occhi di tutti che la situazione interna della nostra nazione è improntata a molte cose ma non certo a una pace o pacificazione che dir si voglia: né sembra che esista una reale volontà di riportare i rapporti sociali nell’alveo di una organicità che, sola, può essere garante di armonia civile. Per quanto riguarda la posizione in materia di politica estera, non c’è bisogno di sforzarsi troppo per ricordare che l’Italia è da tempo impegnata in equivoche “missioni di pace” al fianco di potenze imperialiste e a sostegno degli interessi di queste.
2)    Esser clemente con coloro che avrai sottomesso. Il testo virgiliano reca parcere subjectis, ma la norma si è tradotta per noi in un più generico parcere victis, esser clementi con i vinti: ciò che dovrebbe valere come regola base nella gestione di ogni rapporto conflittuale. Per Cicerone, hostis era il nemico pubblico, il nemico dello Stato, colui “contro il quale sono state legittimamente prese le armi” ( Cicerone, Filippica IV,1); e in nessun caso la figura dello hostis va confusa con la figura dell’inimicus — il non-amico, il nemico personale nei confronti del quale è (o può essere) lecito nutrire sentimenti di rivalsa e/o di vendetta. Eppure, se guardiamo alla storia non troppo remota della nostra Unità, vediamo che l’atteggiamento dei conquistatori venuti dal Nord non sembra aver tenuto nel minimo conto quell’antico precetto. E se guardiamo alla storia ancor più recente, vediamo che gli esiti della guerra civile 1943-1945 sono inquadrabili nella medesima ottica. Considerare il nemico battuto in guerra non come persona-che-sta-dall’altra-parte bensì come non-persona tout court, alla quale negare ogni diritto e addebitare ogni colpa, è errore gravissimo — di più, irreparabile: nel Novecento, è stato commesso in terra italiana da italiani, e nel resto del mondo dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale; e il primo secolo del nuovo millennio ha visto crescere e consolidarsi la convinzione che “l’altro” fosse nientemeno che il Male Assoluto, al punto di consentire alla potenza imperialista statunitense di mettere a punto l’aberrazione etica e giuridica della “guerra preventiva”.
3)    Abbattere, combattendoli, gli arroganti. Ho tradotto volutamente il latino “superbus” con “arrogante” perché in italiano “superbo” può avere anche connotazioni positive (“un’accoglienza superba”), mentre “arrogante” ha sempre e soltanto un valore negativo: propriamente, “arrogante” è chi si attribuisce arbitrariamente qualcosa che non gli spetta. E qui entra in gioco, a mio avviso, una dimensione meno guerresca (per così dire) ma più civile di questo arbitrio: che vedo esercitato da troppo tempo e da troppe persone nell’impotenza e più spesso nell’indifferenza generale. Dove sono, oggi, gli arroganti? Siedono in Parlamento, nelle redazioni dei giornali, nei salotti televisivi… da dove esercitano lo strapotere che hanno arraffato per sé e che nessuno, sembra, riesce ad arginare. La loro tirannia è strisciante e fa meno paura perché non si traduce in violenza manifesta, ma questo non deve trarci in inganno: il diritto di resistenza — non contemplato in Roma antica, perché l’ordinamento repubblicano prevedeva una serie di meccanismi rigorosi atti ad impedire che un singolo o un’oligarchia potessero esercitare un qualsiasi arbitrio — è stato a un passo dal figurare nella stessa Costituzione italiana, ma a quanto pare non figura nel DNA dell’italiano medio, dimentico non soltanto dei diritti/doveri previsti dall’ordinamento repubblicano, ma anche dei passati splendori che pure hanno collocato il diritto romano alla base della giurisprudenza europea.
Come si vede, allora, anche un messaggio apparentemente così datato e di solito confinato (per pigrizia, per ignoranza, per distrazione) nelle pieghe della memoria scolastica può invece recuperare una novità di sostanza, se non di forma, tale da renderlo un valido spunto di riflessione — solo che si voglia andare oltre  la mera esteriorità e il velame, pur affascinante, di certa ritualità.
Nel giorno del Natale di Roma, dunque, chi lo desideri si raccolga a meditare su quelle parole, per ritrovare in se stesso l’eco di un combattimento che i migliori non hanno mai cessato.
Alessandra Colla
20 aprile 2017
 

Cronaca – Inaugurato il Templum Iovis

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Roma. L’11 giugno del MMDCCLXX anno ab Urbe Condita l’Associazione Tradizionale Pietas ha aperto al pubblico il Templum Iovis. Al rito di offerte, nella domenica prossima al plenilunio del mese, è seguita una conferenza sulla sopravvivenza della Tradizione Classica in Italia sino ai nostri giorni. Un festoso banchetto ha accompagnato la felice giornata.

Nel breve volumetto “Templum Iovis”, disponibile presso l’omonimo luogo, l’Associazione Tradizionale Pietas spiega le fenomenologie di sopravvivenza della Tradizione Classica in Italia, come essa in molti luoghi del bel paese sia sopravvissuta in maniera ininterrotta e dei motivi che hanno spinto diversi gruppi umani alla fondazione dell’A.T.P. ed all’apertura di Templi dedicati agli dei.

Riportiamo alcuni concetti di questa interessante osservazione esposta dalla Pietas:

I modelli della visione tradizionale greco romana sono incredibilmente sopravvissuti all’affermazione del cristianesimo. Del resto, per quello che è la rivelazione cristiana nella sua ontologia, essi non sarebbero mai potuti scomparire. Il cristianesimo è infatti una religione che si presenta autodefinendosi una rivelazione della verità.

Il verbo rivelare significa “porre un nuovo velo”. Qual è dunque questa verità sulla quale il cristianesimo pone un nuovo velo? E’ quella della religione dell’Amor. Ed è esistita prima del cristianesimo una religione fondata sull’Amore? Si. E’ quella dell’Amor decantato da Virgilio (Omnia Amor Vincit – Amore vince ogni cosa) nell’Eneide, la forza in grado di compiere ogni miracolo, come insegna il romano Plauto. Del resto quando Romolo fonda la città eterna sui sette colli l’appella con un nome che sia il riflesso della parola latina Amor (Roma) , così riferiva anche lo storico bizantino Giovanni Lido nella sua opera “De Mensibus”.

La mitologia classica è il primo velo ai misteri dell’Amore, velo che veniva a sciogliersi, scoprendo così le profonde verità dell’unità tra l’essere umano ed il cosmo, nella pratica romana, fondata sul calendario. Questi è la cadenza matematica della ciclicità degli eventi cosmici rapportati alla loro influenza sulla vita umana: del resto se d’improvviso giunge il caldo e se dopo sei mesi siamo costretti a coprirci con cappotti per proteggerci dal freddo non è un caso ed il calendario non identifica solo questi eventi, ma molto altro. 

All’interno di questo meccanismo si sviluppavano innanzitutto il culto dei Lari e quello degli antenati...” ed a seguire il culto per gli Dei. Ed è al Dio Ottimo e Massimo che molti hanno condotto offerte al tempio per ringraziare la divinità dell’aver esaudito le loro preghiere.  

Spontaneamente diverse persone hanno portato i loro doni qui dove, nel luglio 2012, venne eretto l’altare a Giove a scioglimento d’un voto ricevuto. Poichè in prossimità di questo altare si ebbero svariate epifanie del Dio, la presidenza ed il direttivo della Pietas stabilirono l’erezione del tempio. Il 13 luglio del 2013 dell’era volgare venne posta ritualmente la prima pietra, inaugurando il Sanctuarium  Pietatis. Il 10 maggio dell’anno volgare 2017, MMDCCLXX ab Urbe Condita, il presidente Giuseppe Barbera annunciava il completamento della struttura del tempio di Giove e dava avvio alla realizzazione del vasto apparato decorativo.

Il tempio è il risultato dell’attività di un’ampia comunità, la quale è venuta a costutuirsi per esigenza organizzativa, mancando quella statale. Del resto nel mondo antico erano numerosi i collegi che venivano a costituirsi per l’organizzazione e la conservazione delle dottrine più antiche: in ciò la fondazione di Pietas ricalca una metodologia profondamente tradizionale. Nel mondo antico, dove la religione era gestita dalla stato, la fondazione dei templi avveniva sotto il controllo di appositi collegi. Poichè lo stato di oggi si disinteressa al culto tradizionale ma lascia, con le sue leggi, piena libertà all’organizzarsi religiosamente, così Pietas, per superare i limiti delle singolarità individuali, ha organizzato dei collegi che possano occuparsi, sempre secondo i canoni tradizionali trasmessici, della gestione rituale dei templi.

Così l’intero Santuario della Pietas non sorge in maniera casuale, ma si sviluppa secondo canoni classici.

Attorno al tempio principale si sviluppa un giardino sacro, con altari ed edicole in corso d’opera e con un tempio ipogeo dove si preserva il fuoco perenne del Santuario.

Ogni albero è disposto secondo logica, ogni pianta, ogni sasso, il tutto in un perenne fluire del divenire. E’ questo un luogo vivo dove la Tradizione trova ospitalità.

www.tradizioneromana.org

info@tradizioneromana.org

       

Civitas Sapientiae – Luca Valentini

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Nel corso del 2016, la Redazione di EreticaMente e l’Associazione Tradizionale Pietas hanno organizzato due seminari di studi sui temi della dimensione sapienziale ed iniziatica nell’ambito della Tradizione Romana. Il primo evento si è tenuto a Roma, domenica 24 Aprile, presso la Sallustiana Art Today Gallery e ha avuto come tema “Arcana Urbis - per celebrare la Fondazione di Roma rivalutandone gli aspetti iniziatici e sapienziali”, con un ricordo particolare a Marco Baistrocchi, grande e nota personalità nell’ambito degli studi tradizionali e romanologici. Il secondo evento si è tenuto a Milano, sabato  8 Ottobre 2016 presso la sede dell’Associazione Nazionale Volontari di Guerra e ha avuto come tema “Civitas Sapientiae - seminario di studi sulla dimensione sapienziale ed iniziatica della Tradizione di Roma”. A questi eventi, oltre la straordinaria partecipazione di pubblico (tra Roma e Milano sono accorse più di 200 persone), hanno partecipato ricercatori del mondo tradizionale e docenti universitari di altissimo livello. Tutto ciò viene rammentato ai lettori del nostro sito ed agli amici tutti per comunicare che in prossimità del prossimo Equinozio di Autunno, verrà pubblicato un numero speciale della rivista Pietas con il titolo di “Civitas Sapientiae”, in cui saranno raccolte le relazioni di entrambi i seminari di studi, essendoci una logica connessione, cioè la comune tematizzazione di Roma come società iniziatica, nei disparati ambiti dell’ermetismo, della religiosità, del mithraismo, della filosofia antica, dei moderni studi inerenti la storia delle religioni, del diritto. Tramite il nostro portale daremo pronta comunicazione dell’avvenuta pubblicazione del volume.

  "Exaudi, regina tui pulcherrima mundi, inter sidereos, Roma, recepta polos; exaudi, genetrix hominum genetrixque deorum: non procul a caelo per tua templa sumus. Te canimus semperque, sinent dum fata, canemu; sospes nemo potest immemor esse tui. Obruerint citius scelerata oblivia solem quam tuus e nostro corde recedat honos"   (Claudii Rutilii Namatiani – De Reditu Suo 1,47 – 54)

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