Quantcast
Channel: Tradizione Romana Archivi - EreticaMente
Viewing all 60 articles
Browse latest View live

Reddito di cittadinanza: un progresso antico! – Giuseppe Barbera

$
0
0

Il polverone che sta alzando l’idea del reddito di cittadinanza è enorme. I poteri forti, secolari e millennari, si scagliano contro questo atto del governo giallo-verde come se fosse un’azione terribile e deplorevole.  La paura di fondo, manifestata pubblicamente, è che ciò accresca l’oziosità, l’evasione fiscale e le truffe contro il tesoro dello stato. Nella realtà dei fatti il reddito di cittadinanza non è un’idea nuova, ma appartiene ad un mondo antico: quello Romano! Cosa altrettanto curiosa è che non si tratta di un concetto maturatosi nel tempo, ma emerso in contemporanea alla fondazione di Roma. Plutarco, nella vita di Romolo, ci segnala che dopo la vittoria contro i Veientini, il primo Re di Roma non volle tenere schiavi, ma restituì i prigionieri di guerra agli avversari ed entrò in conflitto con i Patrizi fondatori perché evitò l’eccesso di crescita delle loro ricchezze rifiutando di distribuire loro nuove terre (oltre, appunto, a non fornirgli manodopera gratuita in forma di schiavi), bensì volle che ad ogni cittadino romano (i quali erano tutti impegnati a partecipare alle attività belliche) venissero equamente distribuite le terre conquistate. In ciò vi è un ideale sociale molto alto che vuole emancipare l’uomo dal dipendere dai ricchi dell’epoca.

A parere di alcuni storici Romolo (1) sarebbe stato eliminato fisicamente da una congiura di individui aspiranti all’accumulazione di ricchezze, e poiché egli era profondamente amato dal popolo, al punto tale che lo riteneva figlio di un Dio, venne sparsa la voce che fu visto ascendere in cielo: da ciò si sviluppò un’apoteosi di Romolo, assunto al rango di divinità col nome di Quirino, che evitò di ricercare il corpo del Re ed eventuali responsabili di un suo possibile omicidio. Nonostante ciò la politica romulea era oramai stata avviata nella città da lui fondata. Questo ideale sociale supererà i confini romani per divenire, due secoli e mezzo dopo, una ideologia comune al mondo italico: la causa di ciò sta nello sviluppo parallelo, nella pitagorica Magna Grecia, dell’intento della cancellazione della povertà tramite la distribuzione di terre (percepite come bene reale appartenente alla natura umana a differenza del denaro che invece la difetta) con la conquista di Sibari nel 510 a.e.v. da parte dei Crotoniati, guidati da Pitagora, il quale propose di distribuire le ampie campagne della città sconfitta alle classi sociali più povere. Anche qui si accese l’opposizione di una parte avida dell’aristocrazia, la quale organizzò una rivolta sanguinolenta nella figura di Cilone, che si concluse con la cacciata dei pitagorici e di un nulla di fatto per i meno abbienti. La cosa ebbe conseguenze pesanti per tutto il sud Italia perché Kroton era la polis di riferimento per le poleis Magnogreche. A riprese i Pitagorici riconquistarono il controllo della città, ma qui gli scontri sociali erano talmente intesi, tra le diverse fazioni, che si dovette fare di Taranto la novella polis a guida della “Lega Italiota”.

Osservando il fenomeno di nascita della prima Italia, risalta la presenza di un filo conduttore che ideologicamente vuole i cittadini liberi da ogni forma di servitù tramite un reddito pro capite che provenga dalla terra concessagli dallo stato. Il fenomeno è oltretutto meritocratico e spinge l’uomo allo sviluppo del concetto comunitario perché arriva alla conquista della sua “indipendenza economica” tramite la disponibilità d’impegno data alla comunità, vuoi servendo nell’esercito od in altre strutture statali. A questa linea ideologica si oppongono gruppi di latifondisti che ambiscono al controllo dello stato e delle ricchezze da esso reperibili.  Quando Roma arriva allo scontro con Taranto, nel 280a.e.v., ci si rende conto di come la Magna Grecia sia animata dalle medesime aspirazioni civili e sociali dei Romani, motivo per il quale questi ultimi elaborarono una leggenda che voleva Re Numa discepolo di Pitagora (cosa impossibile perché i due sono vissuti a circa due secoli di distanza), un motivo di propaganda che risultò credibile a causa delle medesime ideologie attive tra italioti e romani (2). La politica della libertà attraverso il possesso o reddito terriero si vide contrapposta all’ottica delle società fondate sul commercio, come quella punica, dove la ricchezza fondamentale non era la terra bensì il denaro. Gli scontri con la plutocrazia cartaginese si conclusero con la distruzione di Cartagine del 146 a.e.v.

Dopo tale evento le tensioni sociali italiche si accentuarono: i Gracchi proposero, per l’ennesima volta, la distribuzione di terre ai meno abbienti: con la crescita del dominio romano aumentavano i cittadini e le necessità ad essi connesse. I nobili intenti di questa famiglia romana trovarono la contrapposizione dei soliti “poteri forti” che, questa volta, li eliminarono spietatamente in pubblico. Dei terreni di Cartagine non si fece più nulla, ed una enorme ricchezza pubblica restava lì, bloccata ed improduttiva. Nel giro di mezzo secolo i contrasti sociali giunsero ad una terribile guerra dove le città italiane si allearono contro i poteri forti di Roma per vedersi riconosciuta la cittadinanza e poter prendere parte alle votazioni inerenti la gestione delle nuove terre: fu la guerra sociale. Silla ufficialmente vinse, ma dovette concedere la cittadinanza romana ai “socii” (alleati) italici, i quali, con ciò, furono i veri vincitori. L’identità italiana raggiunse finalmente la realizzazione del suo ideale sociale sotto Cesare: questi nel 59 a.e.v. concretizzò la riforma agraria, facendo ottenere ad ogni cittadino la quantità di terreno necessario all’indipendenza della propria famiglia.

Col tempo Roma si trasformò in un impero sempre più strutturato nella realtà statale, da ciò ne conseguirono la crescita di città sempre più grandi con forte intensità demografica: si sviluppò allora una nuova forma di reddito, dapprima consistente nella distribuzione di alimenti (farina, olio, vino) alle classi meno abbienti, fino alla distribuzione di somme di denaro da Augusto in poi: si tratta del congiarium pro capite, ovvero una somma di denaro minima considerata utile ad avere uno stile di vita dignitoso, che veniva distribuita alle classi meno abbienti per cancellare la povertà. La Res Publica dei romani fu la più longeva, nella storia dell’umanità, perché si fondava su un ideale sociale che voleva la cancellazione della povertà. Persino la schiavitù a Roma ebbe diritti che altrove non esistevano: lo schiavo romano riceveva un reddito che poteva essere fittizio (un credito segnato) o reale (in monete), grazie al quale poteva comprarsi la libertà una volta raggiunta la cifra dovuta. Certo Roma ha avuto molti elementi contrastanti, ma dall’antica italicità si possono trarre valori molti sani ed in alcuni casi risolutivi per problematiche attuali che i nostri antenati già affrontarono.

Nella società odierna non sono più i valori ad essere il centro della società, ma il denaro, ciò ha fatto sì che una riforma di diritto, come quella attuata dal governo di Lega e Cinque Stelle, è mal vista, quasi si subisse un furto, mentre a Roma il denaro non era concepito come obiettivo di vita ma come strumento per una vita dignitosa. Le nostre nazioni divengono moderne nel momento in cui si rifanno alla politica romana: lo stesso concetto di repubblica nasce nell’antica Roma e viene ripreso dall’illuminismo in poi. Il corpo dei diritti civici nasce a Roma e da Roma lo riprendiamo. Recuperare il concetto di “reddito sociale”, concepire lo stato come struttura agente super partes per la risoluzione delle differenze sociali, ciò è profondamente moderno, poiché la modernità trae origine dalla romanità: la repubblica francese, ricca di aquile e altri simboli romani, ricca di titoli ed istituzioni riprese dalla Roma antica ne è la dimostrazione concreta e reale. Questo processo di ripresa e sviluppo non è ancora terminato perché molte, delle istituzioni positive romane, sono da riprendere e svilupparsi, ed il nostro governo attuale sta affrontando una riforma moderna che appartiene alla storia del nostro paese, dove per secoli città e fazioni hanno lottato per poter vedere il loro ideale realizzarsi a discapito dei prepotenti e degli avidi.

Note:
1 – Sulla reale esistenza di un primo re di Roma l’archeologia ha fugato ogni dubbio. A tal riguardo si vedano le ricerche condotte dall’archeologo Andrea Carandini sul Palatino. Un primo re v’è stato, ha fondato la città ed ha eretto una cinta muraria sul Palatino. Certamente vi sono elementi mitistorici e propagandistici elaborati dalla storiografia romana, ma il fatto che si attribuiscano determinate riforme al primo re significa che per i romani, ideologicamente, esse erano importanti e che erano intenzionati a promuoverle;

2 - Vedansi gli atti del convegno “Il pitagorismo in Italia ieri e oggi”, Università La Sapienza di Roma, 2005.

Giuseppe Barbera, archeologo e presidente dell’Ass. Tradizionale Pietas

L'articolo Reddito di cittadinanza: un progresso antico! – Giuseppe Barbera proviene da EreticaMente.


Il dio Castor a Roma: forma, funzione e culto – Claudia Santi

$
0
0

Alle Idus di luglio del 484 a.C., il duumvir A. Postumius Albus Regillensis (1), dedicò nel Foro di Roma un imponente tempio che commemorava la battaglia del lago Regillo (2), combattuta e vinta da suo padre, il dictator Aulus Postumius (3), contro il rex Tarquinius, il suo seguito di fuorusciti e la Lega dei popoli Latini. Circa questa battaglia, le fonti riportano due versioni: Dionisio di Alicarnasso narra l'apparizione miracolosa sul campo di battaglia di due cavalieri sovraumani, a fianco e a sostegno dei Romani:

ἐν ταύτῃ λέγονται τῇ μάχῃ, Ποστομίῳ τε τῷ δικτάτορι καὶ τοῖς περὶ αὐτὸν τεταγμένοις ἱππεῖς δύο φανῆναι, κάλλει τε καὶ μεγέθει μακρῷ κρείττους, ὧν ἡ καθ᾽ἡμᾶς φύσις ἐκφέρει ἐναρχόμενοι γενειᾶν, ἡγούμενοί τε τῆς Ῥωμαικῆς ἵππου καὶ τοὺς ὁμόσε χωροῦντας τῶν Λατίνων παίοντες τοῖς δόρασι καὶ προτροπάδην ἐλαύνοντες (4). Si dice che in quella battaglia a Postumius e ai soldati schierati con lui apparvero due giovani a cavallo di gran lunga superiori per bellezza e statura a quelli che produce la natura umana, giovani che cominciavano a mettere la barba, che comandavano la cavalleria romana e che galoppavano insieme, colpendo i Latini con la lancia e cavalcando in prima fila.

Dionisio aggiunge che, la sera stessa della battaglia, due bellissimi giovani in tenuta militare e con i segni del combattimento sostenuto, furono visti presso la fonte nei pressi del tempio di Vesta e annunciarono la vittoria sui Latini ai cittadini Romani ancora ignari (5). Si ritenne perciò che i giovani cavalieri apparsi durante e dopo la battaglia fossero i Dioscuri Castor (gr. Kastor) e Pollux (gr. Polydeukes), i divini gemelli figli di Zeus (6). È opinione comune che l’epipháneia dei Dioscuri presso la fonte sia raffigurata sul denarius commemorativo della battaglia coniato dai Postumii nel 96 a.C.(7). Livio presenta una versione del tutto differente e narra che il dictator A. Postumius, nel momento più difficile della battaglia combattuta presso il lago Regillo, votò un tempio a Castor, se l’esito fosse stato favorevole ai Romani:

Tum ad equites dictator advolat, obtestans ut fesso iam pedite descendant ex equis et pugnam capessant. Ibi nihil nec divinae nec humanae opis dictator praetermittens aedem Castori vovisse fertur ac pronuntiasse militi praemia. Hoc modo ad lacum Regillum pugnatum est (8). Allora il dittatore, essendo i fanti ormai sfiniti, vola in direzione dei cavalieri, li invita a smontare da cavallo e a gettarsi nella mischia. (…) Si dice che allora A. Postumius, non trascurando nessun aiuto né divino né umano, votò un tempio a Castor e promise dei premi per i soldati. Così si combatté al Lago Regillo.

Le due versioni, distanti e inconciliabili, hanno determinato nel tempo un'incertezza circa l'originaria denominazione del tempio, che, negli autori moderni, è spesso chiamato alla maniera greca "tempio dei Dioscuri"(9), o alla maniera del latino imperiale "tempio dei Castores"(10). A complicare ulteriormente la questione, si aggiunge il fatto che il vetusto tempio del Foro fu nuovamente dedicato questa volta a Pollux e Castor da Tiberio a nome proprio e del defunto fratello Druso, il 27 gennaio del 6 d.C., dopo il restauro disposto da Augusto (11). In realtà, i più antichi documenti letterari ed epigrafici dimostrano che in origine e almeno fino al I sec. a.C. la denominazione ufficiale del tempio del Foro fu aedes Castoris. In questo modo il tempio è ricordato in diversi documenti ufficiali contenenti le deliberazioni del senatus: nel testo della lex Bantia (133-118 a.C.), PRO AEDE CASTORVS (sic) (12) “davanti al tempio di Castor” e nel senatus consultum de Tiburtibus, trasmesso dal praetor L. Cornelius Lentulus Lupus, console nel 56 a.C.: SVB AEDE KÁSTORVS (sic) (13) “ai piedi del tempio di Castor”; altre cinque iscrizioni di epoca repubblicana provenienti da Roma contengono l’indicazione: POST AEDEM CASTORIS “dietro il tempio di Castor” (14). Anche il testo latino delle Res gestae divi Augusti identifica il tempio nel Foro come aedes Castoris:

FORVM IVLIVM ET BASILICAM QVAE FVIT INTER AEDEM CASTORIS ET AEDEM SATVRNI, COEPTA PROFLIGATAQVE OPERA A PATRE MEO, PERFECI (15). Ho portato a termine la costruzione del Foro Giulio e della Basilica, che si trova tra il tempio di Castor e il tempio di Saturnus, opere iniziate e portate avanti da mio padre.

Tra gli autori latini, Plauto attesta nella commedia Curculius, che il tempio si chiamava aedes Castoris (16), forma che si ritrova, con un'unica eccezione, anche in Cicerone (17). Le testimonianze epigrafiche e letterarie sembrano avvalorare perciò la versione liviana del votum del tempio a Castor, forma romana del dioscuro Kástor, che a Roma avrebbe ricevuto un culto da solo, senza il fratello Pollux (=Polydeúkes). A queste testimonianze epigrafiche e letterarie, si possono accostare due serie monetali coniate tra il 275-270 a.C. (18): su questi tipi è raffigurata la testa di profilo di una figura maschile giovane, imberbe, con folta capigliatura, che indossa il πῖλος , il copricapo di feltro (19) a forma conica caratteristico degli opliti spartani (20). Secondo l’autore antiquario Festo, i Romani attribuirono, fin da tempi assai remoti, il pîlos (lat. Pilleum -21) ai Dioscuri, mutuandolo proprio da Sparta:

Pillea Castori et Polluci dederunt antiqui quia Lacones fuerunt, quibus pilleati pugnare mos est (22). Gli antichi attribuirono il pilleum a Castor e Pollux, perché essi erano Spartani e per gli Spartani era costume tradizionale combattere indossando il pilleum.

Il pilleum dioscurico era perciò per i Romani un elmo, l'attributo caratteristico di una divinità di origine greca, che aveva a livello teologico collegamenti funzionali con l'arte della guerra. L’iconografia di questi tipi monetali, del tutto simile a quella del denarius dei Postumii, porta, a nostro giudizio, alla conclusione che il giovane dio raffigurato sulle monete non possa che essere il "dioscuro" Castor, destinatario, secondo Livio, del votum pronunciato dal dictator A. Postumius al culmine della battaglia presso il lago Regillo.

* * *

Se il votum magistratuale formulato dal dictator Aulus Postumius sul campo di battaglia poteva proporre l'introduzione di Castor nel pantheon dell'Vrbs, era tuttavia necessaria un'opera di riplasmazione, perché il dio di origine greca si integrasse in maniera coerente nel sistema teologico romano. Un segno di questo processo di romanizzazione-degrecizzazione può cogliersi nella "solitudine" di Castor, ovvero nell'indifferenza a livello ufficiale nei confronti della figura di Pollux. Tra l'VIII e il V sec. a.C., ovunque, in Grecia, in Sicilia, in Etruria, presso i Latini ed i popoli italici i divini gemelli figli di Zeus erano venerati insieme. A Sparta, i Dióskouroi erano onorati, insieme alla sorella Heléne, con il rito della theoxénia (23), un banchetto rituale in cui si offrivano vivande alle statue degli dei, a scopo propiziatorio e/o espiatorio (24); lo stesso rito era celebrato annualmente nel Pritaneo di Atene (25), nell’isola di Paro (26), e con ogni probabilità nell'isola di Rodi, fin dal V sec. a.C.(27). Sappiamo che ad Agrigento era dedicato ai Dióskouroi il rito della theoxénia (28); da Megara Iblea proviene il graffito mutilo su olpe protocorinzia databile al VII sec. a.C., che presenta un riferimento ai Dióskouroi (29). Infine, scavi effettuati alla fine degli anni '80 nel territorio di Lentini hanno portato alla luce una ricca stipe votiva, riferibile a un santuario dei Dióskouroi, con materiale datato tra la fine del VII a.C. e tutto il V sec. a.C. (30). In Etruria, si hanno testimonianze del culto dei Tinas cliniiaras «figli di Tinias», omologhi dei Διὸς κοῦροι «figli di Zeus» (31), data la certa corrispondenza a livello teologico tra Tinias e Zeus (32). In ambito etrusco, ai figli di Tinas erano offerti lectisternia, banchetti rituali analoghi alla theoxénia greca (33). Sembra probabile, tuttavia, che i Dioscuri etruschi fossero venerati principalmente come divinità psicopompe, come testimoniato dagli affreschi parietali della Tomba del Barone a Tarquinia (V sec. a.C.): sulla parete di fondo, un uomo e un giovinetto offrono una coppa alla defunta, alla presenza di due cavalieri, identificati come i Dioscuri; sulla parete di destra, i Dioscuri recano corone in preparazione delle esequie; nella parete di sinistra, i Dioscuri accolgono la defunta per accompagnarla nell’aldilà (34). A Lavinium, in territorio latino, il culto dei Dioscuri è testimoniato dalla celebre iscrizione di dedica datata alla fine del VI sec. a.C. /inizio V sec. a.C. CASTOREI: PODLOVQVEIQ / VE QVROIS (35) A Castor e Poldouques (36) figli (di Giove). L'ipotesi più probabile è che questa laminetta di dedica fosse apposta sul letto rituale dove i gemelli divini ricevevano le offerte durante il rito del lectisternium (37). Dall’area peligna e dalla regione dei Marsi, provengono le iscrizioni di dedica IOVIOIS PVCLOIS (38) e IOVEIS PVCLES (39), fedeli calchi semantici dell’espressione Διὸς κοῦροι «figli di Zeus». Rispetto a quanto attestato presso gli altri popoli antichi, Roma introdusse un elemento di novità, dividendo la coppia divina dei Dioscuri, accogliendo nel suo sistema religioso solo uno di essi, e respingendo nell'ombra l'altro (40). Le ragioni della dissociazione di Castor da Pollux possono essere individuate nella tendenza generale dei Divine Twins del patrimonio mitico indoeuropeo a separarsi seguendo destini differenti: i gemelli divini, per quanto uniti nel più stretto dei modi, avrebbero regolarmente specializzazioni e talvolta destini differenti, complementari o addirittura opposti (41). Donald Ward, in un articolo intitolato The Separate Functions of the IndoEuropean Divine Twins, ipotizza che i due gemelli, nei miti indoeuropei, possano rappresentare rispettivamente la seconda e la terza funzione della teoria trifunzionale di Dumézil, ossia la funzione guerriera e la funzione di fecondità/fertilità (42). Nel caso di Roma, a suo giudizio, Castor sarebbe espressione della seconda funzione, quella della forza guerriera, Pollux della terza, dei produttori contadini e pastori (43). Accrediterebbe tale teoria, sostiene l’autore, la fortuna maggiore di cui Castor poté godere nel mondo romano (44). Questa ricostruzione si basa soprattutto sulla convinzione che i Romani fossero un popolo dedito principalmente alla guerra; resta indefinito il profilo di Pollux, che non ricevette mai, a quanto sembra, un culto autonomo a Roma, né presenta alcuna connessione cultuale riferibile alla sfera della terza funzione. Per tali ragioni, questa ipotesi non ci sembra pienamente convincente. Resta aperta la possibilità che la dissociazione di Castor da Pollux sia una conseguenza del processo di demitizzazione che interessò la religione romana a partire dall'istaurazione della res publica (509 a.C.). L'amiticità della religione romana era già stata notata da G. Wissowa che a propositò concluse che: «La religione romana non conosce ἱεροὶ λόγοι, nessun matrimonio tra divinità, nessun figlio di divinità, nessun mondo di eroi, che faccia da ponte tra divinità e umanità, in una parola non ha una mitologia» (45). Successivamente, C. Koch pose il processo di demitizzazione in rapporto con l’istituzione della res publica e ne analizzò gli sviluppi, in relazione alla teologia di Iuppiter. Nella teologia di Roma repubblicana Iuppiter Optimus Maximus era chiamato a rappresentare, come sottolinea C. Koch, l’idea religiosa di res publica (46), ed era espressione divina di una sovranità non attribuita ad una gens o ad un ordo, ma comune all'intera civitas. Perciò, Iuppiter Optimus Maximus, nel sistema religioso di Roma repubblicana, non si trovava al vertice di alcuna generazione degli dei né era destinatario del culto privato di alcun gruppo gentilizio, in qualità di capostipite o di antenato (47). Per questo, la coppia divina dei Dioscuri figli di Zeus non poté essere semplicemente tradotta in una forma corrispondente, come abbiamo visto testimoniato in Etruria, tra i Latini e le popolazioni italiche, ma subì una riplasmazione demitizzante che comportò l’accoglimento di una solo delle due figure divine depurata dalla presenza di ogni legame genealogico, e la rimozione selettiva dell’altra. Contestualmente, Castor assunse, nella teologia e nella liturgia di Roma, una fisonomia in parte diversa, che non coincideva più con l’originale modello greco. In Grecia, Magna Graecia e Sicilia, le testimonianze su esposte fanno pensare che i Dioscuri fossero venerati attraverso il rito della theoxénia e che avessero principalmente la funzione di divinità salvatrici in tutti i campi: già Terpandro (prima metà del VII secolo a.C.) celebra i Dióskouroi come salvatori: Ὠ Ζανός καί Λήδας κάλλιστοι σωτήρες (48) O nobili figli di Zeus e di Léde salvatori. Si credeva che essi soccorressero chiunque si trovava in difficoltà, ma in special modo recassero aiuto ai naviganti (49). A Roma, l'introduzione del culto di Castor fu offerta da un episodio della guerra contro il re Tarquinius e la Lega dei popoli Latini, da cui dipese la salvezza della giovane res publica. Ottenuta la vittoria grazie alla ops divina di Castor, nel sistema teologico romano si stabilì la connessione rituale del dio 'salvatore' con il corpo della cavalleria dell'esercito romano. Di fatto, a Roma, Castor non fu inserito tra le divinità destinatarie del rito espiatorio del lectisternium (50); l’unico omaggio che il dio riceveva nel calendario liturgico romano, gli era tributato durante la transvectio equitum, la processione rituale dei cavalieri celebrata ogni anno idibus Quinctilibus, alle Idi di luglio, giorno in cui si svolse la battaglia del lago Regillo e dies natalis del tempio nel Foro (51).

La solenne sfilata dei giovani soldati a cavallo partiva dal tempio di Mars (52) a Porta Capena, toccava il tempio di Castor nel Foro, per concludersi al tempio di Iuppiter Optimus Maximus sul Campidoglio. La gioventù romana sfilava in assetto di battaglia su cavalli bianchi coronata d’ulivo indossando la trabea, l’abito tradizionale dei cavalieri, e offriva uno spettacolo di energia e vigore, solennità e dignità. La cerimonia è vivacemente descritta da Dionisio:

ὑπὲρ ἅπαντα δὲ ταῦτα ἡ μετὰ τὴν θυσίαν ἐπιτελουμένη πομπὴ τῶν ἐχόντων τὸν δημόσιον ἵππον, οἳ κατὰ φυλάς τε καὶ λόχους κεκοσμημένοι στοιχηδὸν ἐπὶ τῶν ἵππων ὀχούμενοι πορεύονται πάντες, ὡς ἐκ μάχης ἥκοντες ἐστεφανωμένοι θαλλοῖς ἐλαίας, καὶ πορφυρᾶς φοινικοπαρύφους ἀμπεχόμενοι τηβέννας τὰς καλουμένας τραβέας, ἀρξάμενοι μὲν ἀφ᾽ ἱεροῦ τινος Ἄρεος ἔξω τῆς πόλεως ἱδρυμένου, διεξιόντες δὲ τήν τ᾽ ἄλλην πόλιν καὶ διὰ τῆς ἀγορᾶς παρὰ τὸ τῶν Διοσκούρων ἱερὸν παρερχόμενοι, ἄνδρες ἔστιν ὅτε καὶ πεντακισχίλιοι φέροντες, ὅσα παρὰ τῶν ἡγεμόνων ἀριστεῖα ἔλαβον ἐν ταῖς μάχαις, καλὴ καὶ ἀξία τοῦ μεγέθους τῆς ἡγεμονίας ὄψις (53). Soprattutto c’è la parata che si svolge dopo il sacrificio da parte di coloro che possiedono un cavallo pubblico, che ordinati per tribù e centurie procedono per file tutti a cavallo, come se tornassero dalla battaglia, coronati di rami d’ulivo e con indosso la toga orlata di porpora che chiamano trabea, partendo da un tempio extraurbano di Mars, attraversando il resto della città e il Foro fino a giungere al tempio dei Dioscuri, nel numero anche di cinquemila, portando con sé le onorificenze ricevute in battaglia, sublime e degno spettacolo della grandezza del loro potere.

È fortemente probabile che la transvectio equitum fosse, come suggerito da S. Weinstock, un’arcaica cerimonia religiosa, istituita quando fu inaugurato il tempio del Foro (54): un ulteriore argomento a favore dell’arcaicità della transvectio, sarebbe, come osservato da A. Momigliano, la distribuzione dei cavalieri durante l’esecuzione del rito in sei turmae, tante quante erano le più antiche centurie di cavalieri di Roma (55). Il legame di Castor con gli equites appare, nella religione romana, un elemento funzionale e sistemico: in assenza di un sacerdozio dedicato a Castor, i cavalieri vennero a rappresentare in qualche modo l’agente rituale del culto del dio. I soldati a cavallo che sfilavano davanti alla sede templare di Castor nel Foro in tenuta militare, coronati di rami d’ulivo e con le onorificenze ricevute in battaglia erano l’unica parte del corpus civico di Roma chiamata a rendere omaggio al dio, il che esplicita e conferma la connessione di Castor sia con la sfera della guerra sia con i cavalli. Questa connessione rituale e funzionale di Castor con i cavalli può essere fatta risalire, a nostro giudizio, tanto all’ambiente greco quanto all’eredità indoeuropea. In Grecia, Kástor è presentato come abile domatori di cavalli già in Omero, rispetto al fratello Polydeúkes, forte nella lotta (56). Nel Ṛg Veda, cinquantasette inni sono dedicati agli Aśvína(u), due gemelli dívo napātā «figli di Dyauṣ Pitā(r)» (57) (il corrispettivo a livello linguistico e funzionale di Zeus in Grecia e di Iuppiter a Roma 58), che derivano il loro nome dal skr. áśva 'cavallo' (59). Come per gli altri gemelli divini, il mito ricorda anche una loro nascita separata (60); nonostante gli Aśvína agiscano come benevole divinità pacifiche, salvatrici e guaritrici, gli epiteti Indratamā «Simili a Indra» (61), Vṛtrahantamā «Simili all’Uccisore di Vṛtra (= Indra)» (62), e Marutamā «Simili ai Marut» (63) attribuiti loro mostrano la tendenza ad accostarli alla sfera di Indra, il supremo reggitore degli dei e il dio-guerriero del pantheon vedico (64). Nel caso di Castor romano, la liturgia mantenne la connessione con il cavallo mutuata dalla mitologia greca e/o dal partimonio mitologico indoeuropeo, ma in maniera originale la caratterizzò in senso esclusivamente “statale” e militare: nella transvectio equitum non sfilavano cavalli da trasporto o da lavoro, né nobili palafreni da parata, ma equi publici, cavalli da guerra di proprietà della res publica assegnati a cittadini Romani, perché li mantenessero, ne avessero cura e li usassero in battaglia. Per completare il profilo teologico di Castor, bisogna considerare che la cerimonia della transvectio equitum era celebrata anche in onore di Mars, dal cui tempio partiva la sfilata–processione, e di Iuppiter Optimus Maximus, davanti al cui tempio si concludeva: queste sono le uniche due figure divine con le quali Castor a Roma presenti una qualche connessione rituale certa e è a partire da questi legami cultuali che si deve completare la ricostruzione del profilo teologico di Castor a Roma. Nel rito della transvectio equitum, l’omaggio a Castor, reso attraverso la sosta del corteo dei cavalieri armati davanti al suo tempio nel Foro, cadeva all’incirca a metà del percorso processionale e veniva a costituire, perciò, il momento centrale della cerimonia. Letto in funzione teologica, il linguaggio rituale sembra suggerire che la figura divina di Castor partecipasse tanto della funzione guerriera di Mars quanto della funzione sovrana di Iuppiter Optimus Maximus; se vogliamo riprendere il linguaggio duméziliano, possiamo dire che Castor sembra partecipare della prima funzione della sovranità e della seconda funzione della forza guerriera. Della seconda funzione duméziliana, Castor sembra interpretare un aspetto particolare: egli non rappresenta il carattere tecnico della guerra, che è prerogativa di Mars, né dispensa la venia, il favore elargito senza meriti, che rientra invece nella sfera d’azione di Venus (65), ma assicura il suo soccorso, e, attraverso esso, la vittoria e la salus rei publicae. È, in definitiva, quanto ci dicono le fonti che, pur divergendo nelle modalità, convergono nell’affermare che presso il lago Regillo la vittoria fu determinata dall’aiuto che l’esercito ricevette dal dio: ops divina per Livio, epipháneia per Dionisio. Per tutta l’epoca repubblicana, Castor non ebbe epiclesi: si sarebbe potuto dire Servator o Sospes (66) ‘Salvatore’, epiclesi che ben si sarebbero adattate ad una divinità come Castor che sembra legarsi alla sfera militare in maniera del tutto particolare, garantendo con il suo soccorso la vittoria e, come conseguenza, la salus rei publicae. Se nessuna epiclesi fu mai attribuita al dio Castor, ciò sta a significare, a nostro giudizio, che la sua figura svolgeva un’unica funzione, e che il dio interveniva in un unico campo d'azione. La sua funzione non è una funzione di soccorso indiscriminata a chiunque si trovi in pericolo, come era per gli Ashivina(u) in India e per i Dióskouroi in Grecia, ma sembra specializzarsi in ambito militare: Castor fu chiamato a soccorrere l’esercito di Roma quando si trovò in difficoltà in battaglia. Una valenza di questo tipo, però, non può essere il risultato di una totale innovazione, ma deve mettere in atto o ri-attualizzare delle potenzialità già presenti in origine. Una possibile conferma può venire dalla comparazione con l’India vedica: anche in questo contesto, gli Aśvína, divinità che portano soccorso e salvezza, risultano per certi aspetti attratti nella sfera del dio-guerriero Indra (67). Dunque, la forma romana di Castor, più che da antecedenti greci, può, in questo caso, essere trovare un corrispondente nella mitologia vedica, dove i divini gemelli Aśvína erano rappresentati come cavalieri, soccorritori, e "guerrieri" vicini anche al dio protagonista della battaglia cosmica contro la figura a-cosmica di Vṛtrà (v. supra p. ). L’intervento di Castor a Roma in funzione della salus rei publicae sembra un elemento noto e riconosciuto anche al di fuori dell’ambiente romano: Strabone riferisce di un’ambasciata inviata dal sovrano macedone Demetrio Poliorcete in cui, il re, lamentandosi della pirateria praticata dalle navi di Antium, per avere una risposta soddisfacente alle proprie richieste, oltre alla comune ascendenza greca, richiamò alla memoria dei Romani il culto dei Diόskouroi Sotêres praticato da entrambi i popoli.

Δημήτριος ὕστερον, τοὺς ἁλόντας τῶν λῃστῶν ἀναπέμπων τοῖς Ῥωμαίοις, χαρίζεσθαι μὲν αὐτοῖς ἔφη τὰ σώματα διὰ τὴν πρὸς τοὺς Ἕλληνας συγγένειαν, οὐκ ἀξιοῦν δὲ τοὺς αὐτοὺς ἄνδρας στρατηγεῖν τε ἅμα τῆς Ἰταλίας καὶ λῃστήρια ἐκπέμπειν, καὶ ἐν μὲν τῇ ἀγορᾷ Διοσκούρων ἱερὸν ἱδρυσαμένους τιμᾶν οὓς πάντες σωτῆρας ὀνομάζουσιν, εἰς δὲ τὴν Ἑλλάδα πέμπειν τὴν ἐκείνων πατρίδα τοὺς λεηλατήσοντας (68). Poi Demetrio rimandando ai Romani i pirati catturati disse che faceva loro il favore di restituirli per la consanguineità tra i Romani e i Greci, ma di non ritenere giusto che gli stessi uomini avessero il comando dell’Italia e praticassero la pirateria, e che i Romani avendo innalzato nel Foro un tempio ai Dióskouroi venerassero quegli dei che tutti chiamavano Salvatori, e poi mandassero in Grecia che era la patria dei Dióskouroi dei pirati a depredarla.

Demetrio è un sovrano ellenistico e reinterpreta alla maniera greca, ma ci offre comunque una testimonianza dell’immagine che il culto di Castor doveva proiettare all’esterno, e di come esso era percepito al di fuori dei confini di Roma. Per quanto riguarda la funzione della sovranità, anche di essa Castor dovrebbe rappresentare una declinazione particolare: la ricorrenza del dies natalis del suo tempio e la celebrazione della transvectio equitum alle Idi di Luglio lasciano intravedere la prossimità di Castor alla sfera di Iuppiter, dal momento che le luminose Idus, collocate alla metà del mese, in coincidenza con il plenilunio, al vertice della lunazione, erano dedicate tutte a Iuppiter, come espressione simbolica della sua sovranità cosmica (69). Il dio Castor rimase sempre uno straniero, che portava un nome greco (70) e indossava il pîlos spartano, ma ciò non impedì che diventasse un grande dio nazionale. Castor fu, dunque, una divinità salvatrice, ma la sua ops divina, richiesta dal dictator A. Postumius e benevolmente accordata dal dio, fu unicamente di carattere militare (71): per inserirsi coerentemente nel sistema religioso romano, il dio 'cavaliere' Castor fu separato da suo fratello, il lottatore Pollux, e si specializzò come garante della salus rei publicae assicurata dalla supremazia delle armi di Roma.

Note:
1 Il praenomen di questo magistrato è registrato anche nella forma Spurius, cfr. Broughton 1968: 22; l’identità dell’altro duumvir aedi dedicandae è ignota.
2 Liv. II.42.5; Broughton 1968: 22.
3 Broughton 1968: 10-11.
4 Dion. Hal. VI.13.1; all'apparizione di Castor e Pollux accenna già Cic. nat deor. II.5-6; questa versione, con varianti, è anche in Plut. Cor. 3.4; cfr. Plut. Aem. 25.1; Aur. Vict. vir. ill. 16.1-3; Flor. Ep. 1.5.4.
5 Dion. Hal. VI.13.2.
6 I Διόσκουροι «figli di Zeus», Kástor (Κάστωρ) e Polydeúkes (Πολυδεύκης), appartengono allo strato più antico della religione ellenica. Il nome Kástor nella forma al gen. Ka-to-ro compare già nelle tavolette micenee, KN Dq(4) 438.b e 686.b; KN L(4) 489; KN Do 1054b e 7613.b; KN Dv 1169.B; 5287.b; l’iscrizione rupestre Διόσϟοροι da Thera IG XII 3, 359, attesta che alla fine del sec. VIII o agli inizi del sec. VII a.C. le due divinità erano già venerate come figli di Zeus.
7 RRC 335/10°
8 Liv. II.20.12-13; Ogilvie 1965: 288-289.
9 Il teo-patronimico Dioscuri non fu mai tradotto in latino; nei contesti latini in cui i due divini gemelli compaiono insieme sono sempre chiamati con i loro nomi individuali; Meister 1916: 116.
10 Questa denominazione è da ritenersi anacronistica dal momento che, allo stato attuale della documentazione, la forma collettiva Castores per indicare Castor e Pollux non si rinviene prima di Plinio il vecchio, Plin. N.H. I.1 (con riferimento alla costellazione); VII.22.86; X.9.121 e XXXIV.11.23 (con riferimento al tempio); XXXV.10.27; SHA Max. 16.1 (con riferimento al tempio); SHA Valer. V.4 (con riferimento al tempio); Not. Reg. VIII.23; Chron. 13b
11 Helm; cfr. Meister 1916: 117. 11 Suet. Tib. 20; Ov. Fast. I, 707-708; Dio Cass. LV, 27, 4; il testo dell’iscrizione di dedica è stata ricostruito da Géza Alföldi, Alföldi 1992: 51; ampia discussione in Santi 2017: 127-133.
12 CIL I2.581 r. 17.
13 CIL XIV 3584.
14 CIL VI 363; CIL VI 9177; CIL VI 9872; CIL VI 10024; TLLE 130. Il corpus epigrafico si completa con le iscrizioni CIL V 8119; ILS 8636: EXACTUM AD CASTORIS AEDEM apposte su pesi, la cui misura era stata verificata confrontandola con i pesi-campione custoditi nel tempio del Foro.
15 RGDA 20. Nel testo greco delle Res gestae divi Augusti, il tempio in questione è indicato secondo la forma greca. ναòς τῶν Διοσκόρων RGDA 20.
16 Pl. Curc. 48: pone aedem Castoris.
17 Nelle orazioni di Cicerone si incontrano numerosi riferimenti al tempio nel Foro, dal momento che il santuario nel tempo aveva assunto una funzione politica sempre più marcata; in tutti i casi, con un’unica eccezione, Cicerone usa l’espressione aedes Castoris o templum Castoris: Cic. pro Quinct. 4: ad Castoris (scil. aedem); contra Pis. 5: in templo Castoris e 10 in templum Castoris: pro Mil. 7: in templo Castoris; Phil. III, 11; nelle Verrine, i riferimenti all’aedes Castoris sono sette: Cic. Verr. II.1.129: in aede Castoris, celeberrimo clarissimoque monumento; 130: aedem Castoris; 131: aedem Castoris; 132: aedem Castoris; 133: in aedem Castoris; 154: aedem Castoris; Cic. Verr. II.3.41: aedem Castoris; ad Quinct fratr. II, 3: in templo Castoris; dom. 21: in aedem Castoris e 42: in templum Castoris; har. resp. 13: in aede Castoris; pro Sext. 15: templo Castoris; contra Vat. 13.31: in templum Castoris; il riferimento a Castor e Pollux è in Cic. Verr. II.5.186: vosque, omnium rerum forensium, consiliorum maximorum, legum iudiciorumque arbitri et testes celeberrimo in loco populi Romani locati, Castor et Pollux, quorum e templo quaestum iste sibi et praedam improbissimam comparavit.
18 RRC 18/5.
19 Il termine πῖλος in origine definiva il feltro; progressivamente passò a significare l'indumento realizzato con questo materiale: l'estensione metonimica e già testimoniata in Hom. Il. X.265 ed in Hes. Op.545-546.
20 Già Omero testimonia l’uso di indossare in battaglia un copricapo di feltro sotto l’elmo a protezione del capo, Hom. Il. X.265. Verso la fine del VI sec. a.C., negli eserciti oplitici cominciò ad essere adottato un tipo di elmo in bronzo che replicava la foggia dell’originario berretto di feltro e perciò era detto pîlos, Arr. Tact. III, 5; Poll. I, 149; Cartledge 1977. Sembra che i primi opliti che ebbero in uso questo tipo di elmo, che garantiva una buona visuale su tutti i lati, siano stati gli opliti spartani, Anderson1970: 30-31.
21 Il termine lat. pilleum è un prestito dal greco. Negli autori latini, si registrano le varianti grafiche pileus/pilleus, e le oscillazioni di genere pilleus/pilleum; la forma pilleum tende nel tempo ad affermarsi sulla forma pileus che è la più vicina al greco pîlos e con ogni probabilità anche la più antica.
22 Fest. 225L. L’iconografia del dioscuro in Roma sembra essersi fissata in modo stabile già in tempi arcaici, cfr. Gury 1986: 628.
23 Eur. Hel..1666-1670.
24 Hesych. s.v. θεοξένια. κοινὴ ἑορτὴ πᾶσι τοῖς θεοῖς; Bruit 1989, 13-25.
25 Athen. IV.137e; sulla theoxénia ateniese, cfr. Shapiro 1999: 100-101.
26 IG XII.5.129.
27 Una scena di theoxénia in onore dei Dióskouroi è raffigurata sulla lékythos da Kameiros, nell’isola di Rodi, esposta al British Museum e datata intorno al 500 a.C.: le due divinità sono rappresentate su cavalli neri nell’atto di scendere dal cielo per prendere parte al banchetto allestito in loro onore, Smith 19202: 49 e fig. 32.
28 Pind. Ol.III.
29 Guarducci 1986-1988.
30 Rizza 2003.
31 Questa espressione compare nella dedica su dedica kýlix a firma di Oltos e del vasaio Euxitheos, esposta al Museo di Tarquinia e databile al 510 a.C.: ITUN TURUCE VENEL ATELINAS TINAS CLINIIARAS Questo dedicò Venel Atelinas ai figli di Tinias, TLE 156; Ribezzo 1931.
32 Dumézil 19742: 658.
33 Cfr. l'affresco raffigurante la theoxénia celebrata in onore dei gemelli divini nella Tomba del Letto funebre (470-460 a.C.) a Tarquinia, Poulsen 1922: 41-43.
34 Poulsen 1922: 20-21.
35 Castagnoli 1959; Castagnoli 1983; Weinstock 1937.
36 La metatesi consonantica dl > ld è ritenuta un errore di grafia, cfr. Urbanova 1996: 28.
37 Guarducci 1951: 99-103, tav. 21; Guarducci 1976; Le Bonniec 1976.
38 Dell’iscrizione Letta-D’Amato 1975 n.120, impressa su un pilastrino di calcare, probabilmente la base di un’offerta votiva, rinvenuta presso Orticchio, rimangono due frammenti; il testo su due linee con andamento dall’alto verso il basso è stato persuasivamente integrato da C. Letta in questo modo: PE(TRO) VIP(I)O(S) PO(PLI) F(ILIOS) IOVE IOVEIS PVCLE(S), Letta-D’Amato 1975: 176-178.
39 La dedica votiva incisa su una lamina stata rinvenuta nel territorio di Sulmona è andata perduta; il testo è edito in Ve 202; cfr. Ve 204.
40 Dumézil 19742: 415: " A Rome au contraire, tout rapport avec Jupiter est rompu et, si Pollux demeure dans l'ombre de son frère, c'est celui-ci, le cavalier Castor, qui a pris possession du sol et du culte".
41 Dumézil 1968: 76-89; Dumézil 19742: 182; Dumézil 1994.
42 Ward 1970.
43 Ward 1968: 20-24.
44 Ward 1968: 23.
45 Wissowa 19122: 8: «Die römische Religion kennt keine ἱεροὶ λόγοι, keine Götterehen und Götterkinder, keine Heroenwelt, die zwischen Gottheit und Menschheit die Brücke schlägt, sie hat mit einem Worte keine Mythologie».
46 Koch 1937, 126
47 Koch 1937: 51; 121-134
48 Terp. fr. 4Bergk.
49 Hom. Hymn. XXXIII.6-7 σωτῆρας (…) ἐπιχθονίων ἀνθρώπων/ὠκυπόρων τε νεῶν salvatori degli uomini che vivono sulla terra, e delle rapide navi; Ayneptos 1982-1983
50 Per i lectisternia repubblicani, cfr. Nouilhan 1989; Santi 2008: 50-51 e 139-141; per l’esclusione di Castor dai lectisternia, cfr. Santi 2017: 90-91.
51 Questa data sembra confermare l’introduzione del culto legata ad un episodio militare, dal momento che la guerra, in età arcaica, si combatteva solo durante la buona stagione, da marzo ad ottobre.
52 In epoca più recente la parata prendeva avvio dal tempio di Honos e Virtus, de vir. ill. XXXII.3.
53 Dion. Hal. VI, 13, 4; l’iconografia della transvectio equitum è studiata in Veyne 1960.
54 Weinstock 1937.
55 Momigliano 1989: 251.
56 Cfr. Dumézil 19742: 415.
57 ṚV 1.117.12b; Macdonell 1898: 51; cfr. anche Zeller 1990; Nikolaev 2012.
58 Cfr. Eliade 1978: 189.
59 Grassman 1873: 140. La connessione con il cavallo è tuttavia variamente interpretata: Macdonell 1898: 50 e 53, afferma che il nome Aśvína implica solo il possesso di cavalli, e non la qualità di cavalieri; per Griswold 19992: 104, il significato di Aśvína sarebbe «Two Horsemen», ṚV 7.068.01a; Parpola 2004-2005: 1-63, pur ammettendo che gli Aśvína fossero in origine cavalieri, enfatizza molto il carattere storico e simbolico del ruolo di guida del carro che, a suo giudizio, sarebbe stato assegnato loro dalla tradizione successiva.
60 ṚV 5.073.04c: nānā jātāv = nati separatamente; Macdonell 1898: ibid.
61 ṚV 1.182.02a
62 ṚV 8.008.22b-8.008.22c: aśvinā púrutrā v trahantamā; Macdonell 1898: 51.
63 ṚV 1.182.02a; secondo G. Dumézil, i Marut sono espressione della seconda funzione, Dumézil 19742: 221-222.
64 Per la figura di Indra, cfr. Macdonell 1898: 55-63.
65 Per il concetto di venia come qualcosa di elargito dalla divinità e conseguito senza sforzo e senza merito, cfr. Schilling 1954: 39-42; Dumézil 1969: 246-252.
66 Il significato di Sospes, antichissimo termine della religione di Roma, anche nella forma femminile Sospita, epiclesi di Iuno che ne esprime l’aspetto «guerriero», non è interamente chiaro, Radke 1965: 288-289.
67 Cfr. Griswold 19992: 263.
68 Strabo V.3.5.
69 Per il rapporto Iuppiter-Idus, cfr. Brelich 1972.
70 Varro L.L. V.73: Castoris nomen Graecum. In latino il teonimo Castor presenta anche l’accusativo in –a proprio della declinazione dei sostantivi greci: cfr. Prop. I.2.15: non sic Leucippis succendit Castora Phoebe.
71 Perciò il dio, al contrario di quanto documentato in Grecia, Magna Graecia, Sicilia e presso i Latini e gli Etruschi non figura tra le divinità destinatarie del rito del lectisternium.

Bibliografia
Alföldi, G. 1992: ‘L’iscrizione dedicatoria del tempio dei Castori risalente all’anno 6 d.C.’, in Studi sull’epigrafía augustea e tiberiana di Roma, Roma, 39-58 Anderson, J.C. 1970: Military Theory and Practice in the Age of Xenophon, Berkeley Ayneptos, N.F. 1982-1983: ‘The Dioscuri as Protectors of the Navy’, Platon 3435, 23-48 Brelich, A. 1972: ‘Iuppiter e le Idus’, in Bergman B.-Drynjeff K.-Ringgren H. (eds.)), Ex orbe religionum. Studia Geo Widengren oblata, I, Leiden, 299-306 Broughton, T.R.S.1968 (2 ed.): The Magistrates of the Roman Republic, I, New York Bruit, L. 1989: ‘Les dieux aux festins des mortels: Théoxénies et xeniai’, in Laurens 1989: 13-25. Cartledge, P.A. 1977: ‘Hoplites and Heroes: Sparta’s Contribution to the Technique of Ancient Warfare’, JHS 97, 11-27. Castagnoli, F. 1959: ‘Dedica arcaica laviniate a Castore e Polluce’, SMSR , 109-117; Castagnoli, F. 1983: ‘L'introduzione del culto dei Dioscuri nel Lazio’, StudRom 31, 4-12 Dumézil, G. 1968: Mythe et épopée, I, L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris Dumézil, G. 1969: Idées romaines, Paris Dumézil, G. 1974 (2 ed.): La religion romaine archaïque, avec un appendice sur la religion des Étrusques, Paris Dumézil, G. 1994: Le roman des jumeaux et autres essais. Vingt-cinq esquisses de mythologie (76-100), Paris Eliade, M. 1978: History of Religious Ideas, Volume 1: From the Stone Age to the Eleusinian Mysteries (ed.or. Histoire des croyances et des idées religieuses, tome 1 : de l’age de la pierre aux mystères d’Eleusis, Paris 1976), Chicago Grassman, H. G.: Wörterbuch zum Rig Veda, Wiesbaden Guarducci M., 1986-1988: ‘Epigrafi arcaiche di Siracusa e di Megara Iblea’, ArchClass 38-40, 1-26 Guarducci, M. 1951: ‘Legge sacra da un antico santuario di Lavinio’, ArchCl 3, 99-103.
Guarducci, M. 1976: ‘Nuove osservazioni sulla lamina bronzea di Cerere a Lavinio’, in L'Italie préromaine et la Rome républicaine, I, Mélanges offerts à Jacques Heurgon, Roma, 411-425. Gury, F. 1986: Dioskouroi/Castores, LIMC III, 1, Roma, 608-635 Koch, C. 1937: Der römische Juppiter, Frankfurt a.M. Laurens, A.F. (ed.) 1989: Entre hommes et dieux. Le convive, le héros, le prophète, Paris Le Bonniec, H. 1976: ‘Au dossier de la lex sacra trouvée à Lavinium, in L’Italie préromaine et la Rome républicaine. Mélanges offerts à J. Heurgon, Roma, 509-517 Letta, C.- D’Amato, S. 1975: Epigrafia della regione dei Marsi, Milano Macdonell, A.A. 1898: Vedic Mythology, Strassburg Meister, K. 1916: Lateinesch-griechische Eigennamen, I, Leipzig Momigliano, A. 1966: ‘Procum Patricium’, JRS 56, 16-24 Nikolaev 2012 Nikolaev A., ‘Avestan Haecat.aspa-, Rigveda 4.43, and the Myth of the Divine Twins’, Journal of American Oriental Society 132, 567575 Ogilvie, R.M. 1965: A Commentary on Livy Books 1-5, Oxford. Poulsen F., 1922: Etruscan Tomb Paintings: Their Subjects and Significance, Oxford Radke, G. 1965: Die Götter Altitaliens, Münster Ribezzo F., 1931: ‘I nomi etruschi dei Dioscuri su una oinochoe a figure nere inedita’, RIGI 15, 195-198 Rizza, G. 2003: ‘Scoperta di un Santuario dei Dioscuri a Lentini’, RAL 14, 537-567 Santi, C. 2008: Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, Roma Santi, C. 2017: Castor a Roma. Un dio peregrinus nel Foro, Lugano Schilling, R. 1954: La religion romaine de Vénus depuis les origines jusqu’au temps d’Auguste, Paris Shapiro, H. A. 1999: ‘Cult Warfare: the Dioskouroi between Sparta and Athens ’, in R. Hägg (ed.), Ancient Greek Hero Cult, Stockholm, 99-107 Smith, A.H. 19202: A Guide to the Exhibition Illustrating Greek and Roman Life, London Urbanova, D. 1996: ‘Archaische lateinische Inschriften aus Latium des 6. - 5. Jh. v. Chr.’, SPFFBU 1, 27-34. Ward, D.J. 1968: The Divine Twins: an Indo-European Myth in Germanic Tradition, Myth and Law among the Indo-Europeans: Studies in Indo-European Comparative Mythology, Berkeley-Los Angeles-London Ward, D.J. 1970: ‘The Separate Functions of the Indo-european Divine Twins ’, in J. Puhvel (ed.), Myth and Law among the Indoeuropeans, Berkeley, 193-202 Weinstock S., 1960: ‘Two Archaic Inscriptions from Latium’, JRS 50, 112118
Weinstock, S. 1937: ‘Römische Reiterparade’, SMSR 13, 10-24 Wissowa G., 1912 (2 ed): Religion und Kultus der Römer, München Zeller, G. 199: Die vedischen Zwillingsgötter. Untersuchungen zur Genese ihres Kultes, Wiesbaden

Abbreviazioni
IG XII, 3 = Inscriptiones Graecae, XII, 3. Inscriptiones insularum maris Aegaei praeter Delum, Inscriptiones Symes, Teutlussae, Teli, Nisyri, Astypalaeae, Anaphes, Therae et Therasiae, Pholegandri, Meli, Cimoli, F. Hiller von Gaertringen (ed.), Berlin 1898 KN = Corpus of Mycenaean Inscriptions from Knossos, J. Chadwick, L. Godart, J. T. Killen, J. P. Olivier, A. Sacconi, I. A. Sakellarakis (eds.), 4 voll., Cambridge-Roma, 1986-1998 RRC = Roman Republican Coinage, M.H. Crawford (ed.), Cambridge 1974ṚV = Rig Veda, A Metrically Restored Text, B.A. van Nooten – G.B. Holland (eds.), Harvard Oriental Series 50, 1994 Ve = E. Vetter, Handbuch der italischen Dialekte, Heidelberg 1953.

Prof. ssa Claudia Santi
Università della Campania Luigi Vanvitelli
Dipartimento di Lettere e Beni Culturali

L'articolo Il dio Castor a Roma: forma, funzione e culto – Claudia Santi proviene da EreticaMente.

Classical Renaissance: a new temple dedicated to Apollo is rising (english version)

$
0
0

At the end of the 5th of December 2018 of the vulgar age, the new temple devoted to Apollo is completed in its essential geometry.

This announcement came directly from the leader of Traditional Association Pietas, Giuseppe Barbera. The building is implemented inside a sanctuary at the gates of modern Rome, in the city of Ardea, where the myth set up the clash between the Troyans led by Enea and the Rutuli led by Turnus with the Troyans win upon these latters.

The sanctuary was founded and sacredly inaugurated the day 11th of November 2761 a.V.c. (2018 e.V.) at 11 o'clock. The founding stone was placed following the ancient rite. At the center of the sacred citadel the sacred Temple of Apollo arises (temple built up in less than a month thanks to the work of Pietas Association's volunteers), solar god that join the Greek and the Italic people. It was because of the Delos oracle's will that Enea started his voyage to land in Hesperia (ancient name of Italian peninsula), a promised land for the Troyans that reunited themselves with the homeland of their oldest ancestors. The temple was dedicated to the solar god Apollo, bringer of equilibrium and order, sovereign of harmony and father of Pitagora, by the members of Traditional Association Pietas.

Around the temple there are a welcome center for guests (the B&B "La culla degli Dei"), meeting halls, a gym where to practice arts inherent in the movement of inner energies, an esoteric library with a reading hall and rooms dedicated for refreshment. Flower gardens, fruit trees, green meadows and a pool of brackish water for catharsis decorate the house of Apollo. This sanctuary is a new place of light that comes from the darkness of the contemporary era to bring conscience and wellbeing to pious people, really interested in the rediscovery of that italian sacred world, once considered lost but now recovered. At this temple it will be possible to approach the classical sacredness, to the solar mysteries preserved within and preserved to worthy souls, to obtain oracular consultations and much more. The temple will now have to be decorated, for this reason the president Giuseppe Barbera invites all the people who adhere to the idea of the return of the ancient cult, to register or renew the card to the Traditional Association Pietas to support us in this titanic work. Every form of contribution, such as donations and practical help, is welcome. The temple will be active as early as December, at meetings there will be meetings related to the ancient myths and also here, as at the temple of Jupiter, will be based an headquarter of the Hermetic-Pitagorean Italic Schola, and there the next winter solstice will be celebrated.

Further information on the activities will soon be published on the website www.tradizioneromana.org and through the various official channels of the Traditional Association Pietas.

Another victory of conscience against the mental darkness of the contemporary era.

Signed, the Traditional Association Pietas.

L'articolo Classical Renaissance: a new temple dedicated to Apollo is rising (english version) proviene da EreticaMente.

La fondazione di Roma sui sette colli – Giuseppe Barbera

$
0
0

La fondazione di Roma è uno dei momenti cruciali nella storia dell’occidente se non addirittura in quella dell’umanità intera. Ma Roma non sorge dal nulla: essa è il percorso di un processo sociale che, con la fondazione dell’Urbe, raggiunge un suo apice. (slide 2) Le fonti letterarie antiche menzionano l’esistenza di un agglomerato di villaggi, sui sette colli, appellato Septimontium. Ogni villaggio era una entità politica a sé, con una propria organizzazione. Gli scavi archeologici hanno verificato la presenza di materiali risalenti a questi periodi precedenti, definiti come fasi laziali e vengono collocati cronologicamente dall’epoca del bronzo recente all’inizio dell’età del ferro (dal XII-X secolo a.C. fino all’VIII sec. a.C.). Tra i sette colli vi erano acquitrini e stagni, alimentati dalle continue esondazioni del fiume, mentre sulle vette olografiche si sviluppavano gli abitati umani di genti che vivevano prevalentemente dell’allevamento di ovini e caprini.

Intorno alla metà dell’VIII sec. a.C. si sviluppa la conurbazione tra questi piccoli agglomerati urbani; uno di essi diviene il centro amministrativo di tutti e sette: il Palatino. (slide 3) A ridosso di questo fatto viene costruito un mito: è il processo della miti-storia. Era abitudine degli antichi costruire un mito su di un fatto per potere, nel contempo, mantenere memoria degli eventi ed assieme ad essi trasmettere insegnamenti morali, etici, teologici. Così accadde che, in occasione dell’unione del “Septimontium” in un’unica città, venne innalzato il mito di Roma! Analizzando le raffigurazioni che gli antichi facevano di questo evento, ci è possibile intendere quali fossero gli elementi salienti, che più vennero recepiti dalla diffusione di questo mito.  Un affresco dalla casa di Marco Fabio secondo a Pompei mette in evidenza l’origine divina di Roma, quella di cui scrisse Plutarco: “Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire, agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile”. Questa città venne dunque percepita, nel mondo mediterraneo, come un luogo sacro. Qui il mito vuole che un dio sia sceso dai cieli (il dio Marte) per ingravidare una vergine vestale (Rea Silvia), dalla quale nasceranno due gemelli: Romolo e Remo. Nella teologia classica il dio rappresenterebbe lo spirito umano; la vergine, l’anima purificata; i gemelli il prodotto geniale dell’uomo; il Genius dei Romani corrisponde al Daimon platonico, ne consegue che Romolo è l’aspetto Agothodemonico dell’intelligenza interiore dell’uomo, ovvero lo spirito umano innalzato dall’etica sana; mentre Remo corrisponde al Cacodemone platonico, ovvero lo spirito deperito che deride il sacro e non crede nel suo valore, così come Remo non credette che il rito di fondazione di Romolo avesse valore e violò il solco sacro, per il quale dovette ricevere la punizione della morte: è il simbolo della volontà sana e positiva (Romolo) di abbattere gli elementi negativi (Remo) che vengono partoriti dall’animo umano (Rea Silvia). Sulle tematiche teologiche delle origini di Roma rimandiamo alla lettura di Macrobio (Saturnalia e Commento al Somnium Scipionis) e del lungimirante testo di Elio Ermete, Aspetti esoterici nella tradizione romana gentile . (slide 4)

Il mito del Lupercale mette in evidenza sia l’aspetto teologico romano, sia l’ambiente dei siti dove Roma ebbe origini: boschi, pareti rocciose, fiumi e paludi. In questi luoghi i popoli allevatori si raccolsero sulle cime dei colli, fortezze naturali difese dalle paludi che rallentavano sia predoni che nemici, consentendo agli abitanti di organizzare sempre in tempo le loro difese. (slide 5) Un antico specchio in bronzo proveniente dall’area del lago di Bolsena, oggi al museo Etrusco di Villa Giulia, mette in evidenza un apparato simbolico estremamente significativo, connesso alla fondazione dell’Urbe. Qui vediamo che Romolo e Remo vengono allattati dalla Lupa, simbolo delle energie fauniche, ovvero silvestri e naturali, per la loro crescita, all’ombra del fico ruminale, albero sacro a Mercurio, dio del silenzio e dei misteri “ermetici”. Accanto a lui vi è la ninfa Lara, la ninfa chiacchierona cui Giove strappa la lingua, così come racconta Ovidio nelle sue metamorfosi, trasformandola in ninfa del silenzio. Ciò evince che su Roma si fonda un culto “del silenzio”. Infatti i figli di Lara e Mercurio sono i Lari, spiriti che vengono a vivere nelle case degli umani, cui i Romani tributavano un perenne culto domestico. E difatti Roma ha molti elementi segreti, alcuni dei quali emergono dalle fonti: ad esempio alla città era legato un nome segreto, così come era segreto il nome del nume di Roma: il Romano che lo avrebbe svelato pubblicamente sarebbe stato appeso a testa in giù, per rimettere equilibrio ad un gesto interpretato come un “tradimento” al nume di Roma. Romolo è qui indicato da Latino, re degli aborigeni, ad indicare chi dei due gemelli sarebbe stato il futuro sovrano. (slide 6)

Quando la tratta degli auspici avrà decretato Romolo come sovrano designato dagli dèi, per la fondazione dell’Urbe, questi procederà all’esecuzione dei dovuti riti sacri, i quali sono tutti descritti dalle fonti letterarie antiche e risaltano l’origine indoeuropea della società Romana. Era il 21 aprile. Romolo scelse il Palatino come centro politico amministrativo del Septimontium ed appellò la nuova città col nome di “Roma”, riflesso speculare della parola Amor. L’archeologo Giuseppe Barbera, in un suo studio pubblicato sulla rivista scientifica Pietas, approfondimenti sul mondo classico, denota come Roma sia il riflesso speculare di Amor e sostiene che questo “Amore” consistesse nella esportazione dell’ideale Romano del diritto e della giustizia. Un autore bizantino, Giovanni Lido, nella sua opera De mensibus, racconta il rito compiuto da Romolo per inaugurare il nuovo nome: “Quanto a lui, postosi a capo dell'intera funzione sacra, presa una tromba sacra -... i Romani sono soliti chiamarla "lituus" da litè, "preghiera"- la fece risuonare sul nome della città. La città ebbe tre nomi, uno iniziatico, uno sacro ed uno politico: quello iniziatico è Amor, ossia Eros, in modo che tutti siano pervasi da un amore divino per la città, motivo per il quale il poeta nei carmi bucolici la chiama enigmaticamente "Amarillide"; quello sacro è Flora, ovvero "fiorente", da qui la festa dei Floralia in suo onore; quello politico è Roma” .

Egli dunque prese due buoi e tracciò un solco dove sarebbero state erette le mura. Ogni volta che un masso fuoriusciva dal terreno, esso veniva consacrato come guardiano e reinserito nel solco primigenio. Terminato il solco Romolo disse: questo è il limite sacro di Roma, chiunque lo oltrepasserà, pagherà con la morte. Il mito vuole che Remo, deridendo la cosa, abbia scavalcato il solco e che Romolo, perché quel rito funzionasse e perché la legge fosse uguale per tutti, dovette uccidere il fratello. Le fonti non descrivono l’evento della colluttazione tra i due fratelli come un’azione malvagia da parte di Romolo, ma come un gesto necessario e dovuto perché quella sacralità cominciasse a funzionare sin dal primo momento. Quasi un sacrificio richiesto dagli dèi per la protezione di quel limite. (slide 7) Prima della tracciatura del solco era stato segnato il “pomerium”, il confine sacro della città quadrata, all’interno del quale sarebbe stato vietato portare alcuna arma e laddove sarebbero sorti i templi dedicati agli dei e le case degli uomini che stavano aderendo a questo nuovo e grande progetto. Attorno sarebbe sorto l’impianto murario di forma, approssimativamente, circolare. Questa metodica d’erezione delle città è un modello tipico del mondo indoeuropeo. (slide 8) Esso compare in Iran e nelle antiche città della Turchia, come ad esempio ad Hattusa, l’antica capitale ittita. Qui notiamo che le mura tendono ad una forma circolare (seppure ovoidale), mentre gli impianti interni della città si sviluppano su reticolati quadrati anziché a raggiera.  (slide 9) Fino a poco più di venti anni fa si pensava che Roma fosse sorta con i Re Etruschi e che, i dati precedenti, fossero pure fantasie elaborate dai Romani per mere finalità propagandistiche. Il rinvenimento sulle pendici del Palatino, durante gli scavi dell’Università di Roma “La Sapienza”, di alcuni blocchi di un muro di cinta risalente alla metà dell’VIII secolo a.C., ribaltano la situazione delle considerazioni e dimostrano l’esistenza del Regno di Roma nelle epoche indicate dalle fonti. Quale fosse il nome del primo Re di Roma, se egli avesse veramente un gemello o meno, diviene irrilevante di fonte a questo fatto; inoltre, prendendo in considerazione il fattore della miti-storia, comprendiamo che la città venne erette come descritto dalle Fonti e che su questo fatto venne inserito un sistema mitologico tipicamente italico finalizzato alla sopravvivenza di determinati mitologhemi: sappiamo che anche presso i Piceni ed altri popoli dell’Italia antica si parlava di gemelli fondatori di città. E’ come se le città fondate con un determinato rito dovessero essere accompagnate da una determinata leggenda per convalidarne l’aspetto sacrale. (slide 10)

Nel mondo Romano questo aspetto della sacralità è perennemente congiunto con quello della quotidianità! Così ogni porta era considerata pari ad un aspetto del dio Giano, il dio dei passaggi, tanto da essere chiamata Janua. Su di essa si elaborava un apparato sacrale che venne applicato nelle mura di Romolo. Esso considerava la soglia come il demone caotico dei boschi, Fauno, gli stipiti come i due guardiani Picumno (dal dio Pico, rappresentato con l’ascia) e Pilumno (dal dio Pilum, rappresentato dal pilum, la lancia/giavellotto dei Romani) che bloccano l’energia caotica, non consentendole di entrare, proteggendo così la città. In India le porte templi hanno dei demoni scolpiti sulla soglia, che si richiamano allo stesso Caos esterno rappresentato dal Fauno, sugli stipiti sono scolpite delle divinità guerriere che con la loro “fermezza” bloccano l’energia silvestre proteggendo la sacralità del tempio. Questa comparazione dimostra l’origine indoeuropea di questo apparato sacrale. (slide 11) Gli scavi sul Palatino, condotti dall’archeologo Andrea Carandini per l’università di Roma “La Sapienza”, hanno portato in luce dei buchi di pali in stratigrafie risalenti a metà dell’VIII sec. a.C., essi lasciano intendere la presenza di una grossa capanna interpretata come capanna di un personaggio importante. Il fatto che, a ridosso di questo luogo, Augusto abbia realizzato una monumentalizzazione dell’area, proprio lui che simbolicamente voleva rifondare Roma riallacciandosi all’ideologia del suo fondatore, lascia intuire che doveva esistere una coscienza che individuava questo posto come prima residenza di Romolo, tanto che a ridosso di essa Augusto innalzò la sua dimora. Del resto un sistema murario come quello individuato non poteva che indicare la presenza di una città o di un luogo importante da difendere, questa grande capanna sul Palatino doveva essere il centro di questo abitato, dunque la dimora del sovrano. Poiché le stratigrafie archeologiche riescono a definire la collocazione cronologica di questi eventi, rapportandoci alle fonti non possiamo interpretarli differentemente da esse, anzi grazie agli scritti degli storici antichi riusciamo ad interpretare ciò che è emerso dalle indagini archeologiche. (slide 12) I risultati di queste ricerche hanno permesso di effettuare una ricostruzione ideale dei luoghi abbastanza dettagliata: emerge un semplice villaggio di capanne, protetto dalla cinta muraria individuata sulle pendici del Palatino, di una semplice comunità di allevatori e agricoltori, la quale è stata capace di segnare i destini del mondo. (slide 13)

Dobbiamo immaginare simili paesaggi sugli altri colli. Sul Campidoglio era presente una forma di culto primitivo attorno ad una grande quercia: l’albero di Giove. Su questa rocca, facile da difendersi grazie alla sua olografia, i Romani eressero il più grande tempio del mondo antico: quello a Giove Ottimo e Massimo. Durante l’assedio dei Galli del 390 a.C. ad opera di Brenno, la rocca del Campidoglio fu l’unica a resistere grazie alle sue qualità naturali e consentì ai Romani di giungere ad un compromesso con il generale nemico Brenno. Mentre il Palatino rimase il centro politico amministrativo della città, il Campidoglio mantenne la funzione di monte sacrale: qui gli auguri traevano auspici, qui i generali vittoriosi donavano al Dio Ottimo e Massimo le armi e le insegne dei vincitori, qui i giovani Romani venivano iniziati al culto dei padri nel giorno dei Liberalia (17 marzo). Il Campidoglio divenne il simbolo della legge che “per amor” i Romani decisero di esportare al mondo per trasformarlo e per diffondere la giustizia, infatti nei locali dell’attuale sala consiliare, nel palazzo del Tabularium, erano conservate tutte le leggi emanate nel corso dei secoli dai Romani, i quali ebbero il merito di dare avvio al grande processo di sviluppo del “diritto” nel campo umano. (slide 14)

Poiché la fondazione di Roma non è un semplice gesto politico, ma anche una volontà di affermazione sacrale, non possiamo tralasciare l’importanza simbolica della consacrazione della città: gli antichi credevano che l’uomo fosse composto di quattro elementi (vedansi i riferimenti di Macrobio e degli altri autori neoplatonici, quelli di Pitagora e quelli espressi da Ermete Trismegisto nel Corpus Hermeticum), ovvero terra = corpo fisico, acqua = anima, aria = intelligenza/mente, fuoco = spirito; questi erano considerati mischiati caoticamente in un cerchio e la loro unità determinava l’identificazione e la difesa dell’individuo, che però col sistema spirituale doveva arrivare alla quadratura del cerchio ovvero a distinguere dal fisico: l’anima, l’intelligenza e lo spirito. La città sacra dello schema indoeuropeo replica questo motivo con la consacrazione di una cittadella quadrata circondata da mura circolari. La città è dunque come un individuo sul quale si applica un intero sistema sacrale per la sua evoluzione e difesa: il rito pubblico. I sette colli hanno ospitato la nascita di una città dal fascino misterioso, dove chiunque ha volto i suoi sguardi, tanto che essa ospitò mitrei, isei, templi alla Grande madre d’Oriente, oltre a quelli che già erano gli dèi atavici del luogo. Non per ultima la chiesa cattolica, che ha scelto la Sacra Roma come sua sede per potersi affermare.

Giuseppe Barbera, archeologo e presidente Associazione Tradizionale Pietas

 

[metaslider id=32106]

L'articolo La fondazione di Roma sui sette colli – Giuseppe Barbera proviene da EreticaMente.

Il Primo Re: la fondazione della Roma … coatta! – Umberto Bianchi

$
0
0

Se uno lo va a vedere senza alcuna profondità d‘intenti, che non sia quella del puro svago, allora “Il Primo Re”, il film italo - belga da qualche giorno in proiezione nei cinema italiani, altro non passa che per un bel brogliaccio d’azione, dal ritmo sicuramente avvincente, accompagnato da alcune panoramiche e da una fotografia niente male, ma se, invece, qualcuno pensa di ravvisare un qualche, sia pur lontano elemento della vicenda della fondazione dell’Urbe, allora si sbaglia di grosso. Quella di Matteo Rovere costituisce un’evidente ed indebita falsificazione e deformazione della storia dei primordi di Roma, lontana anni luce da quel contesto di cui pretenderebbe narrare le vicissitudini.

Tanto per andare sul concreto, esaminando più da vicino la trama del brogliaccio. La vicenda inizia con l’immagine bucolica di due bruti, nei panni dei gemelli Romolo e Remo che, barbe e capelli incolti, alle prese con il proprio pecorume, sono presi dall’improvviso sopraggiungere di una piena del Tevere nel proprio alveo, che tanto ricorda un Universale Diluvio in versione laziale. I due giovanotti, sbattuti qua e là dalla furia di quello “tsunami”, riescono a sopravvivere non si sa come ed, in un contesto di abbandono e desolazione, tra carcasse di armenti e masserizie varie, vengono raccolti, legati e caricati come salami su un carro bestiame, dopo aver ricevuto una scarica di legnate dagli abitanti di Alba Longa, ivi sopraggiunti a saccheggiare i resti di quel disastro.

Condotti in una preistorica Alba, i due gemelli, rinchiusi in gabbia assieme ad altri disgraziati, vengono costretti a prender parte ad un mortale torneo di lotta, all’insegna del “vale tutto”, sotto gli occhi di una turma di sporcaccioni, barbe e capelli lunghi, in un perfetto “rastafari style”, ricoperti di laidi perizomi e di una allucinata Vestale che inaugura le tenzoni in nel nome di una fantomatica “Triplice Dea” (?????). Il racconto prosegue incalzante, con la ribellione dei prigionieri che sopraffanno i propri carcerieri e fuggono attraverso un’oscura foresta, portandosi appresso Romolo ferito in modo quasi mortale e la scalcinata e nevrotica Vestale, con tanto di fuoco sacro in versione da viaggio, rinchiuso in un bel vaso a tracolla, tipo borsa di Tolfa, (tanto per non smentire le neorealistiche aspirazioni del film).

Tra vicissitudini varie, tentativi di tradimento e quant’altro, Remo assume il comando della lieta brigata e dopo un feroce scontro con i guerrieri della tribù che vantava la proprietà e l’esclusivo diritto di accesso a quella oscura foresta, si erge a signore e re del villaggio di questi ultimi. A seguito di una profezia della Vestale, proferita leggendo le interiora di un agnello (???), Remo viene informato che, per assurgere a grandezza, uno dei due fratelli avrebbe dovuto uccidere l’altro. Sconvolto da quanto udito, il nostro combattivo gemello, va letteralmente “nel pallone”. Dopo aver lasciato la povera Vestale incatenata nella foresta, alla mercè delle fiere, incendia e distrugge il villaggio conquistato e si allontana con i suoi. Nel frattempo Romolo, ritornato non si sa come in salute, si erge a rappresentante della primigenia “pietas” latina, offrendo onori religiosi alle vittime della furia del fratello e riaccendendo il fuoco sacro, spento dalla furia iconoclasta di questi.

Il film si conclude con una battaglia in riva al Tevere tra gli uomini di Alba ed il gruppetto degli accoliti di Remo. Romolo, ivi giunto per un senso di gratitudine fraterna, a conclusione della battaglia e dopo l’ennesima alzata di capo del fratello, dopo aver dichiarato la sacralità di quel sito e la inviolabilità di un “limes”, da lui identificato in un pezzo di legno (???), di fronte all’ennesimo atto di tracotanza del Remo, da questi aggredito, dopo aver passato il sacro “limes”, si trova costretto ad ucciderlo. Un bello e commovente discorso finale di Romolo sulla futura grandezza di quel primigenio sito, chiude un film, stracarico di inesattezze e totalmente campato in aria, in relazione alle vicende della nascita di Roma.

Punto primo. Il fatto che, all’epoca della fondazione dell’Urbe, il Lazio fosse sicuramente più selvaggio di quanto non lo sia oggidì, è innegabile. Ma che nella regione attorno al Campidoglio, vi fossero capanne, non significa che i popoli laziali fossero totalmente primitivi o degradati, anzi. Attorno a quell’epoca l’Italia Centrale pullulava di città autonome e civilizzate, Latine (Tibur, Praeneste, etc.), Etrusche (Tarquinia, Pyrgi, Caere, Chiusi, etc.), senza contare la presenza di Umbri, Volsci, Sanniti, Ernici, Sabini, ivi presenti a vario titolo con tradizioni e civiltà consolidate. Le testimonianze, i riscontri archeologici ad oggi in nostro possesso, ce la dicono lunga, a riguardo. Ora, fare dei primitivi Latini una manica di sudici e sanguinari pezzenti, privi di quel senso di “pietas” che si sarebbe trasmesso quale valore aggiunto ai Romani, ci pare una grossolana ed offensiva inesattezza.

Punto secondo. Dalle raffigurazioni in nostro possesso l’intera “koinè” greco-italica, già a quell’epoca, possedeva una certa foggia nel vestire e nel curarsi, non assolutamente riscontrabile nel film. Qui ci sembra, piuttosto, di aver a che fare da una parte, con un insieme di rasta-hippy, abbrutiti e degradati. I volti della turma al seguito dei due gemelli, tra orecchie mutilate, sorrisi da deficienti e minus habens dai tratti fisici lombrosiani, non corrispondono affatto alle rappresentazioni del mondo classico. A tal proposito, fa bella mostra di sé, un esemplare della turma, un ciccione basso, brutto e pelato, tale “Cai” (???? Nome mai sentito in Latino, sarà forse una versione onomatopeica di un latrato canino???). Il ciccione, in mezzo alla foresta, preso dallo sconforto e dalla paura assieme ai suoi compari, cerca per la seconda volta (dopo un primo tentativo concluso con l’accoppamento, da parte di Remo, di un componente di quella allegra comitiva …), di far fuori il Romolo agonizzante, perché costui, nel toccare ed essersi fatto toccare dalla premurosa Vestale avrebbe, a loro dire, attirato l’ira degli Dei e la sfiga più nera.

Al pari del primo tentativo di far fuori Romolo, anche questo, però, grazie alle maledizioni lanciate dalla Vestale dal terreo sguardo, non riesce e, non si sa come, passa sotto silenzio. Remo, al rientro da una fortunata caccia, di tutto ciò non verrà informato ed il nostro “Cai” continuerà impunemente nella sua opera molesta, stavolta però contro le donne del villaggio occupato, sinchè, a fine film, dopo l’ennesima sbrasata, non finirà infilzato da Romolo. A ben guardare, gli stessi abitanti del villaggio, tra capelli ricci a palla e pelli di capra, hanno molto più a che fare con una versione miserella dei rispettabilisssimi indigeni della Papua Nuova Guinea, che non con gli antichi Latini.

Punto terzo. Tutte le vicende narrate sono inventate di sana pianta. Nella leggenda, il Tevere non ha mai travolto Romolo e Remo, né il primo risulta esser mai stato ferito, né Remo ha mai ucciso una Vestale o incendiato villaggi e così via dicendo. La religiosità latina e centro-italica dell’epoca, che vedeva i vari pantheon intersecarsi vicendevolmente e già in possesso di determinati requisiti, (ricordate la Triade di Iguvium, etc.?) è qui volutamente ignorato e distorta, in favore di improbabili invocazioni a Triplici Dee (???) o a remoti e quanto mai generici”Dei”. Né si capisce chi sia il tizio pelato avvolto di fiamme che il Remo, forse in preda a cattiva digestione, dopo aver mangiato la carne cruda di un cervo da lui ucciso, vede far capolino da non si sa dove, durante una sosta nella oscura foresta. Forse un inconscio presagio o un mortifero augurio nei riguardi del molesto “Cai”, anch’egli pelato e robusto, al pari della figura che appare al Nostro…

Assolutamente surreali e privi di fondamento i tentativi di approccio del Remo con la Vestale e la lettura che costei, a sua volta, fa delle viscere di agnello (pratica, questa, l’aruspicina, di stretta competenza dei Lucumoni Etruschi, sic!), Né vi è traccia o menzione alcuna, di Giano e Saturno, di Pico, di Marte e Rea Silvia, di Amulio, della Lupa, della fondazione della Roma quadrata, dell’omicidio rituale di Romolo e così via dicendo… l’aver voluto ignorare l’intero corpus mitico romano, in favore di una versione all’insegna di un presunto e belluino “storicismo” d’accatto, a proposito della genesi dell’Urbe, significa non aver capito assolutamente nulla dell’intera vicenda e dello spirito che ne anima lo svolgimento.

Qui, mito e storia sono strettamente interrelati e assolutamente non disgiungibili, almeno sino al settimo ed ultimo Re di Roma. L’Urbe, al pari di Atene ed altre famose città dell’antichità, nasce nelle nebbie del mito, facendosi essa stessa archetipo vivente ed il cercare di dare un’interpretazione prettamente storica alla cosa, è insensato ed inutile, al pari dello stesso lavoro, volto a ricercare un riscontro razionale e quasi matematico al mito ed all’archetipo. Questo perché, vi sono realtà che nel loro manifestarsi presentano degli insondabili limiti, dati proprio dalla analogica “circolarità”, dal continuo rimando, tipici della forma-cultura tradizionale, che invece, la attuale cultura di matrice illuminista, non può, se non minimamente, penetrare, a causa dei diversi parametri, su cui ambedue sono imperniate. Eppure, il mito è in grado di fornire emozioni al pari e molto più, di una storia cinematografica inventata a tavolino.

Mi si permetta. Detesto i Kolossal americani, ma stavolta, un Ridley Scott o il regista de “Il Signore degi Anelli”, avrebbero saputo far di meglio. Meglio sicuramente, della nostra cinematografia afflitta da un complesso di inferiorità che trova la sua origine, nel post bellico catto-comunismo e nei suoi pasoliniani “accattoni”. Se le nostrane squallide versioni televisive anni ’60 e ’70 dell’ “Odissea” con Bekim Fehmiu e dell’”Eneide”, ci trasmisero l’immagine di un’antichità di Dei ed eroi vestiti da hippy pezzenti e stravaganti, il Remo de “Il primo Re”, ci riporta all’immagine di un bell’esemplare di “coatto” di periferia, dagli occhi sbarrati da un bel mix di coca ed anfetamine, un tizio che urla e mena di coltello senza tante storie, affiancato da un Romolo che, più che l’eroe-fondatore di Roma, sembra riportarci ad una versione giovanile di Massimo Ferrero, il presidente della Sampdoria, dal Crozza nazionale rappresentato sempre barcollante e semi ubriaco, qui infilzato a mò di tordo ma, egualmente in grado di sopravvivere e combattere non si sa come, circondato da una turma di ragazzini in abito rasta-papuasico.

A ben guardare il film, c’è da chiedersi come una sgangherata combriccola del genere, sia riuscita a sconfiggere un’orda di cavalieri armati di tutto punto ed abbia poi potuto addirittura fondare l’Urbe…Domanda inutile e capziosa. Film come questi, sono fatti apposta per deprimere, distorcere ed offendere una vicenda che, con tutto il suo portato mitico, dovrebbe rappresentare orgoglio e vanto per un paese, le cui origini affondano nelle radici di un pluri-millenario archetipo. Il risultato invece, è stato un truculento canovaccio, una via di mezzo tra l’ “Apocalypto” di Mel Gibson, i recenti film americani a base di una mitologia greca totalmente sfalsata, con un briciolo di italico e pezzente neo-realismo…E quel che, in tutto questo, fa più male, sono alcune entusiastiche recensioni cinematografiche, scritte da giornalisti professionisti, pertanto da gente che si suppone abbia studiato e che, in questo caso, invece, ci dimostrano un’ignoranza ed una mala fede, veramente senza limiti né vergogna.

UMBERTO BIANCHI

L'articolo Il Primo Re: la fondazione della Roma … coatta! – Umberto Bianchi proviene da EreticaMente.

Religionum sanctitates: a proposito di Cicerone, De natura deorum II 5 – Claudia Santi

$
0
0

L’opera di Cicerone, oratore, magistrato, sacerdote e filosofo, occupa un posto centrale ai fini della ricostruzione del lessico del “sacro” di Roma antica, non solo per la grande e approfondita dottrina riversatavi dall'autore, ma anche perché offre una potente sintesi delle dinamiche storiche del pensiero religioso romano nel periodo repubblicano. Un caso particolarmente interessante riguarda il termine sanctitas, derivato nominale astratto di sanctus (1), voce del lessico religioso di Roma dal contenuto semantico piuttosto vasto, che in senso tecnico religioso-giuridico esprimeva l’idea di “inviolabilità”, e in senso generico etico-morale l’idea di “costumatezza/morigeratezza” (2). Di questo termine, Cicerone usa almeno in due casi una forma plurale sanctitates, che non trova riscontro, allo stato attuale della documentazione, negli autori latini a lui precedenti e contemporanei (3). Una prima occorrenza si incontra nell’orazione pronunciata nel 57 a.C. in occasione del suo reintegro nel senatus: Cicerone denuncia davanti all’assise dei senatori lo stato di sovvertimento totale realizzatosi nella res publica a seguito del suo allontanamento: insieme a lui, sarebbero scomparse ogni forma di ordine, legalità, giustizia, libertà, prosperità, tutte le deorum et hominum sanctitates e tutte le pratiche religiose:

“mecum leges, mecum quaestiones, mecum iura magistratuum, mecum senatus auctoritas, mecum libertas, mecumetiam frugum ubertas, mecum deorum et hominum sanctitates omnes et religiones afuerunt”(4).

Innanzi tutto dobbiamo osservare come l’intero periodo presenti una struttura piuttosto articolata formata da più kóla, da più membri; in particolare, l’espressione in esame si trova correlata paratatticamente con religiones, categoria del pensiero religioso romano al quale in senso positivo si può attribuire, di norma, il significato di “pratiche religiose”(5); in aggiunta, sanctitates e religiones condividono l’attributo omnes. In questo caso, a nostro giudizio, il sintagma deorum et hominum sanctitates sembra costituire una sorta di zeugma, dal momento che il termine sanctitas si trova correlato sintatticamente ai due genitivi deorum et hominum che si può ritenere abbiano influito sul suo significato, determinandone un contenuto semantico non omogeneo. In altri termini, si può intendere l’espressione deorum et hominum sanctitates omnes come una sorta di binomio formato da: (omnis sanctitas deorum) + (omnis sanctitas hominum), binomio in cui il plurale in questione sarebbe il risultato della “somma” dei due sintagmi. Se ciò è vero, in questo caso, il senso dell’espressione, con buona approssimazione, sarebbe “ogni rispetto degli dei e morigeratezza degli uomini”. Diverso appare, invece, ai nostri occhi, il caso della seconda occorrenza, che si rinviene nel secondo libro del De natura deorum, dialogo filosofico composto, come è noto, tra la fine del 45 a.C. e i primi mesi del 44 a.C., prima della morte di Giulio Cesare (6).

In quest’opera ciceroniana, Q. Lucilio Balbo, uno dei protagonisti del dialogo, appoggiandosi sugli argomenti elaborati della scuola stoica e confutando le posizioni della scuola epicurea, si propone di dimostrare l’esistenza della providentia deorum, della natura provvidenziale degli dei (7): essa sarebbe, tra l’altro, provata, secondo Balbo, dal costante diffondersi e perfezionarsi delle manifestazioni di culto presso tutti i popoli della terra. Ecco le parole che Cicerone fa pronunciare a Balbo a proposito:

“in nostro populo et in ceteris deorum cultus religionumque sanctitates exsistunt in dies maiores atque meliores” (8).

Il contenuto semantico del plurale sanctitates, ribadito dal legame sintattico con religiones (anch’esso al plurale) non è stato sinora, a quanto sembra, definito in modo soddisfacente (9). Basta scorrere in rapido esame alcune edizioni nelle principali lingue europee per constatare come all’incertezza esegetica corrispondano traduzioni spesso banalizzanti, talvolta anche prive di senso: Charles Appuhn traduce: “les pratiques religieuses” (le pratiche religiose) (10); Martin Van Den Bruwaene: “le respect des lois religieuses” (il rispetto delle leggi religiose) (11); Harris Rackham e Chris Bouter: “respect for religion” (rispetto per la religione); Wolfgang Gerlach traduce: “Heilighaltung der religiösen Gebräuche” (la sacralità delle usanze religiose) (12); Ángel Escobar: “devociones religiosas” (devozioni religiose) (13). Nella maggior parte dei casi, la presenza del plurale sanctitates viene risolta traducendo il termine al singolare, singolare che nelle traduzioni inglesi attrae al suo numero anche il plurale religiones, che finisce quindi per assumere il significato moderno di “religione”. Perciò, in un modo o nell'altro, tutte le traduzioni considerate sembrano attribuire a religionum sanctitates un significato molto simile a deorum cultus (il culto degli dei) creando una sorta di endiadi che a nostro giudizio non rispetta appieno il pensiero di Cicerone: riteniamo, infatti, che il sintagma religionum sanctitates, paratatticamente correlato a deorum cultus (laddove, sia detto per inciso, anche cultus potrebbe essere un plurale), esprima un’idea che il nostro autore non voleva esprimere diversamente e non poteva esprimere meglio. Anche la proposta ermeneutica formulata da Ernst Feil, nella sua opera dedicata alla storia del termine religio, pur rilevando la sfumatura “concreta” del termine sanctitas, sembra rimanere ancorata al significato di sanctitas come “Wissen”, ossia come “scientia” (v. infra p. 7), come “sapere”, finendo così per proporre un’interpretazione intellettualistica, difficile da riconoscere nel testo in questione (14). In modo analogo, J. Rüpke, nel suo volume From Jupiter to Christ, concentra la sua attenzione sulle variazioni di significato di religio, non soffermandosi sul valore semantico da attribuire a sanctitates (15). Per cercare di comprendere meglio il senso dell’espressione ciceroniana sarà necessario allora condurre una ricognizione preliminare degli usi semantici e delle scelte stilistiche rinvenibili nell'opera di Cicerone per quanto attiene a sanctitas e religio, per poi procedere, sulla base dei risultati, a formulare una proposta di interpretazione valida – è questo il nostro auspicio – sia sotto il profilo filologico che storico-religioso.

Cicerone e il termine “sanctitas”: significato giuridico-religioso, etico - religioso, filosofico.

Nel significato giuridico-religioso, sanctitas esprime il concetto di inviolabilità e può essere riferito sia a res che a personae (16). Nei riguardi delle cose, la sanctitas corrisponde a “inviolabilità” e pertiene ai luoghi preservati da ogni atto illegale (iniuria), in stretta dipendenza dal significato di sanctum, secondo la nota definizione del Digesto:

“Sanctum est, quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est” (17).

Cicerone, in particolare, attribuisce la sanctitas ai sepolcri, che la riceverebbero dalla terra alla quale sono stati fissati e dalla quale non possono essere rimossi (18). Sempre in ambito giuridico-religioso, passando dalle cose alle persone, la sanctitas, in Cicerone, appare una prerogativa in particolare dei tribuni: è la sanctitas tribunatus (inviolabilità del tribunato), che fin dalla sua istituzione qualifica il tribunato della plebe, ponendo la persona dei tribuni al riparo da ogni possibile forma di abuso, violenza o coercizione (19). Questa nozione di sanctitas propria dei tribuni plebis, e dunque di esponenti non di un sacerdozio ma di una “magistratura” (20), esclude qualsiasi attribuzione o riconoscimento di un carisma individuale: è solo la misura giuridico religiosa di tutela di un organo della res publica particolarmente esposto, a causa della sua connotazione sociale e “politica”. Dunque, come già notato da H. Delehaye, “la reputazione di «santità» non implica necessariamente, presso i Romani, una qualche relazione privilegiata dell’uomo con la divinità” (21).

 

Nella sua accezione più generale, sanctitas riferita a persone mostra uno stretto legame di dipendenza dal mos maiorum, dai costumi degli antenati, e qualifica e definisce ogni “comportamento morale corretto” riconosciuto come tale dalla collettività. Quanto al carattere prescrittivo del mos, P. de Francisci notava:

“I mores prescriventi determinati obblighi di condotta, non erano, come si pensa da molti (che si lasciano sedurre dal tardo significato del termine) semplici regole di morale e di buon costume prive di imperatività, ma norme giuridiche, che si riconnettevano alle strutture dell’organizzazione precivile” (22).

Traendo la sua origine dal mos, la sanctitas assumeva, per l’uomo e per la donna, forme diverse determinate a livello culturale. Per un uomo, la sanctitas sembra esprimere, in Cicerone, una qualità assimilabile alla “morigeratezza”, intesa come correttezza della condotta, che si va ad associare naturalmente con altre qualità del vir e del civis, come la prudentia (saggezza) e la dignitas (dignità) (23). Cicerone riteneva che, come tutte le qualità positive, la sanctitas fosse molto più diffusa nei tempi passati e che si fosse di fatto persa nell'epoca di crisi morale in cui egli si trovava a vivere: ciò nondimeno egli pensava di poter rinvenire nel giovane Ottaviano un “exemplum veteris sanctitatis” (24). Sempre nel significato etico, sanctitas, nel caso di una donna, sembra equivalere a “costumatezza”; si accompagna ad altre qualità apprezzate nelle donne, quali pudor, modestia, pudicitia, temperantia (25). Perciò, la sanctitas non qualifica lo stato di verginità, che implica la nozione religiosa di purezza, quanto piuttosto la condotta onesta nei confronti del coniuge, dei figli, della famiglia; conviene pertanto in particolar modo alle matronae, alle donne sposate e con figli, ma in generale è la qualità di tutte le donne morigerate (26). Nel suo significato filosofico, il più recente in ordine di tempo nella produzione ciceroniana, sanctitas sembra presentare una varietà di valori semantici. In almeno due casi, il confronto con il testo greco ne rende sicura la natura di calco semantico del termine greco ὁσιότης, derivato nominale, di ὅσιος che, secondo l’analisi semantica condotta da Antonino Pagliaro, indicherebbe: “Il momento (scil. morale religioso) soggettivo, quello che uno pone a se stesso sia nel rapporto con gli dei, sia nel rapporto con gli uomini”(27);

“ὅσιος – osserva ancora Pagliaro – è anche colui che porta un sentimento di rispetto, di ritegno morale nei rapporti con gli uomini; a questo titolo Apollo nell’Alcesti di Euripide v. 10 dà la qualifica di ὅσιος ad Admeto e di lui si dichiara ὅσιος” (28).

Cicerone traduce con de sanctitate (29) il titolo dell’opera di Epicuro περὶ ὁσιότητος, nota attraverso il catalogo degli scritti epicurei di Diogene Laerzio (30); in aggiunta, nell'ambito dello stesso contesto, definisce la sanctitas come la scientia colendorum deorum (31), riproducendo concettualmente le definizioni ὁσιότης = ἐπιστήµη τις τοῦ θύειν τε καὶ εὔχεσθαι (una conoscenza dei sacrifici e delle libagioni) e ὁσιότης = θεῶν θεραπεία (culto degli dei), nel dialogo platonico Eutyphro (32).

Il valore semantico di questo calco, tuttavia, nonostante il suo interesse ai fini di un percorso di semantica storica, va circoscritto entro limiti ben precisi, tenendo conto del fatto che l’origine del concetto di ὁσιότης si trova nella cultura e religione greca, e che dunque il termine latino sanctitas usato come calco si deve adattare ad esprimere un concetto che non si è formato all'interno della realtà culturale e religiosa romana: se Cicerone può utilizzare sanctitas per esprimere la nozione di ὁσιότης è perché ritiene di potervi cogliere un contenuto semantico in larga parte (ma non perfettamente) assimilabile. Tali precisazioni appaiono necessarie per non commettere l’errore di prospettiva di prendere per definizioni autenticamente romane le glosse che accompagnano il termine (come quelle che abbiamo citato in precedenza), e credere che esse coprano l’intero spettro dei valori semantici del termine, quando al contrario ne evidenziano solo il punto esatto di contatto con l’originaria nozione espressa dal greco. Lo spettro dei valori semantici di sanctitas a livello filosofico appare, infatti, a nostro giudizio, più ampio. Nel complesso dei trattati filosofici di Cicerone il termine sanctitas ha una presenza sporadica (solo tre occorrenze) (33), mentre nel De natura deorum esso ricorre ben otto volte: in particolare, disaggregando i dati, risulta che di otto occorrenze complessive, tre compaiono nell’esordio (34), quattro nel I libro (35), una nel II (36) e nessuna nel III. Se si tiene presente la struttura dell’opera, si può concludere che il tema della sanctitas dovesse avere una certa importanza per l’autore, per l’accademico Cotta e per gli stoici, dei quali Cotta riprende talvolta gli argomenti in contrapposizione con le tesi epicuree. Come nota Rüpke, l’epicureo Velleio non usa mai il termine sanctitas (37). In una gerarchia delle fonti interna alla produzione ciceroniana ci sembra, dunque, che il punto di vista autenticamente proprio dell’autore sia da ricercarsi in via prioritaria nell'esordio del dialogo, dove, tra l’altro, è maggiormente probabile che il significato tecnico di questo termine compaia in una forma perspicua e inserito in una serie di relazioni analogiche o contrastive. Proprio nei paragrafi iniziali, allorché viene impostato il tema del dialogo, ossia l’esistenza o meno della provvidenza divina, Cicerone colloca sanctitas in rapporto solidale con due concetti romani peculiari e specifici della sfera religiosa, pietas e religio; in particolare, si critica la posizione dei filosofi che negano l’esistenza della provvidenza divina e si obietta che, se fosse vero il loro parere, non potrebbero più esistere né pietassanctitasreligio:

“Sunt enim philosophi et fuerunt qui omnino nullam habere censerent rerum humanarum procurationem deos. quorum si vera sententia est, quaepotest esse pietas quae sanctitas quae religio? quorum si vera sententia est, quae potest esse pietas, quae sanctitas, quae religio? (38).

In queste parole appare chiaramente come Cicerone concepisca pietas, sanctitas e religio come virtutes solidali tra loro, idea ribadita poche righe più avanti:

“In specie autem fictae simulationis sicut reliquae virtutes item pietas inesse non potest; cum qua simul sanctitatem et religionem tolli necesse est” (39).

Dal passo in esame emerge chiaramente che, nel pensiero ciceroniano, in questo caso fedele interprete della tradizione, sanctitas e religio sono manifestazioni della pietas e che la pietas è fondamento sia dell’una che dell’altra. In definitiva, Cicerone afferma che la provvidenza degli dei è un’espressione della pietas, dell’ordine cosmico di interrelazioni dio-uomo (e uomo-uomo), che come tale implica una reciprocità di rapporto tra gli dei e gli uomini e sostanzia anche le altre virtutes umane, in particolare sanctitas e religio, ma anche fides (lealtà) e iustitia (giustizia) (40). Di conseguenza, la sanctitas appare saldamente ancorata all’ambito etico-religioso in relazione verticale con la pietas, e orizzontale con la religio e trova forma solo in queste relazioni. Non a caso sanctitas, nell’enumerazione ciceroniana, occupa la posizione centrale della sequenza, a testimoniare la sua dipendenza da pietas da una parte, ma anche il legame con religio, come espressioni particolari di una predisposizione più larga e complessiva (41). Secondo Cicerone, quindi, non può esistere una morale “laica”, ossia una morale che non discenda e non sia sostenuta dal principio religioso della pietas, in quanto la pietas si va a configurare come principio di giustificazione di una retta condotta (sanctitas) e di un comportamento religioso corretto autenticamente ciceroniana (e romana) di sanctitas.

* * *

A questo punto, si può dire che emerga ancora più chiara la peculiarità dell’espressione religionum sanctitates, dove il legame di solidarietà e il rapporto di paratassi tra sanctitas e religio si è trasformato in rapporto di subordinazione di un termine sull’altro (e di una nozione sull’altra). Può darsi che la frase di Cicerone deorum cultus religionumque sanctitates rappresenti semplicemente un’endiadi, e che quindi deorum cultus e religionum sanctitates abbiano a un di presso lo stesso significato, o che il plurale religiones, nel significato generale di “pratiche religiose”, abbia influenzato e determinato anche il plurale sanctitates. Ma può anche scorgersi un significato più originale di sanctitas e più tecnico di religio. A tale proposito, dobbiamo ricordare come la prosa ciceroniana offra almeno un altro esempio in cui una qualità morale declinata al plurale assume il significato di collettivo concreto (42), venendo a indicare l’insieme delle persone che possiedono quella qualità: si tratta di honestates civitatis che deve correttamente intendersi “i cittadini onesti” (e non “le onestà della città”) (43): in altri termini, il concetto principale è espresso dal sostantivo che si trova in caso genitivo, rispetto al quale l’altro sostantivo svolge una funzione quasi attributiva. Applicando questo stesso criterio al sintagma religionum sanctitates, si otterrebbe la forma “sanctae religiones”; lasciamo per ora in stand by questa forma, perché è necessario rivolgere la nostra attenzione al significato di religio. È fuor di dubbio che in questo contesto il termine religio abbia un valore positivo, confrontabile con quello dei loci succitati, ma soprattutto con la definizione in Cicerone De natura deorum I, 117:

“Superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur” (44).

Correlato a questo, tra i valori che religio viene ad assumere, ci sembra più coerente con il contesto, il significato posto ben in evidenza da Dario Sabbatucci, in cui religio, in Cicerone, equivale a “devozione rivolta ad una divinità esclusiva” (45) o anche “particolare”, come nell’espressione religio Cereris:

“Mira quaedam tota Sicilia privatim ac publice religio est Cereris Hennensis” (46).

In questo caso, Cicerone, con religio Cereris Hennensis vuole intendere la particolare forma di devozione e tutti i riti ad essa correlati che i cittadini della antica Enna tributavano alla forma locale della dea Cerere, qualificata pertanto con l’epiclesi epicorica Hennensis. Allo stesso modo, ricordando le vicende dei culti della città di Segesta, Cicerone sottolinea come la devozione verso la statua di Diana si sia mantenuta anche dopo il trasferimento di questo oggetto cultuale nella città Cartagine (47). In tal senso, come è noto, il termine religio sarà adottato dai Cristiani per definire la loro fede (già denominata religio dai Romani perché avente i caratteri di venerazione di un unico Dio) (48).

Se la nostra proposta è giusta, il sintagma religionum sanctitates potrebbe allora indicare, con buona approssimazione, “le pie (sanctitates) devozioni verso una particolare divinità (religionum)”, potendosi in questo caso attribuire a religiones il significato tecnico prima ricordato e intendere sanctitates come equivalente di sanctae nel significato di “pie”, in senso moderno. Come si può osservare, se la nostra proposta coglie nel giusto, il significato di religionumque sanctitates non duplica, ma completa e integra il significato di cultus deorum, evidenziando, in coerenza con il contesto che raggiunge un’ampiezza ecumenica estesa a tutti i popoli e non solo limitata al popolo romano (in nostro populo et in ceteris), lo sforzo compiuto da Cicerone per comprendere tutte le forme devozionali, anche le più lontane dalla religione della civitas, anche quelle delle religioni di mistero, della monolatria, dell’enoteismo, del monoteismo. Ciò testimonierebbe della sensibilità religiosa ciceroniana (peraltro, come sappiamo, augure e iniziato ai misteri eleusini) e della consapevolezza che egli aveva del carattere dinamico delle religioni (cfr. nella stessa frase in dies maiores atque meliores). Nella profondità del suo pensiero storico, Cicerone, inoltre, sarebbe riuscito a cogliere il punto di svolta rappresentato, a livello religioso, dall’epoca sillana. Come è noto, infatti, il dialogo si immagina ambientato tra il 676 e il 679 a.V.c. (= 77-74 a.C.), ossia proprio in un arco di anni che si pone a ridosso di tale età. Silla aveva promosso l’integrazione, all’interno del pantheon romano, della dea , enigmatica e sanguinaria divinità venerata in Cappadocia, che i Greci avevano identificato ora con Enyô ora con Athena, e che i Romani, assimilarono a Bellona (49). A Roma esisteva, fin dalla prima metà del II sec. a C., una comunità giudaica, che dopo un secolo di permanenza (50), cominciava ad avere una certa visibilità; durante il periodo sillano sembra da collocarsi anche l’introduzione del culto isiaco a Roma (51). Nuove figure divine venivano accolte accanto agli dei patrii e divinità tradizionali venivano orientate nel senso di fornire il loro carisma non più alla civitas bensì ad un civis sovraordinato sugli altri: si pensi alla “personalizzazione” del rapporto che legava Silla ad Apollo ed alla particolare devozione che egli aveva per Venus, devozione ribadita tra l’altro dall’aggettivo Ἐπαφρόδιτος che rende in greco l’appellativo Felix di cui Silla amò fregiarsi (52). Questa atmosfera di incertezze e di nuovi orizzonti spirituali è, a nostro giudizio, ben rappresentata da Cicerone, con uno sforzo verso la comprensione dell’altro da sé, proprio nel momento cui cominciavano a manifestarsi i germi di importanti trasformazioni che avrebbero finito per stravolgere la fisionomia della religione tradizionale.

 

Note:

1 - Per lo spettro semantico del termine sanctus/sanctum, cfr. Santi 2004, pp. 52-55; pp. 175-185; pp. 199-213; pp. 217-224.
2- Il termine sanctitas, di formazione più recente, progressivamente sostituì sanctimonia e sanctitudo, più antichi e sostanzialmente equivalenti; si può indicare nell’epoca di Plauto il periodo in cui prese avvio in latino il processo di eliminazione dei suffissi equivalenti e concorrenti, con conseguente riduzione della presenza nella lingua latina degli astratti in -monia e in -tudo, già desueti all’epoca di Cicerone, Devoto 1987, p. 117; abbiamo esaminato i valori semantici di sanctitas in Santi 2002; cfr. anche Santi 2004, pp. 202-208.
3 - Un altro esempio del plurale sanctitates si incontra in Arn. Adv nat. I 6, 3.
4 - Cic. Red. in sen. XIV 34: “Con me scomparvero le leggi, con me i tribunali, con me i diritti dei magistrati, con me l’autorità del senato, con me la libertà, con me anche la prosperità delle messi, con me ogni rispetto degli dei e morigeratezza degli uomini e tutte le pratiche religiose”.
5 - Feil 1986, p. 46.
6 - Per il problema della composizione del dialogo, cfr. Pease 1955, pp. 5-106.
7 - Eccellente sintesi del dialogo e discussione dei problemi in Pease 1913; per i problemi relativi alla tradizione manoscritta, Auvray-Assayas 1997; per il pensiero teologico di Cicerone nel De natura deorum, Boyancé 1962; Goar 1972; Schmidt 1978; Brunt 1989; De Filippo 2000.
8 - Cic. De nat. deor II 5: “Nel nostro popolo e in tutti gli altri popoli il culto degli dei e le religionum sanctitates diventano ogni giorno più diffuse e apprezzabili”.
9 - Pease 1958, p. 552, rileva questa particolarità ma non si sofferma sul suo significato.
10 - Appuhn 1935, p. 169: “C’est pourquoi chez nous et chez les autres peuples les pratiques religieuses vont en augmentant et gagnent en valeur tous les jours”; una traduzione molto simile anche in Nisard 1875, p. 109a: “D’où il arrive parmi nous, et parmi les autres peuples, que le culte divin et les pratiques de religion s’augmentent et s’épurent de jour en jour” (Quindi accade per noi e per gli altri popoli che il culto degli dei e le pratiche della religione aumentino e diventino più pure di giorno in giorno).
11 - Van Den Bruwaene 1970, p. 28 “C’est pourquoi, et dans notre peuple et chez les autres, le culte des dieux et le respect des lois religieuses se présentent de jour en jour plus grands et meilleurs”; Clara Auvray-Assayas ha curato per la collana Les Belles Lettres nel 2002 un’edizione con traduzione in francese (non vidi).
12 - Gerlach 1990, p. 149: “Die Heilighaltung der religiösen Gebräuche von Tag zu Tag umfangreicher und besser”; questa traduzione sembra influenzata da Brooks 1896, p. 77: “Holy observances of religion”.
13 - Escobar 1999, p. 166: “Así, tanto el culto a los dioses como las devociones religiosas se afianzan cada día más y mejor, tanto en nuestro pueblo como entre los demás”.
14 - Feil 1986, p. 46.
15 - Rüpke 2014, p. 187.
16 - Sini 2001; Santi 2004, pp. 177-182.
17 - Dig. 1. 8. 8. pr. (Marcian. 4 regul.): “È sanctum ciò che è protetto e difeso contro gli atti illegali degli uomini”.
18 - Cic. Phil. IX 14 (44 a.C.): “Sed statuae intereunt tempestate, vetustate, sepulcrorum sanctitas autem in ipso solo est quod nulla vi moveri neque deleri potest, atque, ut cetera exstinguuntur, sic sepulcra sanctiora fiunt vetustate (Ma le statue si rovinano a causa delle intemperie e del trascorrere del tempo, l’inviolabilità dei sepolcri invece risiede nel suolo stesso che nessuna forza può spostare né distruggere, e come le altre cose periscono, così i sepolcri divengono più inviolabili col passar del tempo).
19 - Cfr. Cic. Sest. 79: “Itaque fretus sanctitate tribunatus” (E così fidando sull’inviolabilità del tribunato); cfr. Cic. leg. III 9: “Plebes quos pro se contra vim auxilii ergo decem creassit, ei tribuni eius sunto, quodque ei prohibessint, quodque plebem rogassint, ratum esto; sanctique sunto; neve plebem orbam tribunis relinquunto” (Siano suoi tribuni, quelli che in numero di dieci la plebe ha creato contro la forza e perché le portino aiuto, e ciò che essi hanno proibito, e ciò che abbiano fatto votare alla plebe, sia ratificato; e siano inviolabili e la plebe non sia lasciata priva di tribuni); sulla base dell’analisi del lessico religioso-giuridico in uso nelle opere di Cicerone, abbiamo argomentato che i tribuni plebis fossero definiti in origine sancti, che la loro qualità fosse definita sanctitas, e infine che la sacrosancta potestas che viene riconosciuta loro dagli autori posteriori a Cicerone sia un’innovazione da attribuirsi ad Augusto, cfr. Santi 2004, pp. 182-199.
20 - Il carattere magistratuale o meno del tribunato della plebe è da sempre oggetto di disputa; i due orientamenti, a favore o contro, sono esposti e discussi criticamente da Lobrano 1983, pp. 62-65.
21 - Delehaye 1927, p. 10: “Ainsi, le renom de “sainteté” n’implique pas nécessairement, chez les Romains, quelques relation distincte de l’homme avec la divinité” (tr. nostra); sull’attribuzione della sanctitas agli dei, cfr. anche Santi 2004, pp. 209-213.
22 - De Francisci 1967, p. 630.
23 - Cic. Phil. XIII 4; Cic. Mil., 90; Cic. ad fam. IV, 3, 2; Santi 2004, pp. 199-202.
24 - Cic. Phil. III 15: “un esempio dell’antica morigeratezza”.
25 - Cic. fin. II 22, 73; Santi 2004, pp. 203-206.
26 - Cic. Cael. 32; Santi 2004, pp. 206-207.
27 - Pagliaro 1976, p. 93; a tale proposito, lo studioso richiama l’etimologia che mette in rapporto ὅσιος (da *σFόθιος ) con ἒθος ‘costume’ (da *σFέθος ‘ciò che uno pone a sé’), Pagliaro 1976, ibid. n. 4.
28 - Pagliaro1976, p. 94.
29 - Cic. De nat. deor. I 115: “At etiam de sanctitate de pietate adversus deos libros scripsit Epicurus” (“E infatti anche Epicuro ha scritto trattati sulla sanctitas, sulla pietas nei confronti degli dei”); cfr. Cic. De nat. deor. I 122: “At etiam liber est Epicuri de sanctitate” (“Esiste anche un trattato di Epicuro dedicato alla sanctitas”).
30 - Diog. Laert. X 27; Diogene Laerzio, a proposito di Epicuro, riporta anche il trattato Περὶ θεῶν, che potrebbe corrispondere al de pietate adversus deos in Cic. De nat. deor. I 115, cfr. supra n. 28.
31 - Cic. De nat. deor. I 116: “La conoscenza del modo in cui venerare gli dei”.
32 - Plat. 14c e 13d; il tema fu trattato da Platone anche nel Protagora, Plato 330b, dove ὁσιότης rientra come aspetto dell’ἀρετή (virtù), in unione con ἐπιστήμη (conoscenza), δικαιοσύνη (giustizia), ἀνδρεία (valore) e σωφροσύνη (saggezza); nel dialogo Gorgia, Plato 507b, τὰ ὅσια e τὰ δίκαια (il giusto soggettivo ed il giusto oggettivo) sono aspetti dei τὰ προσήκοντα (le cose convenienti), il primo aspetto si riferisce al rapporto degli uomini con gli dei, il secondo al rapporto degli uomini con gli uomini; nella Repubblica, Plato 441c-443b, ὁσιότης non compare come qualità autonoma, ma è ricompreso nella sfera di δικαιοσύνη (giustizia).
33 - Cic. De off. II 11; De fin. II 73; Top. 90.
34 - Cic. De nat. deor. I 3; I 14.
35 - Cic. De nat. deor. I 115; I 116; I 122; I 123.
36 - Cic. De nat. deor. II 5.
37 - Rüpke 2014, p. 187.
38 - Cic. De nat. deor. I 3: “Vi sono infatti e vi sono stati filosofi che pensavano che dei non avessero nessuna preoccupazione per le azioni degli uomini. Ma se la loro opinione è giusta, come potrebbero esistere la pietas, la sanctitas, la religio?”.
39 - Ibid.: “Così come le restanti virtù, allo stesso modo la pietas non può essere racchiusa nell’aspetto di una falsa simulazione, e una volta eliminata la pietas, necessariamente saranno eliminate anche la sanctitas la religio”.
40 - Cic. De nat. deor. I 4.
41 - Il legame di solidarietà sanctitas-religio appare confermato da un locus della pro Plancio laddove Cicerone associa in un’unica definizione gli uomini sancti e religionum colentes: Qui sancti, qui religionum colentes, nisi qui meritam diis immortalibus gratiam iustis honoribus et memori mente persolvunt? (Chi possiamo dire buono e religioso, se non chi con giusti onori e mente che mantiene il ricordo ringrazia gli dei immortali come meritano?).
42 - Stolz 1894, p. 792.
43 - Cic. Sest. 109; il sintagma honestates civitatis può avere anche il significato di “cittadini magistrati”, stante honos = magistratura.
44 - “(Questi filosofi) non si limitano ad eliminare la superstizione che reca con sé un inconsistente timore degli dèi, ma anche la religio che consiste nel pio culto degli dei.
45 - Sabbatucci 1985, p. 43.
46 - Cic. Verr. II 4, 107: “La devozione a livello privato e pubblico di tutta la Sicilia verso la dea Cerere di Enna è degna di ammirazione”.
47 - Cic. Verr. II 4, 72: Hoc translatum Carthaginem locum tantum hominesque mutarat, religionem quidem pristinam conservabat (Questa statua, una volta trasferita a Cartagine, aveva cambiato soltanto sede e persone, ma conservava la precedente devozione).
48 - Sabbatucci 1985, ibid
49 - Dörner 1981, pp. 85-86.
50 - Simonsohn 2014, pp. 13-15.
51 - Per l’introduzione del culto di Iside durante il periodo sillano abbiamo la testimonianza di Apul. Met. XI, 30; Cicerone accenna al culto isiaco in de div. I, 132: Isiacos coniectores. In proposito rimane indispensabile Malaise 1972, part. pp. 362-365.
52 - Santi 1985, pp. 48-51.

Bibliografia :
Appuhn 1935: Ch Appuhn (ed.), Cicéron, De natura deorum - De la nature des dieux, Paris 1935Auvray-Assayas 1997: C. Auvray-Assayas, L’ordre du deuxième livre du De natura deorum de Cicéron: Ange Politien et la philologie moderne, «Revue d’histoire des textes» 27 (1997), pp. 87-108. Bouter 2011: C. Bouter, Cicero’s de Natura Deorum and Minucius’ Octavius, Raleigh 2011 Boyancé 1962: P. Boyancé, Les preuves stoiciennes de l’existence des dieux après Cicéron (De natura deorum, livre II), «Hermes» 90 (1962), pp. 45-71 Brooks 1896: F. Brooks (ed.), Marcus Tullius Cicero, De Natura Deorum (On the Nature of the Gods), London 1896 Brunt 1989: P.A. Brunt, Philosophy and Religion in the Late Republic, in M. Barnes, J. Griffin (edd.), Philosophia Togata: Essays on Philosophy and Roman Society , Oxford 1989, pp. 174-198 De Filippo 2000: J.G. De Filippo, Cicero vs. Cotta in de natura deorum, «Ancient Philosophy» 20 (2000), pp. 169-187 De Francisci 1967: P. De Francisci, Appunti intorno ai «mores maiorum» e alla sotria della proprietà romana, in AA.VV., Studi in onore di Antonio Segni, vol. I, Milano 1967, pp. 613637 Delehaye 1927: H. Delehaye, Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l’Antiquité, “Subsidia Hagiographica” 17, Bruxelles 1927 Devoto 1987: G. Devoto, Storia della Lingua di Roma2, Bologna 1987 Dörner 1981: F.K. Dörner, Kleinasien, Herkunftsland orientalischer Gottheiten, in M. Vermaseren (ed.), Die orientalischen Religionen im Römerreich, “Études préliminaires aux religions orientales dans l’Empire romain” 93, Leiden 1981, pp. 73-95 Escobar 1999: A. Escobar, Sobre la naturaleza de los dioses, Madrid 1999 Feil 1986: E. Feil, Religio: Die Geschichte eines neuzeitlichen Grundbegriffs vom Frühchristentum bis zur Reformation, vol. I, Göttingen 1986 Gerlach ‒ Bayer 1990: W. Gerlach, K. Bayer (edd.), Cicero, De natura deorum libri III – Vom Wesen der Götter, München (Tusculum) 1990 Goar 1972: R.J. Goar, Cicero and the State Religion, Amsterdam 1972Auvray-Assayas 1997: C. Auvray-Assayas, L’ordre du deuxième livre du De natura deorum de Cicéron: Ange Politien et la philologie moderne, «Revue d’histoire des textes» 27 (1997), pp. 87-108. Bouter 2011: C. Bouter, Cicero’s de Natura Deorum and Minucius’ Octavius, Raleigh 2011 Boyancé 1962: P. Boyancé, Les preuves stoiciennes de l’existence des dieux après Cicéron (De natura deorum, livre II), «Hermes» 90 (1962), pp. 45-71 Brooks 1896: F. Brooks (ed.), Marcus Tullius Cicero, De Natura Deorum (On the Nature of the Gods), London 1896 Brunt 1989: P.A. Brunt, Philosophy and Religion in the Late Republic, in M. Barnes, J. Griffin (edd.), Philosophia Togata: Essays on Philosophy and Roman Society , Oxford 1989, pp. 174-198 De Filippo 2000: J.G. De Filippo, Cicero vs. Cotta in de natura deorum, «Ancient Philosophy» 20 (2000), pp. 169-187 De Francisci 1967: P. De Francisci, Appunti intorno ai «mores maiorum» e alla sotria della proprietà romana, in AA.VV., Studi in onore di Antonio Segni, vol. I, Milano 1967, pp. 613637 Delehaye 1927: H. Delehaye, Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l’Antiquité, “Subsidia Hagiographica” 17, Bruxelles 1927 Devoto 1987: G. Devoto, Storia della Lingua di Roma2, Bologna 1987 Dörner 1981: F.K. Dörner, Kleinasien, Herkunftsland orientalischer Gottheiten, in M. Vermaseren (ed.), Die orientalischen Religionen im Römerreich, “Études préliminaires aux religions orientales dans l’Empire romain” 93, Leiden 1981, pp. 73-95 Escobar 1999: A. Escobar, Sobre la naturaleza de los dioses, Madrid 1999 Feil 1986: E. Feil, Religio: Die Geschichte eines neuzeitlichen Grundbegriffs vom Frühchristentum bis zur Reformation, vol. I, Göttingen 1986 Gerlach ‒ Bayer 1990: W. Gerlach, K. Bayer (edd.), Cicero, De natura deorum libri III – Vom Wesen der Götter, München (Tusculum) 1990 Goar 1972: R.J. Goar, Cicero and the State Religion, Amsterdam 1972. Lobrano 1983: G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983 Malaise 1972: M. Maliase, Les conditions d pénétrations et de diffusion des cultes égyptiens en Italie, “Études préliminaires aux religions orientales dans l’Empire romain” 22, Leiden 1972 Pagliaro 1976: A. Pagliaro, Ἱηρός in Omero e la nozione di “sacro” in Grecia, in Saggi di critica semantica2, Firenze 1976, pp. 92-95 Pease 1913: A. S. Pease, The Conclusion of Cicero’s De Natura Deorum, «Transactions and Proceedings of the American Philological Association» 44 (1913), pp. 25-37 Pease 1955: A.S. Pease (ed.), M. Tulli Ciceronis De natura deorum libri III, vol. I, Cambridge (MA) 1955 Pease 1958: A.S. Pease (ed.), M. Tulli Ciceronis De natura deorum libri III, vol. II, Cambridge (MA) 1958 Rüpke 2014: J. Rüpke, From Jupiter to Christ. On the History of Religion in the Roman Imperial Period (ed. or. Von Jupiter zu Christus, Darmstadt 2011), Oxford 2014 Sabbatucci 1985: D. Sabbatucci, La storia delle religioni, Roma 1985 Santi 1985: C. Santi, I libri Sibyllini e i decemviri sacris faciundis, Roma 1985 Santi 2002 C. Santi, L’idea romana di sanctitas «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 68 (2002), pp. 239-264 Santi 2004: C. Santi, Alle radici del sacro. Lessico e formule di Roma antica, Roma 2004 Schmidt 1978: E.A. Schmidt, Die ursprüngliche Gliederung von Ciceros Dialog De natura deorum, «Philologus» 122 (1978), pp. 59-67 Simonsohn 2014: S. Simonsohn, The Jews of Italy: Antiquity, Leiden 2014 Sini 2003 F. Sini, Interpretazioni giurisprudenziali in tema di inviolabilità dei tribuni della plebe (a proposito di Tito Livio 3.55.6-12), «Diritto@Storia» 2 = Marzo 2003 (edizione on line) Stolz 1894: F. Stolz, Historische Grammatik der Lateinischen Sprache, vol. II, Leipzig 1894 van den Bruwaene 1970: M. van den Bruwaene (ed.), Marcus Tullius Cicero, De natura deorum, Bruxelles 1970.

Prof. ssa Claudia Santi
Università della Campania Luigi Vanvitelli
Dipartimento di Lettere e Beni Culturali

L'articolo Religionum sanctitates: a proposito di Cicerone, De natura deorum II 5 – Claudia Santi proviene da EreticaMente.

La nascita dei diritti reali e la comproprietà nel diritto greco antico e nel diritto romano arcaico – Giuseppe Chiàntera

$
0
0

Introduzione

L’archetipo storico dei diritti reali è il diritto di proprietà, consistente nel potere di escludere i consociati da qualsivoglia attività di utilizzazione di un bene, e quindi, in pratica, nel potere di godere  e di disporre illimitatamente del bene stesso. Si considerano rapporti giuridici reali i rapporti giuridici assoluti che avessero per oggetto una res in senso lato (cosa inanimata, animale, schiavo).  Una possibile vicenda del diritto di proprietà era che esso potesse spettare a più titolari insieme (comproprietà). In tal caso ciascuno dei titolari poteva esercitare tutti i poteri sul bene, concretando l’unico diritto. Riconosciuta sul piano logico e storico la comproprietà, è agevole il passaggio alla ulteriore concezione secondo cui alcune determinate facoltà del proprietario possono essere separate, in perpetuo o a tempo, dal tutto per essere attribuite ad altro soggetto attivo; il che implica l’effetto di costituire a favore di questo secondo soggetto un diritto reale, sia pur limitato a specifiche facoltà di utilizzazione, diritto che egli può far valere contro tutti i consociati, compreso il proprietario. La differenza tra i rapporti giuridici reali limitati e quello di proprietà sta in ciò: mentre i primi sono per definizione circoscritti a determinate facoltà (anelastici), il secondo presenta la caratteristica della elasticità, cioè dell’attitudine a ricomprendere automaticamente ogni facoltà di esercizio che gli sia stata resecata non appena venga ad estinguersi il relativo diritto reale limitato.

 

Il diritto di proprietà e comunione dei beni nel diritto greco antico.

Lo studio del diritto greco antico (attico), secondo parte della dottrina[1],  è stato falsato ad opera degli studiosi del diritto romano, i quali partivano dal presupposto che le categorie entro cui si voleva inquadrare il diritto romano fossero applicabili a qualunque ordinamento giuridico, e che fra i vari diritti dell’antichità esistessero stretti legami.

Questa tesi, per la richiamata dottrina, si è rilevata ad una più attenta analisi quasi inesistente.

A differenza del sistema giuridico romano, agli ordinamenti greci antichi si adatta molto di più la dottrina istituzionalista che non quella normativistica.  Infatti, il diritto attico, e in particolare quello di Atene, considerato come paradigma del diritto di una polis, presenta stratificazioni di ordinamenti diversi.

Bisogna comunque tenere presente che nell’ordinamento delle città attiche, accanto al diritto proprio della polis, esisteva un diritto sacrale, indipendente dall’ordinamento della città-stato e preesistente ad esso, e un diritto familiare, il quale, antecedente all’istituzione della polis, ha origine dal rapporto fra i membri della famiglia e tra le famiglie stesse.

Questo diritto familiare si distingueva in un diritto familiare interno, che disciplinava i rapporti dei membri della famiglia, le sorti del patrimonio familiare e il culto, ed in un complesso di rapporti consuetudinari vigenti ab inizio fra gruppi familiari diversi[2].

Per quanto riguarda il diritto di proprietà, bisogna tener presente che presso i Greci manca una nozione specifica di proprietà, che è una conquista peculiare della giurisprudenza romana. Essi concepivano la proprietà nei termini di un possesso momentaneamente libero da pretese altrui[3] ; di guisa che, mentre alla stregua del diritto romano classico, o si è proprietari o non lo si è, secondo il ricorrere o meno di certi requisiti obiettivi, per i Greci, all’opposto, una medesima persona nella medesima situazione sarà proprietaria di una cosa se non vi siano altri pretendenti dotati di un diritto più forte al possesso, e, viceversa, non lo sarà se il suo diritto di possedere sia deteriore rispetto a quello di qualche altro pretendente.

 

La nascita dei diritti reali nel diritto romano arcaico.

Nel sito della futura città di Roma, nel periodo che va dal 1050 all’ 870 A.C., accanto al nucleo abitativo insediato sul Campidoglio (Saturnia), vi è la comparsa di un nuovo insediamento nella zona del Comizio, probabilmente presso la fonte del Tulliano (Carcere Mamertino). Sul Palatino i nuclei abitativi del Cermalus e Palatium insediano la zona a valle presso la fonte di Diuturna, zona precedentemente dedicata alla sepoltura (tombe a incinerazione).  La zona del Velabro (San Giorgio a Velabro, Arco di Giano) è, invece, rimasta come luogo di sepoltura. Da qui l’immagine del Velabro come palude infernale.

Per quanto riguarda la Velia (Chiesa di Santa Francesca Romana), non si hanno ancora reperti che attestino la presenza di insediamenti anteriori all’ottavo secolo A.C..

In questa epoca, trascorso il tempo di Saturno[4], caratterizzato dall’assenza di leggi e dalla proprietà comune, cioè dall’assenza di assegnazione durevole della terra resa possibile dalle semine che si rinnovano ogni anno, sembra svolgere un nuovo ruolo l’arboricoltura, forma sviluppata di coltivazione che dovette per la prima volta implicare un controllo stabile della terra da parte di primissime famiglie gentilizie pre-urbane, reso necessario dalla crescita lenta delle piante e dal conseguente sfruttamento graduale e di lunga durata degli alberi e degli arbusti.[5]

Da qui la necessità per le grandi famiglie dedite all’arboricoltura di poter disporre di confini certi, segnati da pietre terminali riconosciute dalla comunità e considerate inamovibili. Le prime pietre terminali stanno ad indicare l’emergere del primo concetto di inviolabilità dei confini e di sanzione[6]; quindi di una primissima forma di diritto e di sovranità.  Questo insieme di circostanze implica una organizzazione comunitaria più avanzata.  Ad una agricoltura più sviluppata deve aver corrisposto una pastorizia più rispettosa delle coltivazioni e una più specializzata produzione casearia.

Le circostanze descritte segnano un salto di qualità nel processo di civilizzazione.   In questo periodo, infatti, si conoscono coltivazioni pregiate, confini certi, una pastorizia più progredita e, conseguentemente, prime forme di possesso stabile della terra da parte di grandi famiglie, quelle che controllavano la redistribuzione delle terre.

In  questi tempi arcaici, il possesso era un diritto sovrano sul territorio inquadrato in un ordine sociale che era compreso nel più vasto potere del pater. [7]

La successiva fondazione dello Stato (Città di Roma) non ha alterato il diritto interno della famiglia e ha lasciato perdurare l’esclusività del dominio e la tendenza alla piena libertà del fondo, espressa nel limitato numero delle servitù rustiche[8].

A questa assoluta indipendenza arcaica del pater vanno ricondotti, al tempo della nascita della città,  il principio della libertà del potere di disposizione dei beni, la non natura reale dell’enfiteusi e della superficie, la tipicità delle servitù e la non conoscenza degli oneri reali.[9]

Successivamente, alla fine dell’età regia, alla proprietà fondiaria sono stati talvolta congiunti doveri di natura pubblicistica, che dimostrano come lo Stato iniziasse a subordinare i diritti dei privati a fini di interesse generale.

 

 La comproprietà familiare e la comproprietà iure civili nel diritto greco antico.

Agli inizi della sua storia giuridica, in una comunità la terra può essere sottoposta sia al regime della indivisione che a quello della proprietà privata. Aristotele nella Politica[10] riporta tre esempi di indivisione della terra diffusi presso i popoli antichi.

Un primo esempio può essere dato dalla terra divisa in modo che ciascun gruppo possa coltivare un appezzamento, mettendo in comune i prodotti  per la consumazione.

In secondo luogo, è possibile che la terra venga coltivata in comune e i frutti vengano divisi tra gli appartenenti dei gruppi.

Infine, può avvenire che la terra sia coltivata in comune e sempre in comune vengano consumati i prodotti.

In antica Grecia, secondo alcuni autori[11] vi era la situazione in cui la terra, pur restando di pertinenza della collettività, veniva divisa ed assegnata a ciascun gruppo familiare per la coltivazione; gruppo familiare che, poi, consumava i prodotti della terra assegnatagli.

Il fatto che, secondo il citato autore, ci fossero divisioni ed assegnazioni di lotti di terreno, consente di escludere che in antica Grecia vigesse il regime di comunione attuato attraverso la coltivazione in comune [12].

Comunque, risulta ancora incerto quale fosse il diritto che il gruppo, e per esso il suo capo, acquistava sul territorio assegnato;  cioè, se si trattasse di un semplice diritto di godimento revocabile o invece di un vero e proprio diritto di proprietà.

Probabilmente, secondo alcuni,[13]  i beni mobili e in particolare gli effetti personali sarebbero rientrati nella sfera di disponibilità dei singoli individui; i beni immobili, viceversa, almeno in epoca remota, sarebbero appartenuti alla collettività, che avrebbe potuto a suo piacimento sottrarli agli assegnatari.

In seguito, in una fase successiva, si sarebbe riconosciuto al gruppo familiare un diritto più forte, che potrebbe essere qualificato come diritto di proprietà familiare.[14]

Infine, vi sarebbe stata una terza fase nella quale sarebbe stata ammessa la possibilità che ai singoli individui di diventare titolari di un vero e proprio diritto di proprietà sugli immobili.[15]

Esaminiamo, ora, più da vicino, il fenomeno della comproprietà familiare.

In antica Grecia, il gruppo familiare si identificava con il suo capo. Nei rapporti esterni costui era considerato l’unico titolare del diritto di proprietà; nei rapporti interni, invece, il patrimonio era considerato di proprietà dell’intero gruppo.   Le fonti, comunque, ci mettono di fronte a numerose altre ipotesi in cui il diritto di proprietà appariva fissato in capo a due o più soggetti, dando luogo al fenomeno vero e proprio della comproprietà.[16]

Le fonti, infatti, attestano l’esistenza della comproprietà fraterna o parentale. Questa si verificava quando, alla morte del padre, gli eredi non manifestavano l’intenzione di procedere alla divisione dei beni facenti parte del gruppo familiare.[17]  Era poi possibile che due o più persone fossero comproprietari di singoli immobili ovvero di cose mobili di vario genere.

Infine, a differenza del diritto vigente in antica Roma, il diritto greco ammetteva la proprietà per parti materialmente distinte di uno stesso fondo e la divisione di uno stesso immobile per piani orizzontali o verticali.

Erano, inoltre, oggetto di comproprietà i beni appartenenti alle associazioni, che il diritto greco non arrivò mai a personificare, e il cui patrimonio, pertanto, era considerato proprietà di tutti gli associati, nonché ancora le parti indivisibili degli immobili oggetto di comproprietà pro diviso.

In ultimo, secondo una autorevole dottrina,[18]  si usava ricorrere con notevole frequenza alla comunione di capitali per esigenze di carattere commerciale.

In merito al regime giuridico della comproprietà, il diritto greco antico prevedeva due figure: quella della comproprietà solidale, che sta alla base della comproprietà familiare e di tutti i tipi di comproprietà ad essa ispirati, e quella della comproprietà per quote, che sta alla base della  comproprietà a scopi commerciali.   La comproprietà solidale si caratterizzava per il fatto che ciascun proprietario era considerato titolare dell’intero diritto di proprietà, e poteva compiere pertanto qualunque atto di disposizione, sia giuridica che materiale, della cosa. Ciò vuol dire che ogni partecipante poteva non solo servirsi dei frutti sino al soddisfacimento dei sui bisogni, ma anche alienare validamente la cosa, donarla o costituire su di essa diritti reali di garanzia.

Tutti gli altri comproprietari potevano opporsi all’atto compiuto da uno dei comproprietari, reagendo con una intimazione a non agire, fatta alla presenza di testimoni.

In questo caso, all’intimato si presentava un’alternativa: obbedire all’intimazione, astenendosi dal compiere l’atto o investire l’organo giurisdizionale del potere di decidere sulla opportunità dell’atto stesso.

Al regime di comproprietà solidale descritto, si contrapponeva la comunione di capitali.  In questa figura giuridica appariva funzionante in pieno il criterio della quota, che è l’inverso della solidarietà dominante nella comproprietà dei beni infungibili.

Rientrava in questo tipo di comunione il regime delle parti indivisibili dell’immobile nella communio pro diviso. Tale comproprietà, infatti, doveva essere disciplinata in tutto e per tutto come proprietà di quote afferenti alle porzioni materiali dell’immobile in rapporto alla loro entità. Infatti, negli atti di alienazione delle parti materiali, in cui l’immobile era suddiviso, veniva indicato spesso con una frazione matematica il diritto sulle parti accessorie indivisibili, con il conseguente trasferimento della proprietà sulle porzioni distinte.

La comunione si poteva sciogliere in due modi:  per accordo o per sentenza.

Alla divisione stragiudiziale i contitolari della proprietà  di una cosa o di un complesso patrimoniale potevano ricorrervi in qualunque ipotesi di condominio.

Per quanto riguarda la divisione per atto processuale, occorre distinguere se fra le parti vi fosse controversia intorno all’appartenenza del diritto o soltanto un conflitto di interessi circa il miglior modo di giungere alla determinazione delle porzioni materiali da aggiudicare ai singoli condividenti.

Nel primo caso, bisognava intentare un processo di rivendicazione parziale o di assegnazione di parte della coeredità; nel secondo caso, si ricorreva alla giurisdizione volontaria, anche se il procedimento incominciava con una citazione orale di colui o di coloro che assumevano l’iniziativa della divisione giudiziaria nell’interesse comune.

 

Il mancipium e lo sviluppo della proprietà nel diritto romano arcaico.

Nel diritto privato romano, il rapporto giuridico di proprietà prese il nome di dominium ex iure Quiritium. Il dominium derivò dall’antico mancipium familiare, cioè dal rapporto giuridico assoluto costituito a favore del pater familias sugli elementi della familia, il microrganismo politico-economico costituito da uomini liberi e schiavi, animali e cose materiali.

Quando i membri liberi della famiglia si furono separati dalle res in  senso lato, il mancipium rimase limitato a queste sole, che si dissero, ancora ai tempi delle XII tavole, familia o res mancipi.

Senonchè, con l’intensificarsi della vita economica, si accrebbe la ricchezza privata ed i patres si trovarono ad avere in piena disponibilità nuove categorie di beni che non erano quelle tradizionalmente rientranti nel concetto di famiglia. Si ritenne, pertanto, che su questi altri beni (cd: pecunia o res nec mancipi) i patres avessero un diritto soltanto analogo al mancipium. Più tardi ancora, ogni diritto assoluto relativo a res, sia mancipi che nec mancipi, fu unificato nel concetto di dominium ex iure Quiritium.

Quindi, nel sistema del ius civile il dominium ex iure Quiritium era un rapporto giuridico assoluto e illimitato, avente ad oggetto qualsiasi res animata o inanimata, inoltre, Il dominium ex iure sin verso la fine del III secolo D.C. era esente da tributi [19]

Il concetto di sovranità (manus) comprende, insieme all’elemento potestativo del comando, anche quello della protezione e si adegua al carattere ed alla funzionalità del gruppo, all’organizzazione ed agli elementi religiosi che vi si riconnettevano.   Questo dominio (mancipium) esprime il concetto di una attribuzione esclusiva dell’oggetto al soggetto, cioè il concetto di appartenenza.

Di fronte al concetto di mancipium si deve essere affermata, sin dai tempi antichi, una  disposizione di carattere economica della resRes era considerato quel bene che presentava un utile e a cui fosse riconosciuta la possibilità di essere oggetto di attribuzione strumentale ai fini umani. Questa attribuzione per lo sfruttamento economico ha rappresentato la prima forma di proprietà.[20]

Per intendere i particolari caratteri della proprietà romana occorre considerare la stessa in rapporto alla natura originaria del gruppo familiare, che era una piccola comunità sovrana al comando di uno solo, padrone delle persone e delle cose, con un piccolo territorio chiuso ad ogni estranea ingerenza e con un suo patrimonio di schiavi e di animali da lavoro. Pertanto la proprietà romana fu signoria assoluta, la quale non ebbe dapprima altri limiti che in motivi di religione, di tutela della indipendenza reciproca dei fondi e di interessi pubblici.[21]

La proprietà romana assorbiva necessariamente tutto ciò che comunque in essa s’incorporava, perché, data la sua assolutezza e la sua autonomia, non era immaginabile che altri si potesse affermare proprietario di una parte della cosa stessa.

 

Il consortium e la communio.

Nella Roma arcaica la prima manifestazione del fenomeno della comproprietà era rappresentata dal consortium.  Esso si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra i discendenti soggetti alla immediata potestas del defunto.

In questa figura giuridica arcaica, ciascun consorte poteva, pure senza il consenso degli altri, sia gestire e fruire delle cose comuni sia alienarle.  Poteva, comunque, disporre per l’intero, con effetti verso tutti gli appartenenti al consortium;  quindi, ciascun partecipante alla comunione era considerato proprietario dell’intero.

A partire dalle XII tavole, attraverso l’actio familiare erciscundae si realizza la divisione del consortium.

Tra gli estranei, invece, ai sensi della lex-Licinnia, la procedura per addivenire alla divisione era l’actio communi dividendo.   Infatti, anche tra gli estranei si poteva costituire il consortium mediante il ricorso ad una legis actio.

Vi era anche un altro tipo di comproprietà: la communio. Essa poteva essere volontaria o incidentale. la communio volontaria si costituiva per volontà degli stessi comproprietari; quella incidentale si costituiva prescindendo dalla volontà dei partecipanti alla communio.

In questa figura giuridica, a differenza del consortium, ciascun partecipante era titolare di una quota ideale del bene.   Infatti, i Romani, muovendo dal principio della impossibilità che più persone avessero per intero la piena signoria sopra la stessa cosa, affermavano che la cosa comune apparteneva  ai condomini non nel senso che fosse per intero di ciascuno di essi, né nel senso che di loro fossero parti materiali della cosa, ma nel senso che tutta la cosa era dei condomini per parti indivise.  E la parte indivisa non era che una  concezione giuridica per rappresentare il limite di ogni singolo diritto di proprietà, determinato dalla concorrenza degli altri diritti.

I Romani, dunque, ammettevano che a ciascun condomino spettasse un diritto di proprietà, limitato ad una parte intellettuale della cosa dalla concorrenza degli altri diritti.

La natura del condominio come pluralità di diritti di proprietà sopra una cosa è confermata dai frammenti di Gaio. Ma una più sicura conferma offrono le norme che regolavano il diritto di accrescimento fra condomini.

Questo diritto è attestato dalle fonti per il caso di abbandono della sua parte, fatto da uno dei condomini. Quanto alla manomissione, se uno dei condomini manometteva nelle forme prescritte il servo comune, perdeva la sua parte e lo schiavo diventava tutto, per diritto di accrescimento, dell’altro condomino; vale a dire che il diritto di proprietà di costui era stato limitato dal concorso del diritto di proprietà dell’altro e che, estinto il diritto concorrente, si espandeva nella sua pienezza

Nella communio il comproprietario poteva, senza il consenso degli altri, alienare la propria quota, ma nulla di più; poteva su di essa costituire usufrutto e pegno; partecipava alle spese nella misura corrispondente alla sua quota e, nella stessa misura, faceva suoi i frutti; pure pro quota rispondeva dei danni che la  cosa comune avesse provocato a terzi.

L’eco del regime dell’antico consortium si coglie nella regola per cui ciascun comproprietario poteva da solo, senza il consenso preventivo degli altri, operare nella gestione e fruizione della cosa comune, e nel principio per cui, trattandosi di innovazioni, spettava a ciascuno dei contitolari il diritto di veto.

Attraverso lo ius proibendi, infatti, uno solo dei condomini poteva impedire con la forza, di sua autorità[22] qualsiasi azione iniziata dagli altri sulla cosa e distruggere l’opera compiuta senza il suo consenso. Tale figura risulta informata alla concezione del condominio come pluralità di diritti di proprietà.  Ogni condomino aveva il diritto di fare sulla cosa comune le spese occorrenti perché fosse possibile l’amministrazione della propria parte e di chiedere agli altri condomini il rimborso delle spese sostenute per le quote loro spettanti.

Ogni condomino, infine, poteva chiedere la divisione della cosa comune e a tale diritto non era lecito rinunciare che per un tempo determinato.  Serviva a tal uopo l’actio communi dividendo.  In essa si teneva conto di tutto ciò che l’un condomino doveva all’altro, ripartendosi equamente gli utili della cosa, i danni a causa di essa, le spese fatte sulla cosa o a causa della medesima per il comune vantaggio.

 

Genesi della proprietà fondiaria.

In merito ai beni immobili fondiari, le comunità preciviche che concorsero alla formazione della città non  riconoscevano la proprietà privata su tali beni. Le terre appartenevano alla collettività ed erano prevalentemente adibite a  pascolo. Queste terre costituivano l’ager publicus. Esse venivano in buona parte lasciate in godimento esclusivo a privati per estensioni talora notevoli, dapprima in forza di provvedimenti a carattere generale che ne consentissero l’occupazione nei limiti delle possibilità di sfruttamento dell’occupante, più tardi, in forza di concessioni individuali revocabili.

In epoca regia, altre porzioni di ager publicus cominciarono ad essere oggetto di assegnazioni a carattere definitivo, cosicché i beni in tal modo acquistati divenivano propri dei privati ex iure Quiritium.

In  epoca storica, la proprietà privata traeva consistenza e si alimentava a mezzo della proprietà pubblica, l’ager publicus, dal quale soltanto a mezzo di formali atti d’investitura si potevano distaccare delle porzioni per convertirle in fondi o agri privati. A sua volta, l’agro pubblico era costituito e si ampliava con le terre di conquista.

Le terre confiscate venivano in parte assegnate in pieno dominio fra privati, sia collettivamente, con la costituzione di colonie, sia mediante assegnazioni individuali per capi.

Altre porzioni erano, invece, vendute a privati non in pieno dominio ma a titolo di possesso stabile e irrevocabile. Su queste terre lo Stato riscuoteva, a volte solo nominalmente, un canone..

Restavano, infine, i terreni incolti che venivano lasciati alla libera occupazione dei privati, perché li coltivassero verso pagamento allo Stato di una parte del prodotto (di solito la decima parte ovvero un quinto del frutto degli alberi). Anche il dominio di queste terre rimaneva sempre allo Stato e inoltre non poteva legalmente verificarsi alcuna usucapione, giacché il loro possesso si considerava come precario e soggetto a revoca in qualsiasi momento.

Plinio (lib. 18, c.II) afferma che con questo sistema si distribuiva la terra anche durante il regno di Romolo, all’origine stessa dell’Urbe.

Fino alla prima guerra punica, come attesta anche Varrone, le assegnazioni non eccedevano i due jugeri a persona. Fondi assai modesti giacchè, essendo lo jugero pari a circa un quarto di ettaro, si raggiungeva appena il mezzo ettaro.

Questa terra (heredium) nei primi secoli di Roma, quando la più gran parte dei mezzi di sussistenza traeva origine dalla pastorizia, aveva lo scopo di assicurare quel tanto di proprietà privata sufficiente per il ricovero delle persone e degli animali, per la coltura ed altro strettamente indispensabile ai bisogni di ciascuna famiglia.

Successivamente, le dimensioni delle assegnazioni subì continui incrementi: 5, poi 8 jugeri, poi da 30 a 40 jugeri, fino al massimo consentito dalla legge Licinia (367 A.C.), in virtù della quale nessun cittadino poteva possedere più di 500 jugeri di terra.

All’assegnazione di porzioni di ager publicus in proprietà privata si procedeva mediante limitatio, un rito che aveva connotazioni sacrali e che si compiva con l’intervento del magistrato e di un agrimensore. Nel contempo, si aveva cura di lasciare attorno a ciascun apprezzamento uno spazio libero, largo non meno di cinque piedi (30 cm.), il quale era detto limes, e non poteva essere usucapito.

Roma 18 maggio 2012
Giuseppe Chiàntera

NOTE

[1] Louis Genet, Diritto e civiltà in Grecia antica, La nuova Italia, 2000;  Arnaldo Biscardi, diritto greco antico, Giuffrè, 1982.

 

[2]  A. Biscardi, op. cit., pag 10

 

[3] Paoli, La difesa del possesso in diritto attico, Studi Albertoni, Padova 1937, pag 311

[4] Il Mito racconta che Saturno spodestato dal figlio Giove si rifugia nella Terra chiamata Italia sulla quale, a quel tempo, regnava Giano. Saturno fu un Re-Sacro il quale nel periodo del suo regno darà al regno il nome di Saturnia. È un mito antichissimo e molto importante per le genti italiche; fu uno dei Re degli arcaici tempi dell’Età dell’Oro, l’Età “del miele che stillava libero dalle querce”.

 

[5] Andrea Carandini, La nascita di Roma, Einaudi.

 

[6] A. Magdelain, De la royaute et du droit de Romulus a Sabinus (Saggi di storia antica), 1995

 

[7] Andrea Carandini, op. cit.

[8] Bonfante, Corso di diritto romano. La proprietà. II, I 205

[9] Grosso, l’evoluzione storica delle servitù nel diritto romano e il problema delle tipicità, Studia et Doc. III, 1937, 265 e ss.

 

[10] Aristotele,  Politica II, 1262b.

 

[11]  A. Biscardi, op. cit., pag. 178.

 

[12] Platone, leggi, 740.

 

[13] Asheri, Attribuzione di terre nell’antica Grecia, in Memorie Accad. Scienze Torino, 4°, X, 1966.

 

[14] Brunk, Totenteil und Seelgerat im griechischen Recht. Eine entwicklungsgeschichtliche Untersuchung zum Verhaltnis von Recht und Religion mit Beitragen zur Geschichte des Eigentums und des Erbrechts, Munchen, 1970.

 

[15]  Guiraud, La propriété fonciere en Grèce jusqu’à la consuete romaine, Paris 1893.

 

[16] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955.

[17]  Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955, citato, pag. 108.

[18]  Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955 ,citato, pagg. 115-118.

[19] M. Marrone, lineamenti di diritto privato romano, Torino pag. 166.

 

[20] G. Grosso,Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Torino, 1967, 143 e ss..

 

[21] S. Di  Marzo, Istituzioni di Diritto Romano, Milano, pag. 197.

 

[22]  Riccobono, Communio e comproprietà, Essays in legal history, Oxford, 1913, pag.39, che è studio fondamentale.

∈∋∈∋∈∋

CHIANTERA GIUSEPPE, nato a Napoli e residente in Roma è laureato in giurisprudenza (Roma, La Sapienza); specializzazione post-laurea (SSPA); docente  presso la  Scuola Centrale Tributaria  E. Vanoni. Direttore tributario presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze - Dipartimento delle Finanze.  

PUBBLICAZIONI sulle riviste: I TRIBUTI;  IL FORO AMMINISTRATIVO;  IL CONTO;  Diritto & Diritti su carta; GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA;  www.diritto.it;   www.amministrativo.it; www.giust..it;; www.Filodiritto.it; www.LexItalia.it; Diritto&Formazione; www.Altalex.it;  La Pratica Forense-in Diritto dei servizi pubblici.

L'articolo La nascita dei diritti reali e la comproprietà nel diritto greco antico e nel diritto romano arcaico – Giuseppe Chiàntera proviene da EreticaMente.

Imperatore e Teurgo: le epistole pontificali del Divo Giuliano – Luca Valentini

$
0
0

Uno è Dio, uno è Giuliano Augusto” (1)

Per le benemerite Edizioni di Ar, il prof. Claudio Mutti è tornato a curare un nuovo testo della collana Paganitas, il XXXVIII, introducendo e presentando, con testo greco a fronte, le dieci epistole che l’ultimo Imperatore gentile di Roma rivolse ai vari sacerdoti dell’Ecumene  nell’estremo tentativo di rinvigorire il Mos Maiorum e i culti privati, pubblici e misterici ad esso ricollegabili, in piena espansione del Cristianesimo, nel IV sec.d.c. Il curatore dell’opera, già si era occupato del divo Flavio Claudio Giuliano, nel testo “Uomini e Dei” (2), la raccolta di tutte le opere del Cesare, in cui, però, non sono comprese le lettere che la pubblicazione, che ivi recensiamo, contemplano.

L’introduzione del prof. Mutti risulta essere essenziale per una profonda comprensione della personalità carismatica in riferimento, offrendo al lettore la possibilità di addentrarsi maggiormente, secondo la giusta visione tradizionale, nella prospettiva teurgica che caratterizzò l’ultimo Imperatore che difese la Tradizione di Roma. Due esempi di similari studi comparativi possono essere associati all’opera in discussione: il testo di Nello Gatta “Giuliano Imperatore” (3) ed il recente testo di Arnaldo Marcone “Giuliano” (4). Da tutti e tre i testi scaturisce la compresenza nella medesima ed aurea personalità dell'Augusto sia della figura del Basileus sia del ruolo sacrale del Pontifex Maximus. Come in tutte le civiltà tradizionali, come nella prisca figura di Romolo, primo Re di Roma ed Augure, rinnovatasi in Ottaviano Augusto, fondatore dell’Impero e grande riformatore della religiosità romana, nel Divo Giuliano la sfera della Politeia assurge nuovamente, e non solo nominalmente, alla dovuta ed inseparabile connotazione sacrale. La regalità sacerdotale dei primordi, come annota saggiamente il curatore, in Giuliano, in linea con gli insegnamenti neoplatonici di Giamblico, diviene regalità teurgica, rinnovandosi la dimensione magica che, nella sfera pontificale romana, avevano già posseduto ed espresso, per esempio, gli Auguri ed i Flamini, e non solo:

Giamblico aveva indicato nella vocazione sacerdotale la condizione idonea per intraprendere lo studio e la pratica della teurgia, che avrebbe reso attiva la conoscenza del divino innata nell’animo umano” (5).

In un quadro rappresentativo del cosiddetto enoteismo o monoteismo solare, in cui il Basileus è per la sfera politica ciò che Helios nel cosmo, cioè le rappresentazioni del potere numinoso ed apollineo, il sovrano era tale solo per dignificazione sacrale ed iniziatica, quale polo irriducibile della Civitas, in cui lo iato cristiano ed agostianiano, tra città di Dio e città degli uomini, possa essere risolto e superato. Non casualmente un Evola sul Divo Giuliano e la sua teurgica sacralità si espresse nei seguenti termini:

Così nella rivalutazione, tentata da Giuliano, dell’antica tradizione sacra romana, è l’idea <<esoterica>> della natura degli <<dèi>> e della <<conoscenza>> di essi che si fa valere” (6).

L’Imperium, quindi, è l’adesione totale al modello divino, è un’azione sacra che trasmuta e sublima il Caos primordiale in Cosmo, in Ordine Sacro. E’ il ricondurre la molteplicità della Manifestazione all’Unità del Principio, con uno stile organico, che tollera le differenze, le eleva, le accoglie nel Pantheon, assicurando tramite l’Auctoritas la giusta armonia, secondo la regola romana dello “unicuique suum tribuere”, cioè la grandezza di Roma che realizza l’Ordine per mezzo della Giustizia. Tale è l’idea che rifulge nella vita, nelle opere, negli scritti di Giuliano Imperatore, un uomo che integralmente ha interpretato ed esplicitato la volontà divina, così in Alto quanto in Basso, secondo la regola ermetica, cioè l’autentica concezione politica e teurgica, che fa assurgere Helios, quale forza trascendente e metafisica, ad espressione dell’Ente, che legittima e consacra l’Autorità dello Stato ed il suo ordinamento, in cui il Sovrano è incarnazione autentica del Sacro che informa e sublima il Politico:

Questo cosmo divino e bellissimo, che dall’alto della volta celeste fino all’estremo limite della terra è tenuto assieme dall’indistruttibile provvidenza del dio, esiste increato dall’eternità ed è eterno per il tempo restante, da null’altro essendo conservato se non direttamente dal quinto corpo – la cui sommità è il ‘raggio di sole’-; poi, a un grado per così dire superiore, dal mondo intelligibile; e, in senso ancora più elevato, dal Re dell’universo, nel quale tutte le cose hanno il loro centro” (7).

Le Epistole pubblicate, pertanto, riflettono tale tensione spirituale, pongono l’estrema esigenza di riqualificare il rango e lo spessore interiore di coloro che andavano ad assumere cariche sacerdotali, i prescelti essendo spesso ripresi da cerchie filosofiche neoplatoniche o da ambiti misterici legati al nume eroico di Mithra. Si evince come Giuliano intendesse sia rendere centrale il culto della Magna Mater

Sono pronto ad aiutare gli abitanti di Pessinunte, se si renderanno favorevole la Madre degli dèi; se invece la trascureranno, non solo non saranno esenti da biasimo, ma, per non parlare duramente, badino a non gustare anche la nostra inimicizia” (8)

sia conformare la caricare pontificale ad un precisa adesione interiore, inerente ad una gravitas strettamente romana, strettamente catartica e pitagorica, al di là di qualsivoglia appartenenza di censo o di classe. Dalla X Epistola (9), si esplicita tutta la conoscenza esoterica che l’Augusto intendeva rimanifestare nei culti tanti privati quanto pubblici: il sacerdote, infatti, doveva essere dedito alla filantropia, all’aiuto continuo verso i più deboli ed i più poveri; doveva altresì accostarsi al culto più volte al giorno, almeno al mattino ed alla sera, possibilmente tre volte; doveva avere una corretta relazione con i simulacri, intendendoli come immagini riflesse di archetipi trascendenti, la cui distruzione ad opera dei Cristiani non ne potevano inficiare l’esistenza e l’eternità.

Si evince, pertanto, uno strettissimo legame tra le virtù, intese in senso sia civico che purificatorio e sacerdotale, per il raggiungimento di un preciso stato ontologico, indispensabile per divenire pontefici, cioè collegamenti effettivi tra Cielo e Terra. Ciò lo si ritrova nel Commento al Sogno di Scipione di Macrobio (10), in cui vengono elencati, riprendendo un insegnamento plotiniano, quattro generi di virtù (politiche, purificatrici, animiche ed esemplari), che gradualmente educano il cittadino e lo conducono al contatto diretto con l’Intelletto Divino. In tale ottica una espressione dello stesso autore è altamente simbolica: commentando Cicerone, infatti, Macrobio precisa come sia veritiera una distinzione tra virtù politiche e purificazioni divine, tra virtù attive e virtù contemplative, tra dimensione del Sacro e comunità dei cittadini, ma specifica anche come entrambe possano e debbano interagire per la ricerca della felicità, che è armonia ed applicazione del diritto, che, come argutamente ci ha più volte ripetuto Giandomenico Casalino, a Roma è sempre diritto sacrale.

In conclusione, non possiamo che lodare questo nuovo sforzo editoriale delle Ar, che felicemente hanno affidato al prof. Claudio Mutti, forse tra i più competenti studiosi della figura di Giuliano, la cura di queste Epistole, che reputiamo fondamentali per comprendere non solo la tensione spirituale della Paganitas resistente al declino, ma anche per recepire al meglio secondo quali canoni la Tradizione si sia poi successivamente perpetuata, quei vettori che noi rintracciamo, come indicato dai magisti di Ur, essenzialmente nell’alveo del neoplatonismo e dell’ermetismo.

Note: 1 – Cfr, E. Peterson Grandjean , HEIS THEOS, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1926, p. 270-273; 2 – Flavio Claudio Giuliano, Uomini e Dei, Edizioni Mediterranee, Roma 2004; 3 – Nello Gatta, Giuliano Imperatore, Edizioni di Ar, Salerno 1995; 4 – Arnaldo Marcone, Giuliano, Salerno Editrice, Roma 2019; 5 – Giuliano Imperatore, Epistole pontificali, Edizioni di Ar, Padova 2019, dall’introduzione di Claudio Mutti, p. 12; 6 - J. Evola, Giuliano Imperatore in Ricognizioni, Edizioni Mediterranee, Roma 1985, p. 162; 7 - Flavio Claudio Giuliano, Inno al Re Helios, in Uomini e Dei, op, cit, p. 80-1; 8 - Giuliano Imperatore, Epistole pontificali, op. cit., epistola IV, p. 49; 9 - Giuliano Imperatore, Epistole pontificali, op. cit., p. 63; 10 – Macrobio, Commento al Sogno di Scipione, Capitolo VIII, Edizioni Bompiani, Milano 2007.

Luca Valentini


ROMA: i miti della fondazione, il periodo arcaico ed il nome segreto – Luigi Angelino

$
0
0

La descrizione di ogni città o di ogni luogo presenta inevitabili difficoltà narrative, in quanto è sempre difficile dare un'impronta personale a quanto si scrive, cercando di non indulgere troppo nell'elaborazione di particolari né troppo scontati, né troppo votati ad un'aggressiva originalità. Parlare di Roma è senza dubbio un compito ancora più arduo e ricco di ostacoli, in considerazione della storia millenaria della città eterna diventata, nel corso dei secoli, paradigma di progresso culturale, civile e religioso, al punto da assumere un significato simbolico e semantico che trascende la sua stessa essenza. Le origini di Roma sono avvolte nella leggenda. Sulla derivazione del nome sono state azzardate tante ipotesi ed elaborate numerose ricostruzioni, ciascuna legata ad un filone particolare. Si può cominciare dai riferimenti mitologici: Roma, figlia di Italo, sposa di Enea o di suo figlio Ascanio; Romano, figlio di Odisseo e di Circe; Romo, figlio di Ematione, che Diomede condusse da Troia; Romide, tiranno dei latini, che espulse gli Etruschi dall'area territoriale circostante; Romolo e Remo, figli di Ascanio e leggendari fondatori della città. Alla precedente ricostruzione si può aggiungere il filone topografico che ricollega il nome della città eterna a Rumon o Rumen, il nome arcaico del Tevere, che presenta una evidente analogia alla radice del verbo greco rèo e al verbo latino ruo (scorrere). Infine, si può accennare ai riferimenti semantico-sintattici che intravedono legami con il vocabolo etrusco Ruma, che si può tradurre con “mammella”, alludendo al mito di Romolo e Remo che sarebbero stati allattati da una lupa, oppure più semplicemente alla conformazione territoriale della zona collinare presente tra il Palatino e l'Aventino; il vocabolo greco ròme, traducibile con forza, alla cui radice fonetica si ricollega anche il termine latino irregolare vis (nominativo), roboris (genitivo); fino ad arrivare all'originale e romantica ipotesi dello scrittore bizantino Giovanni Lido che, leggendo Roma al contrario, ricavava il termine latino Amor (1).

Come si accennava in precedenza, la nascita di Roma, individuata nel 21 aprile 753 a.C., ha caratteristiche leggendarie, anche alla luce di recenti scoperte nel Lapis Niger(2), secondo le quali la sua fondazione potrebbe risalire a circa due secoli prima. I primi insediamenti nell'area territoriale, dove sarebbe sorta la città eterna, si formarono sul colle Palatino proprio intorno alla metà del X secolo a.C. ma le prime tracce archeologiche sono riconducibili addirittura al XIV secolo a.C.. Alla fine del X secolo furono occupati anche i colli Esquilino e Quirinale, quando, come si può evincere da alcune scoperte archeologiche, dalla zona interna fino ad Ostia esisteva già una fitta rete di villaggi lungo il fiume Tevere (3). E' ragionevole pensare che la città di Roma si venne a creare mediante un progressivo fenomeno di aggregazione dei villaggi nel corso dei secoli, a somiglianza di quanto stava avvenendo per altri grandi centri dell'antichità. In quest'ottica, il personaggio della nota leggenda, chiamato Rmolo, potrebbe essere stato un capo tribù particolarmente autorevole che avrebbe portato a termine il processo di unificazione dei preesistenti insediamenti in una compagine unitaria.

Secondo Dionisio di Alicarnasso (4), i luoghi della futura città di Roma sarebbero stati occupati, già in epoca antichissima da popoli di stirpe greca. Per primi gli Aborigeni, provenienti dall'Arcadia, avrebbero stretto un'alleanza con i Pelasgi di origine tracia per cacciare i Siculi dalla zona. Di seguito, più o meno verso la metà del XIII sec. a.C., circa trent'anni dopo, sarebbero giunti alcuni abitanti della città greca di Pallantio (5) (da cui il nome al colle Palatino), guidati da un certo Evandro, ai quali, in un'ultima migrazione, si sarebbero aggiunti i seguaci del famoso Eracle (6), reduce dalla conquista dell'Iberia. In suo onore sul Palatino la tribù ormai stanziata avrebbe istituito un culto ed alcune festività. Spendiamo, a questo punto, qualche parola sul mito di Romolo e Remo, tramandato dalla maggior parte delle fonti antiche. I due gemelli sarebbero stati discendenti della dinastia dei re di Alba Longa, generati da Rea Silvia, figlia di Numitore, che si sarebbe unita con il dio Marte. Amulio, col timore che la discendenza di Numitore lo avrebbe spodestato dal trono, avrebbe ordinato di abbandonare i due gemelli in fasce sulle rive del Tevere. I bimbi, però, sarebbero sopravvissuti grazie all'istinto materno di una lupa e di seguito sarebbero stati cresciuti da un pastore di nome Faustolo. La lupa della leggenda potrebbe essere identificata con la moglie del contadino Faustolo, alla quale poteva essere stato attribuito il soprannome di “lupa”, in considerazione del suo passato da donna di facili costumi. Diventati giovanotti, i due fratelli avrebbero aiutato il nonno a ritornare sul trono, uccidendo Amulio e fondando una nuova città, appunto Roma. La leggenda della fondazione nacque in età repubblicana verso il III-II sec. a.C., arricchendosi di ulteriori particolari in età augustea, per nobilitare le origini della città che ormai dettava legge sull'intero mondo allora conosciuto. In particolare fu Virgilio nel suo poema più famoso, l'”Eneide”, che contribuì a rafforzare il legame tra Romolo e l'eroe troiano (7). Enea sarebbe sfuggito con alcuni compagni alla distruzione di Troia, giungendo in Italia dopo tantissime peripezie ed avrebbe fondato la città di Lavinio e, successivamente, suo figlio Ascanio avrebbe fondato la città di Alba Longa (8), inaugurando la dinastia di regnanti che sarebbe arrivata fino a Romolo. La leggenda narra che per stabilire chi fra i due gemelli avrebbe dovuto regnare sulla nuova città, si decise di affidarsi alla “volontà divina”, in grado di manifestarsi mediante il volo degli uccelli. Remo, collocatosi sul colle Aventino, avrebbe avvistato solo sei avvoltoi, mentre Romolo dal colle Palatino ne avrebbe scorto esattamente il doppio. A questo punto nacque una vivace disputa tra i due fratelli su quale elemento dovesse prevalere per la scelta del re: Remo dava più importanza al “momento” dell'avvistamento degli uccelli, in quanto cronologicamente era stato il prima, invece Romolo attribuiva maggiore importanza al numero degli uccelli osservati. Da qui nacque uno scontro armato che portò Remo alla morte, forse per la stessa mano di suo fratello. Un'altra variante della leggenda racconta che l'uccisione di Remo da parte del fratello si verificò a seguito del fatto che il primo superò il “sacro solco”, detto anche pomerium o sulcus primigenius (9), che delimitava i confini sacri della città di Roma come sancito dallo stesso Romolo. Egli, infatti, aveva promesso di uccidere chiunque l'avesse valicato e mantenne la parola data, anche quando a farlo fu proprio suo fratello. In ogni caso Romolo avrebbe officiato i riti necessari per consacrare la città al suo potere e ad un destino glorioso, che avrebbero influenzato l'intero cerimoniale sacerdotale dei secoli seguenti, provvedendo a far fortificare il nuovo insediamento e ad elevare una pregressa comunità di pastori in un corpo civile più organizzato ed evoluto. Si può dedurre che la narrazione semplificata con una leggenda era in realtà il compimento di un lungo processo di civilizzazione e di scontri per conquistare il potere durato qualche secolo.

La leggenda della lupa e della nascita di Roma, così come tramandata, offrì interessanti spunti di ricerca per la localizzazione degli scavi archeologici nella zona del Palatino, allo scopo di trovare eventuali conferme del mitico racconto. Ad una certa profondità sono stati ritrovati, ai piedi del predetto colle, i resti di alcune fortificazioni murali e di qualche capanna. Lo stesso sepolcro di Acca Laurentia (10) sarebbe presente nella zona compresa tra il Palatino ed il Foro, dove attualmente c'è l'edicola di Giuturna (11), a sua volta luogo di altre sepolture, fino a formare una vera e propria antica necropoli del medesimo periodo storico.

L'ipotesi dell'origine greca della città di Roma, legata alla leggenda di Enea, divenuto re dopo aver sposato la figlia del re dei Latini e, pertanto, antico progenitore di Romolo e Remo, fu acquisita dalla storiografia romana a partire dal III sec. a.C., soprattutto per giustificare gli interventi autoritari di Roma nel sud della penisola italica, nonché per legittimare la sua politica contro Cartagine. In quest'ottica l'inserimento di elementi ellenici nelle origini di Roma assunse un significato strategico e diplomatico, così come afferma la maggior parte degli esegeti moderni. La data simbolica della nascita di Roma è considerata il 21 aprile del 753 a.C., determinata dallo storico latino Varrone (12), sulla base di alcuni calcoli astrologici compiuti dall'astrologo Lucio Taruzio. Altre narrazioni offrono ricostruzioni fantasiose diverse e di conseguenza date della fondazione di Roma differenti. Secondo Velleio Patercolo, la città eterna sarebbe stata fondata 437/438 anni dopo la caduta di Troia, avvenuta nel giugno del 1182 a.C., mentre Marco Porzio Catone colloca la fondazione di Roma 432 anni dopo la caduta di Troia. Dionigi di Alicarnasso fissa la fondazione di Roma nel 750 a.C., anno in cui si pensa si sia svolta la settima Olimpiade, prendendo come riferimento di base l'anno 776 a.C., considerato quello della prima Olimpiade (13). Tornando al calcolo di Varrone, poi tradizionalmente accettato dai posteri, non bisogna dimenticare che l'autore latino conosceva molto bene il mondo greco e, con ogni ragionevole probabilità, scelse il 753 a.C., poiché fu l'anno in cui ebbe inizio la democrazia ateniese, con l'ascesa al potere da parte degli arconti. La scelta di Varrone, quindi, si potrebbe interpretare come il tentativo di collegare la nascita di Roma all'evolutissimo mondo culturale greco. In tale contesto, seguendo lo schema utilizzato da Varrone, è doveroso chiarire il significato dell'espressione ab urbe condita. La cosiddetta “data varroniana” si ricavò, ritenendo il 509 a.C. il primo anno della Repubblica ed attribuendo 35 anni di regno a ciascuno dei sette re, operazione chiaramente simbolica e poco verosimile, in considerazione del difficile tenore di vita dell'epoca e dell'elevato tasso di mortalità di tutti i livelli sociali. La correttezza del calcolo di Varrone fu accettata per secoli fino all'età moderna e, pur essendo di ispirazione “mitica”, fu universalmente accettata per dare lustro a Roma. A ciò si aggiungono i riferimenti ad alcune eclissi solari che sarebbero state osservate nella città eterna nel 763 a.C., nel 745 a.C, e nel 709 a.C., indicate dagli autori latini e greci come segni beneauguranti per la prodigiosa città che stava sorgendo (14).

Per quanto riguarda i dati raccolti dagli studiosi, è stato evidenziato che soprattutto l'area del Campidoglio presenta una continuità abitativa almeno a partire dalla media età del bronzo, cioè verso la metà del XIV secolo a.C., fino alla prima età del ferro, IX secolo a.C., come testimoniano i rinvenimenti di alcuni corredi funerari e di alcune opere in ceramica. Dal IX secolo in poi l'area abitativa si estese alla zona del Foro e del Palatino, con caratteristiche simili a quelle del Campidoglio, presentando un'evidente continuità nella formazione di un unico centro abitativo. Si suppone, invece, che nello stesso periodo storico, sull'Esquilino e sul Quirinale si fosse formata una distinta comunità, separata rispetto a quella del Palatino-Campidoglio, ma destinata a riunirsi con questa in epoca successiva. Da queste considerazioni emerge che l'ipotesi più verosimile per configurare la formazione del primo nucleo urbano di Roma sia quella di un graduale processo di “sinecismo” (15).

La progressiva formazione della città di Roma, attraverso l'unificazione di preesistenti insediamenti autonomi, abitati da veri e propri gruppi gentilizi, sarebbe alla base della successiva struttura sociale e politica della stessa Urbe. A prescindere dagli aspetti mitici, ad eccezione di Romolo, considerato il fondatore di Roma, il rex del periodo arcaico era il supremo magistrato eletto dai patres, i capifamiglia delle gentes originarie, con la piena potestà di reggere e di governare la città. Non vi sono testimonianze a favore dell'applicazione di un principio ereditario nella designazione dei primi quattro re di stirpe latina (Romolo, Numa Pompilio, Tulli Ostilio ed Anco Marzio), mentre per i successivi tre di origine etrusca (Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo) si stabilì un principio di discendenza matrilineare. Gli storici antichi non seppero dare una descrizione esatta dei poteri del re e, pertanto, in età repubblicana ne fu data un'interpretazione ex post, prendendo come modelli consolidati le prerogative peculiari dei consoli (16). Alcuni studiosi moderni hanno ipotizzato che il potere supremo fosse attribuito al popolo e che il re ne rappresentasse solo il vertice esecutivo, contrariamente all'interpretazione tradizionale che credeva che il rex avesse potere assoluto, mentre al Senato e al popolo rimanesse solo un ruolo secondario di supervisione e di controllo. Le insegne del potere del re erano dodici littori adornati di fasci dotati di asce, la sedia curule, la toga rossa, le scarpe rosse ed il diadema bianco sul capo. Questi simboli sono, comunque, indicativi di tutta una serie di poteri: il rex era il capo con pieno potere esecutivo, comandante in capo dell'esercito, capo di stato, pontefice massimo, legislatore e giudice. La carica di pontefice massimo gli conferiva una sorta di sacralità religiosa, il cui retaggio rimarrà in età repubblicana con la figura del rex sacrorum (17), assumendo il significato di competenza appunto solo nelle questioni religiose, con una ricchezza di valore semantico così forte da essere mutuata anche nel linguaggio cristiano (il papa della Chiesa Cattolica sarà chiamato anche pontefice). Per quanto riguarda la procedura dell'elezione del re, essa avveniva con il coinvolgimento di una figura di coordinamento, l'interrex, del Senato, dei Comizi Curiati ed anche con la partecipazione del collegio sacerdotale che aveva il compito di interpretare la volontà degli dèi mediante la lettura degli auspici. Anche se in teoria era il popolo ad eleggere il rex, tramite i Comizi Curiati (18), nella realtà era il Senato ad esercitare l'influenza maggiore, in quanto espressione dei gruppi gentilizi più autorevoli. La tradizione più diffusa conta soltanto sette re di Roma, non annoverando tra questi Tito Tazio (19), re dei Sabini dell'area del Quirinale che fu associato a Romolo nell'unione tra il suo popolo ed i Latini, regnando sulla città soltanto per un anno. Il dibattito sul periodo arcaico di Roma è tuttora aperto e controverso, in mancanza di fonti certe ed incontrovertibili, a parte la stranezza dell'equa distribuzione di 35 anni anni di regno per ciascun sovrano, come già si è avuto modo di accettare. Le prime fonti storiografiche romane risalgono al III secolo a.C., nel periodo delle guerre puniche, con Fabio Pittore e Cincio Alimento. Inoltre, non bisogna dimenticare le numerose devastazioni subìte da Roma, come ad esempio l'incendio gallico del 390 a.C. (20), che, secondo Polibio e Tito Livio, avrebbero provocato la distruzione della maggior parte dei documenti più antichi. In sintesi si può dire che le informazioni sulla Roma arcaica derivano in prevalenza da tradizioni orali, via via tramandatesi nell'ambito dei gruppi gentilizi più antichi ed assumendo una configurazione del tutto leggendaria. Le notizie trasmesse di generazione in generazione furono rielaborate con il passare del tempo ed adattate ad esigenze nazionalistiche di propaganda politica, fino a cristallizzarsi in una tradizione più o meno omogenea.

In apertura abbiamo parlato delle ipotesi tradizionali riguardanti l'etimologia di “Roma”, mi piace concludere con qualche breve cenno al suo presunto nome “segreto”, così come emerso in recenti studi (21). In relazione alla condanna all'esilio del poeta Ovidio (22) avvenuta nell'anno 8 d.C., per opera di Augusto, è stato evidenziato che lo stesso poeta stava lavorando alla stesura dei “Fasti”, con l'ambizioso progetto di elaborare un poema “finalizzato a rivisitare l'intero calendario romano”. La condanna da parte del princeps arriva proprio quando il poeta stava ultimando i versi riferiti al mese di maggio. Ovidio analizza le etimologie relative a quel mese, con particolare riferimento alla misteriosa fondazione della città e menzionando la costellazione delle Pleiadi (23). Il poeta avrebbe attribuito particolare importanza alla stella Maia (24), legando il destino dell'astro a quello dell'origine di Roma. E' stato ipotizzato, pertanto, che Ovidio avesse toccato un argomento considerato sacrilego, evocando il nome segreto della città di Roma: Maia, la più importante stella della costellazione delle Pleiadi. Questo nome sarebbe stato considerato indicibile fin dall'età più arcaica e poteva essere pronunciato soltanto dai sacerdoti, quando si doveva invocare la protezione della divinità contro i pericoli degli attacchi nemici. Il nome segreto di Roma era perciò considerato un segreto di stato e militare. A differenza di Atene, il cui nome rivelava chiaramente la dea alla quale la città era stata consacrata, Roma forse aveva un nome destinato al più totale riserbo. Il poeta Ovidio, addirittura, si era soffermato sul legame tra le sette Pleiadi ed il luogo dove sarebbe sorta Roma, evidenziando la corrispondenza tra le sette stelle della predetta costellazione ed i sette colli di Roma. La città eterna avrebbe un'origine in perfetta sintonia con la sapienza ermetica: la terra come specchio del cielo. La posizione della sanctissima Maia confermerebbe la centralità del Palatino, sul quale Romolo aveva proceduto a delineare i limiti della città.

Note:

(1) Cfr. Alfonso Buglione, Storia di Roma Antica, Ed. Archeoares, Roma 2018; (2) Si tratta del sito archeologico collocato nell'area del Foro Romano, in prossimità del luogo dei “Comizi” a poca distanza dalla Curia Iulia; (3) Cfr. Andrea Carandini, Roma il primo giorno, Ed. Laterza, Bari 2009; (4) Dionigi o Dionisio di Alicarnasso (60 a.C.- 7 a.C.) fu un eminente storico ed insegnante di retorica, vissuto durante il principato di Augusto. La sua opera più famosa è Antichità romane, testo abbastanza accurato secondo i canoni del tempo; (5) Pallantio era un'antichissima città nell'Arcadia, nella zona di Menalia; (6) Sulla figura mitologica di Eracle vi sono numerosi racconti divergenti ed in alcuni casi anche contrastanti. La tradizione è concorde sul fatto che fosse un eroe e semidio del pantheon greco, nato a Tebe, dall'unione di Zeus e di Alcmena, famoso per essere dotato di una forza sovrumana. Nella mitologia etrusca era noto con il nome di Hercle ed in quella romana come Ercole; (7) Cfr. Andrea Carandini, Il sacro fuoco di Roma. Vesta, Enea, Romolo, Ed. Laterza, Bari 2015; (8) In merito ad Alba Longa, le fonti concordano sul fatto che sia stata una città del Latium vetus e che per un certo periodo di tempo esercitò grande influenza sulla confederazione dei popoli di stirpe latina. Sembrerebbe che sia stata distrutta da Roma sotto il regno di Tullio Ostilio dopo il 673 a.C.; (9) La tradizione di delimitare i confini di una città, delineando una cosiddetta “linea sacra” si era sviluppata nell'ambito dei popoli italici fin dall'antichità, soprattutto in ambiente etrusco; (10) Acca Laurentia è ricordata come un'antichissima divinità romana, sulla cui tomba al Velabro, il 23 dicembre che corrispondeva al giorno dei Larentalia, il flamen Quirinalis ed i pontefici celebravano i riti funebri. Per alcuni si trattava della madre dei Lares, per altri si identificava con la “Madre Terra”; (11) Nella mitologia romana, Giuturna era una ninfa delle fonti che in origine era una donna, ma dopo essere stata amata da Giove, le fu offerto il dominio sui corsi d'acqua dolce del Lazio. Secondo un'altra versione era la sposa di Giano, con il quale avrebbe concepito Fons; (12) Marco Terenzio Varrone (116 a.C.- 27 a.C.) fu una personalità poliedrica dell'ultimo periodo repubblicano di Roma. Si occupò di letteratura, di storia, di grammatica e di agronomia, ricoprendo anche un importante incarico nell'esercito; (13) Cfr. Giovanni Brizzi, Storia di Roma. Dalle origini ad Azio, Ed. Patròn, Bologna 1997; (14) Nonostante i racconti mitologici e le superstizioni riguardanti le eclissi, nell'antica Roma le cause furono studiate e chiarite, soprattutto quando si venne in contatto con il mondo ellenico. Nel II sec. a.C., il console Gaio Sulpicio Gallo aveva già chiarito che le cause dell'eclissi erano naturali e non magiche; (15) Il termine “sinecismo” si riferisce all'unificazione di entità politiche in precedenza indipendenti, anche se poi è servito ad indicare diverse forme di aggregazione; (16) Cfr. Augusto Fraschetti, Storia di Roma dalle origini alla caduta . dell'impero romano d'occidente, Edizioni del Prisma, Catania 2002; (17) Il rex sacrorum era appunto una figura della magistratura romana in età repubblicana alla quale erano affidate le funzioni religiose anticamente riservate al re; (18) I Comizi Curiati costituivano una sorta di assemblea del popolo romano, secondo la tradizione instaurata dallo stesso Romolo. I cittadini erano suddivisi per “curie” ed all'inizio avevano funzione consultiva del rex; (19) In merito a Tito Tazio, le fonti sono discordi. Secondo alcuni regnò insieme a Romolo solo per un anno, secondo altri per ben cinque anni; (20) L'incendio gallico del 390 a.C., durante il quale Roma fu messa “a ferro e fuoco”, fu condotto da Brenno, condottiero della tribù celtica dei Senoni, che pronunciò la famosa frase “vae victis” (guai ai vinti); (21) Cfr. Felice Vinci e Arduino Maiuri in Appunti di filologia (XIX, 2017); (22) Publio Ovidio Nasone, detto semplicemente Ovidio (43 a.C.- 18 d.C.), fu uno dei maggiori esponenti della letteratura latina e della poesia elegiaca. Fu esiliato nell'8 d.C., spedito a Tomi, un piccolo centro sul Mar Nero, nei pressi dell'attuale Costanza in Romania. Il poeta attribuisce la sua disgrazia a un carmen et error (una poesia ed uno sbaglio), come lui stesso scrive nel Tristia. Sono state date molte interpretazioni a questo passo: quella riportata dai due studiosi citati nella nota precedente appare originale e innovativa; (23) Le Pleiadi, conosciute anche come le “sette sorelle”, costituiscono un ammasso aperto visibile nella costellazione del Toro. A causa della loro luminosità, le Pleiadi sono conosciute fin dall'antichità e cantate perfino da Omero; (24) Maia, in particolare, conosciuta come 20 Tauri, è una delle Pleiadi e si trova a circa 440 anni luce da noi. Il suo nome deriva da Maia, una delle Pleiadi mitologiche, figlia di Atlante e di Pleione, nonché madre del Dio Hermes.

  Luigi Angelino

Il sorriso di Giano – Andrea Marcigliano

$
0
0

"il dio è sulle soglie delle case, presso le porte, ianitor, e presiede ai due esordi costituiti dall'entrata e dall'uscita, così come agli altri due costituiti dall'apertura e dalla chiusura della porta: è Patulcius e Clusius, due epiteti che parlano da soli (Ov. F. 1, 128 - 129)" (1)

Gennaio è giunto e siamo a Capodanno, l'inizio del mese, per tradizione, più lungo e freddo. Cupo, soprattutto. Perché è vero che da Natale il Sole ha cominciato il suo cammino ascendente, ma in Gennaio questo lo si avverte ancora a fatica. Ché le temperature rigide e i cieli grigi, le nebbie, la neve, non ci fanno ancora sentire l'azione della luce. E del calore. La Terra è chiusa, ancora, in se stessa. Un cristallo di ghiaccio sospeso nel cosmo.

Nel più antico Calendario di Roma, gennaio non esisteva. E così febbraio. I mesi erano solo dieci. L'anno finiva con Dicembre, e cominciava con Marzo. Gennaio e Febbraio, semplicemente, non venivano computati. Mesi intercalari. Di vuoto. Di sospensione. Della vita e di ogni attività. Quel Calendario viene comunemente detto Romuleo. Ma risale ad epoche molto più remote di quella, già avvolta dalle nebbie del mito, in cui fu fondata Roma. Quando gli avi dei Latini probabilmente dimoravano molto più a Nord. In terre sub-artiche. Dove i due mesi del profondo inverno erano solo gelo e tenebra. E inattività:

"Giano è collocato nel tempo storico al posto che gli spetta: cioè agli esordi. Si diceva che egli fosse stato il primo re del Lazio, re di un'età dell'oro, in cui uomini e dei vivevano insieme (Ov. F., 1, 247-248)" (2)

Fu Cesare a volere che l'anno iniziasse il suo corso con il primo di Gennaio. Sacro due volte a Janus. Perché primo mese e primo giorno. E al Dio dai due volti era sempre consacrato il primo giorno di ogni mese. Giano è la "porta", in latino "janua". L'inizio. Il principio. Ed ha due volti, uno giovane che guarda verso il futuro. Uno vecchio, o meglio antico che è volto al passato.

È il tempo, nel suo scorrere. Ma non è il Kronos greco che divora ogni cosa, tanto che nella radice del suo nome si può intravedere il Corvo, l'uccello che si pasce di cadaveri. I latini avevano una concezione ben diversa del Tempo. Saturno è il Dio dell'età dell'oro, Padre benevolo per eccellenza. Giano rappresenta il costante evolversi, o meglio incontrarsi di passato e futuro. Che, poi, è il presente, sempre fugace, inafferrabile. Il tema del Faust di Goethe. Riuscire a dire all'attimo : Fermati ! Sei bello. Che implica, segretamente, il ritorno proprio all'età dell'oro…

Dunque Capodanno, o più esattamente lo scoccare della mezzanotte, rappresenta un'occasione. L'occasione di cogliere l'incontro dei due attimi, il passato e il futuro che si confondono e intrecciano. Certo, è solo un istante. Ma se presteremo attenzione, mangiando ai rintocchi delle campane 12 chicchi di uva o di melograno secondo antico uso propiziatorio, forse coglieremo, in un cielo gelido, il profilo di un duplice volto tracciato dalle nebbie. O dalle stelle:

"…un Dio prettamente italico, Giano, era il Dio dell’iniziazione ai Misteri, quegli che custodiva le porte ed in particolare apriva e chiudeva la porta, la janua, del tempio iniziatico” (3).

E, forse, lo vedremo sorridere...

 

Note:

1 - G. Dumèzil, La Religione Romana Arcaica, BUR, Milano, 2001, p. 291;

2 - Ivi, p. 293;

3 - Pietro Negri (Arturo Reghini), Sulla Tradizione Occidentale, in Introduzione alla Magia, vol. II, Edizioni Mediterranee, Roma 1987, p. 71.

 

Andrea Marcigliano

Il significato esoterico della fondazione dell’Urbe – Umberto Bianchi

$
0
0

I Natali di Roma sono una ricorrenza che, ai più, passa inosservata, o, quanto meno, ne viene recepito l’aspetto più puramente superficiale, attinente alla “Gloria Urbis”, esaltata da un’immaginario collettivo da cartolina postale, assolutamente privo di significati di ben altra profondità e caratura di cui, invece, l’intera vicenda della fondazione dell’Urbe, è caratterizzata. Roma, anzitutto, non nasce casualmente, a seguito dell’atto volitivo di uno o più singoli. La vicenda della sua nascita, sembra esser, in tutto e per tutto, frutto di un vero e proprio piano divino. Romolo ed il suo gemello Remo, sono figli del Dio Marte e della mortale Rea Silvia. La fondazione dell’Urbs viene effettuata con il tracciamento di un solco, lungo un percorso a forma di quadrato. La decisione della nomina del Rex attraverso sotto il segno augurale del passaggio di uccelli, l’inviolabilità delle mura e la stessa uccisione di Remo, da parte del gemello Romolo, la fine di Romolo stesso, le cui membra, dopo esser stato ucciso, vengono sparse lungo quelli che saranno i principali caposaldi della neonata Urbs, conferiscono un valore altamente simbolico all’intera vicenda fondativa.

Possiamo pertanto affermare che, quello della fondazione di Roma è, anzitutto un atto dalla forte valenza iniziatica, perché ad esser fondato non è solamente un puro e semplice conglomerato di abitazioni, ma un vero e proprio assetto spirituale,di cui la civiltà romana, costituirà la perfetta realizzazione “in terris”. Il processo iniziatico parte dalla umile condizione dell’iniziando,abbandonato in una cesta alla imprevedibilità degli elementi ed animato da una doppia natura (i gemelli). A fronte della fondazione di una città, all’interno di un solco, la cui forma quadra è riflesso di perfezione, è necessario il sacrificio di uno dei gemelli (Remo), per riportare l’animo dell’iniziato ad una perfetta unità costitutiva, eliminando la parte più spuria del proprio “Sé”. La stessa morte del “Rex” Romolo, sancisce la definitiva assunzione della sua persona, a vero e proprio “corpo di gloria”, dalle cui parti sparse nasceranno le varie zone di Roma,finendo quest’ultimo con l’essere identificato con Roma stessa. La civiltà romana, trova la propria massima e compiuta espressione, in quella Res Publica, che vedeva per l’appunto, nell’identificazione del cives romano con quest’ultima, il proprio momento fondante. Questo, attraverso tutte quelle istituzioni partecipative quali comizi curiati,comizi centuriati, tribunato della plebe, senato, consolato, alle quali il cives partecipava attivamente e nelle quali, in virtù dello “ius publicum”, il momento religioso trovava il suo organico ed armonico collocamento, tramite la figura del “pontifex/facitore di ponti”, tra la dimensione divina e quella terrena.

L’idea di organica partecipazione che caratterizzava le istituzioni repubblicane, passerà indenne attraverso le varie epoche storiche. L’istituzione senatoria ed il consolato permarranno integre, durante tutta l’età imperiale, sinanche dopo la fine della civiltà romana e sino alla fatidica data del 1870, con la riunificazione d’Italia, tali cariche saranno sempre vigenti, all’interno della stessa Roma papalina. Senza ulteriormente addentrarci negli innumerevoli ed ulteriori significati connessi alla vicenda della fondazione dell’Urbs, sarà quindi necessario interrogarci su quale lezione si possa trarre da questo evento. Ci sovviene, a questo punto, l’esempio di una vicenda molto più vicina ai tempi nostri che, in qualche modo, proprio dalla “romanitas” , volle trarre uno spunto di azione. Il sodalizio esoterico del “Gruppo di Ur” ufficialmente attivo nel biennio 1927/29, con le sue pubblicazioni, vide come protagonisti tutta una serie di personaggi, dalle diverse provenienze culturali, accomunati però dall’idea della possibilità di poter effettuare una vera e propria azione “magica”, al fine di veicolare il ritorno della religiosità pagano-romana nell’Italia fascista. Personaggi come il Pitagorico e Massone Arturo Reghini ed il suo sodale Giulio Parise, lo studioso Julius Evola, l’antroposofo Giovanni Colazza, il kremmerziano Ercole Quadrelli e Colonna di Cesarò, provenienti da un ambito massonico-pagano, lo psicanalista Emilio Servadio, lo stesso Massimo Scaligero (anche se non organico al Gruppo) e tanti altri, furono i protagonisti dell’inedito tentativo di applicare le arti magiche, al fine di deviare il corso di eventi di natura politica.

Tentativo inedito, perché esperito in Età Moderna, poi fallito,ma che, comunque ci lascia una precisa indicazione operativa. La Magia, qui intesa, non tanto quale superficiale e fenomenologica, popolaresca “superstitio”, quanto vera e propria “scientia”, è la tecnica che permette all’iniziato di addivenire ad un piano di realltà “altro” da quello dell’immanenza. Un piano di realtà superiore, dal quale emana o dipende quello della sottostante materialità ed attraverso la manipolazione del quale, si può pervenire alla modifica sostanziale della sottostante realtà. Un insegnamento questo che, con l’avvento della Modernità, sempre più andrà risentendo, della inquietante presenza di un “Io” posto di fronte alla realtà della propria frammentazione in un’anima cosciente ed in un’altra incosciente,che va ad attingere e riporta a galla, i più profondi e nascosti motivi archetipici, comuni a tutto il genere umano. Da quei motivi muove la Magia e le sue scuole per smuovere la realtà nel suo complesso. La presenza degli Dei, oggidì soffocata da una civiltà imperniata sul sensibile e sulla sua quantificazione, è oggi sostituita dalla riscoperta dell’archetipo, ovverosia, come suggeriscono le maggiori scuole esoteriche ( da quella antroposofica, al magismo kremmerziano, non senza passare per l’ermetismo di alcune obbedienze massinche e pitagoriche…), dal partire dalla prefigurazione del dato sensibile per arrivare all’oltrepassamento dell’Io sensibile. E pertanto, ricollegandoci ai motivi-guida dell’irrazionalismo filosofico del 19° e del 20° secolo da Schopenauer a Stirner, da Nietzsche ad Heidegger ed altri ancora, superare l’elemento umano dell’Io, per pervenire alla dimensione del sovrumano, di quell’ “oltreuomo” che dell’umano percorso, costituisce la fase finale, il completamento, alla base del quale, sta quel costante lavoro di “Iniziazione”, quell’opus alchemico, in grado di generare in noi una trasformazione qualitativa.

Parole queste che sembrano dar per scontato, ciò che, in verità, non lo è affatto. Roma, con la sua luminosa storia, ci indica una via che, altri già hanno tentato ed altri ancora, tenteranno di percorrere. Quella della Modernità, è una via irta di insidie e difficoltà, alla quale le varie scuole di pensiero hanno dato risposte sicuramente affascinanti, ma non ancora sufficienti. Ad indicarci la strada, il simbolo di Mercurio e del suo caduceo, sormontato da due serpenti, ovverosia, la sovrumana capacità del sapere ermetico di ricavare forza e vitalità, dal materiale veleno delle forze del Kosmos. Ancora una volta, la dimensione del mito, che sembrava confinata nelle nebbie del senza tempo, irrompe decisa nella contemporaneità e ci indica risolutamente la strada in grado di portarci fuori dalle secche della Post- Modernità.

UMBERTO BIANCHI

“Sacer” e “Sanctus” nella tradizione giuridico-religiosa romana – Giandomenico Casalino

$
0
0

Nella cultura, in senso lato, indoeuropea e quindi in tutte le sue varie e diversificate ramificazioni linguistiche, le parole “sacro” e “santo”, con i loro categoriali semantemi, sono, ovviamente, atteso il campo significante a cui appartengono, che è quello che noi chiamiamo “religioso”, abbastanza contigue, anzi confinanti.

Infatti, santo (greco: òsios; sebastòs/ latino: sanctus) ha in sé il valore del “confine”, di quella dimensione visibile dell’Invisibile che segna, appunto, il limite, che è posto o che comunque sta a protezione e ad indicazione della dimensione del totalmente Altro che è il Sacro, essendo ciò che è riservato esclusivamente per gli Dei. In tale intreccio di semantemi, il Santo, che appare quasi come un preambolo o come un avviamento al Sacro, è anche il Puro e cioè il purificato (tenendo a mente che l’etimo di codesta parola è pýr che in greco vuol dire: fuoco!). Qui risiede la ragione per cui nella parte orientale dell’Impero, il titolo di Augusto è tradotto in greco con la parola Sebastòs: il Santo!

Nella mia terra, che è il Salento, gli anziani ancora qualificano la “morte” come “santa” e parlano di “santa morte”! Cosa significa ciò? Ritengo che faccia riferimento, secondo la nostra arcaica cultura contadina, alla verità che la “morte”, come evento che segna un passaggio, una mutazione di essere e di dimensione, tanto nello spazio che nel tempo profani, è il confine ultimo, valicato il quale, si entra nell’Altro che è il Sacro e cioè il Mistero!

Ciò non fa che richiamare tutti i complessi rituali che accompagnano, da sempre ed in tutte le Civiltà, l’evento morte, sentito proprio come passaggio di un limite che segna il transito verso l’Invisibile; da qui, per esempio, l’antica consuetudine, già vigente nell’abitazione del defunto, quando lo stesso era deposto in casa per la pietà dei familiari, di coprire tutti gli specchi ivi esistenti onde impedire che le Potenze dell’Altro, i Mani dei Romani, potessero valicare il confine attraverso lo specchio, porta che, da sempre, in tutte le mitologie e culture religiose, conduce da un Mondo ad un Altro: è abbastanza nota la centralità dello specchio e del suo alto valore simbolico in tutte le Tradizioni iniziatiche, quale “passaggio” o presa di coscienza (visiva) dello stesso in quanto apertura per il mutamento da uno stato ad un altro dello Spirito! È sufficiente riflettere sulla parola latina speculum, da cui il nostro “specchio”, e sul fatto che è letteralmente sovrapponibile alle parole speculazione e speculare che dallo stesso derivano, e che, oltre ad essere in Hegel sinonimi di mistico, fanno proprio riferimento, in buona sostanza, nel lessico filosofico, alla Sapienza suprema che ha per oggetto il rapporto e l’effettuale riconoscimento dell’Io quale Sé nella immagine speculare riflessa.

Quanto sopra esplicitato, in via abbastanza generale, può favorire l’ingresso del nostro discorso nella dimensione spirituale, in quanto Realtà vivente, della Tradizione giuridico-religiosa romana che, ed è bene rammentarlo, è,  nella sua esperienza attivo-intensiva del Sacro, come afferma Evola[1], di natura esclusivamente magico-religiosa poiché è qualificata da un atteggiamento attivo dello Spirito il quale, mediante il Rito e cioè l’Ascesi dell’Azione, crea letteralmente la realtà fenomenica per mezzo di tale Azione su quella numenica; e ciò è totalmente estraneo ad ogni ritualità di natura sia teurgica che misterica, per la semplice ragione che, come credo di aver dimostrato nei miei libri e come insegnano, nel ‘900 ed oltre, sia Julius Evola, Mircea Eliade e Karoly Kerenyi, che decine di studiosi del Diritto Romano, della Religione e della fenomenologia della spiritualità di Roma antica quanto della medesima antropologia culturale romana, anche sotto il profilo di natura filologico-linguistica, essendo assente nella Romanità, la mediazione mitologica, che è la dimensione animico-fantastica sia teogonica che cosmogonica, del Sovrasensibile, l’Io è in diretto, attivo ed immediato contatto con le forze dell’Invisibile solo ed esclusivamente con il Rito che, attesa la sua natura primordiale, è nella sua immodificabile operatività ed ineluttabile efficacia magica, molto simile a quello Vedico, essendo ambedue qualificati proprio dal rapporto necessario e pericoloso, asciutto ed essenziale tra l’Io ed il Metafisico, rapporto che si fonda sulla Conoscenza esoterica della specularità eziologica sussistente tra l’Invisibile e il visibile. (Vedi la Dottrina che emerge dai Rituali e dai Formulari degli stessi Sacerdozi Pubblici: Auguri, Feziali, Flamini).

Nella Romanità il concetto di santo acquisisce, pertanto, una specificità tutta particolare che è figlia proprio di quanto abbiamo sopra sinteticamente rammentato; nel Digesto (I, 8,9, par. 3), infatti, vi è tale categorica definizione: “Proprie dicimus sancta quae neque sacra, neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut leges sanctae sunt…”!c-2

Al fine di poter comprendere il senso profondamente romano di tale massima giuridico-religiosa, è necessario confrontare il significato di Santo ivi esplicitato con quello di Sacro, che viene definito però in via negativa e che noi invece cercheremo di esplicitare.

Mediante il Sacrificio, che è il Rito per eccellenza, infatti, si “crea” il Sacro (greco: Hieròs; latino: Sacer), che per natura o per decisione, è riservato, separato per gli Dei: nel sacrificium, l’animale, la victima (parola che ha la stessa radice di weihen) “è estratta dal suo uso consueto ed offerta all’Invisibile destinatario”[2]; e chi viola determinati ruoli o regole è “consecratus” cioè investito dalla Forza (infera in questo caso) di cui è pregno quel luogo od a cui è consacrata una legge, luogo o legge difesi cioè sancti. Tanto che nell’antica legislazione romana la pena era applicata dagli stessi Dei che intervenivano come vendicatori. Il principio in simili casi può essere formulato così: “qui legem violavit, sacer esto”, “colui che ha violato la legge sia sacer”; di qui l’uso del verbo sancire per indicare questa clausola che permetteva di promulgare la legge. Dalla Tradizione pertanto risulta che sancire vuol dire delimitare il campo di applicazione di una disposizione e renderla inviolabile, mettendola sotto la protezione degli Dei, richiamando sull’eventuale violatore l’inevitabile castigo divino: infatti si dice Via Sacra, mons sacer, dies sacra, ma sempre murus sanctus. Pertanto è sanctus il muro, ma non il territorio che il muro circoscrive che è detto sacer; è sanctum ciò che è proibito per mezzo di alcune sanzioni. È bene chiarire che “il fatto di entrare in contatto con il Sacro non porta di conseguenza lo stato di sanctus; non vi è sanzione per colui che, riguardo al sacer, diventa egli stesso sacer; è bandito dalla comunità, non lo si castiga e nemmeno colui che lo uccide. Si direbbe che il sanctum è ciò che si trova alla periferia del sacrum, che serve ad isolarlo da ogni contatto”[3].

A questo punto, la massima del Digesto richiamata, appare alquanto chiara ed inequivocabile, solo che la si interpreti in senso tradizionale e cioè  organico e spirituale: essa, infatti, preliminarmente spazza via tutto lo sciocchezzaio messo in campo da alcuni studiosi moderni, intorno alla cosiddetta “ambivalenza del Sacro”, conseguenza del fatto che, evidentemente, non riescono a comprendere che, onde avvicinarsi al senso delle culture tradizionali, è necessario uno sforzo di umiltà ermeneutica affinché si tenti di guardarle con i loro occhi e non con quelli moderni, essendo questi del tutto impotenti ad entrare nel mondo spirituale di tali Civiltà, oltre che pericolosamente ed antiscientificamente mistificatori; pertanto la pretesa “ambivalenza” non solo non esiste ma si tratta di ben altro! Infatti il Sacro che è, come abbiamo visto, una sfera, una dimensione Invisibilmente visibile del Mondo, una Forma, una Idea, una Essenza della Vita al massimo grado di potenza, circoscritta e difesa da una “sanzione” quindi sancita, può risolversi in damnum (italiano: dannati e cioè coloro che hanno violato la legge divina), in scatenamento di forze Infere che investono e “consacrano” il fallito (vedremo il motivo per cui è da usare questo termine).

Certamente l’ignoranza moderna non capirà mai perché il “consecratus” sia tale agli Dei Inferi, in seguito al suo avvenuto contatto irrituale con il Divino e perché il sanctus, come ci documenta Cicerone[4], sia da riferirsi ai Manes e quindi agli Inferi stessi. Noi sappiamo però che la Forza Universale (simboleggiata dalla Tradizione con l’Albero della Vita) è depositaria della Scienza del Sovrannaturale, che è la potenza Femminile definita nella Tradizione indù: Çakti e nella Tradizione Ermetica: Mercurio ignificato o lunare, ma simultaneamente, in modo “ambivalente”, è fonte di pericolo e di morte[5] (gli Dei Mani); ciò ha il significato che per chi la sublima e fissa con il Rito, si risolve nel Sacro luminoso il quale concede l’Immortalità olimpica; chi commette, invece l’errore (non il peccato!) di affrontare la Forza fuori dal Rito, viene travolto da ciò che per l’esecutore  può essere solo caotico ed oscuro, proprio perché non ha suggellato ed invertito verso l’Alto la Forza medesima. Ha commesso un falso!

Tale è la ragione per cui innanzi ho usato la parola fallito, cioè caduto (dal latino fallĕre = cadere[6]); al contrario, “vero” ha il significato di Vittorioso – sia a livello giuridico che a livello religioso, cioè di realizzato, che deve essere creduto, in termini esoterici: ciò che ha Vita da sé, ciò che è; “falso”,invece, ha il significato di ciò che non è. In termini filosofici, l’uno è l’Essere e l’altro è il divenire.

La sapienza giuridico-religiosa della Tradizione Romana si fonda pertanto sulla necessità rituale che lo Spirito si riconosca e si identifichi, nell’atto del Rito, con la Realtà altrettanto spirituale di forze nude e pure, Mondo in cui la limitata e limitante dualità moralistica di bene e male si dimostra illusione delle passioni, delle fedi o delle leggi dogmatiche, aventi la sola funzione essoterica relativa alla buccia e non al nocciolo. Da tali forze caotiche e prive di Forma, il Romano in tutta la sua vicenda storica, ha tratto, creandoli, con la virtus magica della Parola e del Gesto[7], ordinandoli, rendendoli santi, difesi e quindi governandoli, gli Ordinamenti, le Leggi, l’Impero che sono lo specchio del Cielo, cioè Juppiter Optimus Maximus.

 

 

 

NOTE

 

[1] GRUPPO DI UR (a cura di), Introduzione alla magia, Roma 1971, vol. III, pp. 219 ss..

[2] G. DUMEZIL, La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 126; cfr. anche V. ROTONDI, Il sacrificio a Roma, Roma 2013; C. SANTI, Alle radici del sacro. Lessico e formule di Roma antica, Roma  2004; IDEM, Sacra facere, Roma 2008.

[3] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino 1970, vol. II, pp. 427-8;

cfr. R. FIORI, Homo sacer, Napoli 1996.

[4] K. KERENYI, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Roma 1951, p. 76.

[5] J. EVOLA, La tradizione ermetica, Roma 1971, pp. 17-8.

[6] G. DEVOTO, Avviamento alla etimologia italiana, Firenze 1979.

[7] G. CASALINO, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2003.

TIBERINALIA – Giuseppe Barbera

$
0
0

“Tiberine Pater te sancte precor”

Tito Livio Lib. II

 

La data dell’8 dicembre, nell’antica Roma, corrisponde alla festa del Dio Tevere, l’intelligenza divina connessa al corso dell’omonimo fiume attraversante l’Urbe eterna.

Con questa giornata si aprono le feste del ciclo dicembrino, oggi definite natalizie, che culminano al 25 dicembre con la festa dedicata alla nascita del Sole Invitto.

Durante i Tiberinalia (così era chiamato questo giorno di festa) la popolazione si recava presso il fiume Tevere per onorare questo “antico padre” che salvò Romolo e Remo e che perennemente, con le sue acque, portava vita e salubrità alla città. All’alba, dopo i primi riti propiziatori, i pescatori uscivano con le barche per pescare il pesce con cui si sarebbe consumato il banchetto per entrare in comunione con questo Dio, elargitore di prosperità. Nel frattempo altre chiatte salivano a monte a ricercare alberi e rami sempreverdi da condurre in città. Si preparavano ghirlande che venivano imbarcate da sacerdoti e sacerdotesse su piccoli navigli decorati di stoffe, nastri e fiori. Da queste barche venivano disposte le ghirlande sui cippi collocati ai lati del fiume e svariate offerte venivano direttamente versate nel fiume.

Rientrate le imbarcazioni venivano distribuiti gli alberi per collocarli in prossimità dei crocicchi, adornati di nastri, oscilla (gli antenati delle nostre palle dell’albero di Natale) e dolci che poi venivano staccati e mangiati nelle feste compitali tra il 5 ed il 6 gennaio. Lo scopo di queste decorazioni era ritualmente legato al fine di ottenere prosperità dagli spiriti delle piante che non perdono le foglie in inverno, affinchè analogicamente neppure gli uomini patissero il freddo e superassero l’inverno evitando fame e carestie. Parimenti i fruscelli dei sempreverdi appesi sulle porte di casa erano un ulteriore auspicio di prosperità per la famiglia.

In questo periodo il giungere del freddo ed il prolungarsi delle nottate a discapito delle ore di luce rievocava ancestrali immagini di buio e terrore, di forze fauniche e silvestri affamate e portatrici di morte. Tutto ciò veniva esorcizzato con il festeggiare le forze della Natura portatrici di benessere e prosperità e con le preghiere al Sole affinchè rinasca e riporti la Luce ed il calore agli uomini. Il ciclo delle feste solari si accrescerà ulteriormente dall’11 dicembre (festa del Sole Indigete) fino al 25 dicembre (festa del Sole Invitto), momento in cui le giornate ricominceranno a crescere a discapito delle nottate.

Le decorazioni di questo periodo, ancora oggi utilizzate, richiamavano i colori del Sole (l’oro ed il rosso) e la vitalità perennemente trasmessa dall’astro divino (rappresentata dai folti rami verdi).

La richiesta di Luce, in lotta contro l’avanzare del buio, era ribadita alla sera di questo dies di apertura delle feste, con una fiaccolata durante la quale si disponevano torce in prossimità del fiume, dove i sacerdoti purificavano con lustrazioni le barche e le reti dei pescatori.

Al termine di questa giornata rituale il fiume e l’intera città erano addobbati a festa e le fiaccole, simboli delle preghiere e delle speranze degli uomini, erano affidate alle acque del Tevere, simbolo del perenne scorrere della vita e del cosmo.

Ancora ai nostri tempi attuali, la Tradizione popolare ha serbato l’uso di avviare le decorazioni natalizie nel giorno dell’8 dicembre e quelli che prima erano riti di offerte agli spiriti degli alberi, con fumigazioni d’incenso ed offerte di dolci, oggi sono il porre dolci (tra cui panettoni e pandori) e doni sotto l’albero, che poi a Natale vengono distribuiti ad amici e parenti, così come facevano gli antichi nei medesimi giorni con le strenne, distribuite tra il 21 ed il 25 dicembre.

La Tradizione è immortale, la coscienza sopisce ma prima o poi si risveglia ed intende; così come il Sole è sempre destinato a risorgere ed a mantenere la promessa di una nuova primavera.

Per chi è interessato a rivivere e praticare culti e le feste dell’antica Roma, si rende noto che presso i templi della Pietas è possibile ricevere i riti da appositi sacerdoti preposti alla distribuzione di essi. Per maggiori informazioni scrivere a info@tradizioneromana.org o consultare il sito www.tradizioneromana.org 

(N.B.:  Tutti i diritti sono riservati. E’ concessa la condivisione parziale o completa del presente articolo purchè si menzionino AUTORE, TITOLO DELL’ARTICOLO E SITO DAL QUALE VIENE ESTRATTO)

Omina Deorum: un’esperienza spirituale – Lorenzo D’Oria

$
0
0

Un paio di giorni dopo la conferenza su Byoblu, canale TV (262 digitale terrestre) avente ad oggetto un confronto tra cristianesimo e Tradizione Romana, ho chiamato il mio maestro spirituale, l’avv. Giandomenico Casalino, per congratularmi con lui per le ottime sue argomentazioni svolte nell’incontro televisivo e prendere un appuntamento per un caffè. Fin qui tutto normale, se non fosse accaduto che egli abbia, con decisione, insistito con me per vederci la settimana successiva ed al medesimo luogo dove ci eravamo incontrati per la prima volta due anni addietro; e ciò in quanto, come egli asseriva, il suo demone gli indicava di non cambiare luogo poiché quello era propizio per loro; e devo dire che l’avv. Casalino aveva ragione! Durante l’incontro all’interno del bar chiamato Rudiae e mentre egli stava parlando sulla Visione degli Dei e sulla ormai evidente disintegrazione del cristianesimo, si era scatenato un brutto temporale e dopo che erano caduti dei forti fulmini, Casalino affermò che Giove era adirato: immediatamente dopo questa frase, sentimmo un terribile boato come se fosse l’esplosione di una bomba, cosa che consentiva all’avv. Casalino di immediatamente e ancor più veementemente, confermare la sua tesi precedente. Terminato l’incontro e cessato il temporale, siamo usciti dal bar ed abbiamo subito notato che si era raccolta una folla che stava guardando verso Porta Rudiae, che dista circa 5-6 metri dal Bar dove eravamo stati; e dopo aver appreso la ragione di tale assembramento, l’avv. Casalino mi ha guardato con serena consapevolezza della grandezza dell’evento di cui eravamo stati parte.

In buona sostanza cosa era accaduto? Quella fortissima esplosione di cui sopra, era stata la conseguenza della caduta di un potentissimo fulmine che aveva colpito la statua in pietra del cosiddetto sant’Oronzo (Patrono di Lecce) sovrastante Porta Rudiae (porta della Città di Lecce da cui si raggiungeva l’antica città di Rudiae, patria di Quinto Ennio, fondatore della letteratura latina, rappresentato in un busto bronzeo presente, peraltro, nel luogo dell’evento). Il fulmine aveva colpito la statua in pietra, distruggendo il volto, il braccio destro ed il petto del vescovo cristiano ed i frammenti caduti riempivano il selciato della strada sottostante; v’è da aggiungere, cosa questa di una eloquenza indicibile, che ai piedi della statua del vescovo, vi è una statua di Giove Ottimo Massimo, Nume della folgore, rappresentata in frantumi.

L’iconografia è chiarissima, anche alla luce della documentazione che allego: il vescovo cristiano avrebbe “sconfitto” e “ridotto in frantumi” il Padre degli Dei, “sostituendolo” come protettore dalle tempeste di fulmini…! Devo dire che sono stato, sin dal momento in cui ho appreso ciò che era accaduto, convintissimo di essere parte di un evento spirituale altamente significativo e quasi incredibile e di averlo vissuto con grande entusiasmo insieme a Giandomenico Casalino e forse a causa della sua stessa essenziale presenza, proprio in quel giorno, in quel momento ed in quel luogo, tutti così fortemente voluti da lui. Dopo l’evento l’avv. Casalino mi ha detto: “Tutto l’Universo che è Uno è le molte teofanie che sono gli Dei, quindi tutto l’Universo è nell’uomo; a cosa servono i riti e le cerimonie, le chiese o i templi, se non conosci te stesso?”.

  https://www.trnews.it/2021/06/07/maltempo-flagella-il-salento-voragine-a-lecce-fulmine-danneggia-porta-rudiae-e-duomo-paura-tra-i-fedeli-video/323995   https://www.portalecce.it/index.php/piazza-duomo-diocesi-di-lecce/ave-orontii/1065-la-devozione-per-il-protettore-oronzo-santo-delle-epidemie-dei-fulmini-dei-terremoti   Lorenzo D’Oria

Augusto e l’Impero: Pietro De Francisci e la civiltà dei Quiriti – Luca Valentini

$
0
0

Devoto com’era a quel sistema di concezioni, di idee, di credenze che avevano costituito la base ideale dell’antica repubblica e che erano legate alle gloriose memorie di questa, egli sentiva che non sarebbe stato né opportuno né utile abbattere con un gesto violento tutti gli antichi ordinamenti…”(1).

Affrontare la disamina di quella che fu l’antica civiltà romana presenta spesso delle difficoltà metodologiche, perché spesso il punto di vista dell’osservatore si presenta essere parziale o interessato ad evidenziare un aspetto a discapito di un altro per convincimenti personali o per tesi ermeneutiche preconcette. L’errore più grave è porre in essere tale ricerca con una metodica analitica in riferimento ad una società tradizionale, che per sua stessa definizione dovrebbe essere scandagliata con un preciso senso sintetico e simbolico. Se studiosi come Scheid (2) e Bettini (3) hanno ben definito come in realtà non si possa definire la Religio romana un corpus predefinito, uniforme ed invariabile nel tempo, ma bensì un composto organico di spiritualità riflettente spesso i condizionamenti territoriali  e gli apporti delle popolazioni con cui i Quiriti vennero a contatto – si pensi alle caratterizzazioni in tal senso sviluppate in ambito nordico o nel bacino magnogreco ed etrusco -, altresì un’ermeneutica, che tende solamente ad uno sguardo analitico e puramente fenomenologico, considera l’esperienza romana a compartimenti stagni, fasi differenziate di un processo storico, di cui spesso si smarrisce il senso sotteso all’intera civilizzazione, che della stessa non comprendono l’organicità, l’idea metafisica che la Roma storica ha manifestato in terra dal giorno della sua fondazione all’ultimo giorno della sua esistenza … ed oltre.

Tutto ciò, dal nostro punto di vista, risulta essere essenziale per approcciarsi ad un’importante e meritoria ristampa ad opera delle Edizioni Il Cinabro di Catania, quella inerente al testo “Augusto e l’Impero” del celebre giurista e storico delle religioni italiano Pietro De Francisci, già edito nel 1937, a cui sono stati aggiunti tutti i contributi dell’autore sul medesimo tema scritti dal 1906 al 1939.

La crisi spirituale del primo secolo a.c., ben descritta da autori come Varrone (4), pose prima Cesare e poi Ottaviano dinanzi ad un bivio ineludibile, la riformulazione del legato di Roma con i Numi, affinchè il patto primordiale non fosse dimenticato né abiurato, ma rinnovato e confermato. In merito, precise e preziose risulta essere le considerazioni di Mario Polia nella sua introduzione al testo:

Ottaviano intendeva essere il nuovo conditor Urbis la cui funzione era procedere a una rinfondazione delle coscienze, compito che faceva di lui un conditor Romanae come, dopo la fondazione romulea, lo era stato Numa” (5).

La fortuna militare e politica favorì Ottaviano in due grandi vittorie nel 36 a.C. su Pompeo a Naulochos e nel 31 a.C. su Marco Antonio ad Azio e come nei casi di Romolo/Quirino e Cesare assunse una valenza sacrale: Augusto, infatti, non solo fu il fondatore dell’Impero, ma colui che riconsegnò al popolo romano la serenità e la pace dopo un lungo periodo di guerre civili. La sua personalità, nel recupero della spiritualità arcaica, assunse tratti di un’ipostasi degli Dei: i sacerdoti e le sacerdotesse pregavano in suo favore durante le supplicationes per il popolo e il Senato. L’autore, pertanto, di opere monumentali quali “Primordia Civitatis” ed “Arcana Imperii” era ben conscio di come la dimensione giuridico – religiosa, che traghettò l’istituzione repubblicana nel Principato,  non avesse subito un’involuzione con la preminente posizione del Princeps, ma rappresentasse un’adeguata rimodulazione della sovranità popolare ben salda nell’ordine senatorio:

Così il princeps, che non è un magistrato, viene ad assumere la figura di un organo nuovo e permanente inserito nella costituzione, intaccata così nella sua struttura e nel suo spirito … si incarna un vero e proprio regime monarchico sovrapposto alle istituzioni repubblicane formalmente conservate” (6).

L'idea della sua eternità nel mutare della storia venne assunto come il superamento del limite naturalistico da cui sorse, l’espansione ab aeterno del Limes, sviluppo palingenetico dei Numi Arcani dell'Urbe, che anagogicamente si identificano per ascesa all'Uno del Tutto, che è la Potenza inespressa prima di Giove, prima di Giano, il cerchio universo di Luce che è Axis Mundi nel Pantheon. Roma, quindi, è Libertà, Roma è Orbs, Roma è Mondo. Si l’autentica concezione imperiale, quella espressa successivamente dal divo Giuliano, che fa assurgere Helios - Apollo quale forza trascendente e metafisica a espressione dell’Ente che legittima e consacra l’Autorità dello Stato ed il suo ordinamento, in cui l’Imperator è incarnazione autentica del Sacro che informa e sublima il Politico. Il termine Imperium nel significato irriducibilmente filosofico non concede spazi a fraintendimenti col suo omologo in italiano, che spesso si declina come Imperialismo e che viene adoperato per designare le più diverse ed anche opposte concezioni storico-istituzionali fino a decadere, nell’attuale ed acuta fase mercantilistica della modernità, a parodia formale di un’Idea che lo stesso De Francisci insegna non poter essere relegata in codificazioni standardizzate:

Solo chi ignori la storia e le vicende della politica può pensare che il ricorso agli stessi principii e agli stessi procedimenti produca sempre le stesse conseguenze” (7).

La pubblicazione de Il Cinabro e la recente ristampa de “Spirito della civiltà romana”, introdotta da Giandomenico Casalino per le Edizioni   L'Arco e la Corte di Bari, segnano un rinnovato interesse verso le opere di un grande classicista della cultura italiana del ‘900, quale è stato Pietro De Francisci, a cui troppo spesso la ricerca sia specialistica che tradizionalista non hanno assegnato la giusta e doverosa attenzione.

Note:

1 – Pietro De Francisci, Augusto e l’Impero, Cinabro Edizioni, Catania 2021, p. 178;

2 – J. Scheid, Rito e religione dei romani, Sestante Edizioni, Bergamo 2009;

3 – M. Bettini, Dèi e uomini nella Città, Carocci Edizioni, Roma 2015;

4 – Varrone, De Lingua Latina, nella sua recente traduzione a cura di Maria Rosaria De Lucia, Guido Miano Editore, Milano 2020;

5 – Pietro De Francisci, op. cit., p. 9;

6 – Ivi, p. 85.

7 – Ivi, 81.

Luca Valentini


Erected a Temple of Minerva Medica in Pordenone

$
0
0

The Traditional  Association Pietas has erected a new temple, dedicated to Minerva Medica, in Pordenone.

This was announced by the president Giuseppe Barbera with the following words, which can be read in the official Facebook page of his Association:

“The temple of Minerva Medica in Pordenone, whose foundation stone was laid on the15th of August, is today, 20th of August 2771 ab V.C. accomplished in its essential geometry.

Starting from tomorrow on the works dedicated to the decorative apparatus will begin.

From today, the communities of the Traditional Italics of the Triveneto have a fundamental reference point for the return to the Sacred.

Pietas not verba sed res “.

On the 9th of August, still on the official Facebook page of the Association, the design drawings of the temple were published, developed by President Barbera and the structural engineer Tricoli, who’s the Vice-President of Pietas and president of the CPPT KR club.

It seemed impossible, and yet in just four days the local Pietas militants, actively supported by the association’s national board, managed to erect, in such a short amount of time, a splendid peripteral circular temple with a rectangular antis-shaped pronaos. To the east of the temple stands the statue of the Minerva Medica of Pietas;

<<in front of the temple the Mundus of the Sanctuary and the altar dedicated to the Goddess form a symbolically important and fundamental line for the connection between the human world and the divine dimensions of the sacred>>, this is what president Barbera told  us during our interview.

[metaslider id=29923]

The temple has already its own rector appointed by the president and is, since August 15, effectively active.

The function of this place – says Doct. Barbera – is fundamental for the pious components of the Italian North-Eastern area. Finally they have an associative place like us in Rome too, open to those who are interested in actually reviving the ancient Roman-Italic sacredness, where one can develop cultual and cultural activities related to the objectives of Pietas: promoting, spreading, revalorising the classical culture.

The temple is officially open to practitioners of the Roman-Italic tradition and to the practicing members of the Greek groups working for the rebirth of the cult of the Gods and with whom we are developing cordial  bonds of mutual respect, operativity and friendship.

First among them is the Thyrsos group, which with Pietas has agreed on an action program to try to make the Greek-Roman tradition re-emerge in the best possible way. Pietas also profoundly thanks the YSEE groups, who have so far expressed cordiality, hospitality and love for the same ideals of returning to the sacred.

We ask President Barbera, what drives the association to build temples?

Pietas is realizing the erection of Temples to the Deities to allow men driven by noble ideals and virtues, to have places where to rediscover the connection between men and Gods which, for two millennia, have been denied. Ours is a gesture of freedom guided by a profound spirit of sharing and love for what we do.

Will there be rites at the temple of Minerva Medica

Offerings to the Gods are performed at our temples, but it is also possible to request oracles, auspices, hold votes or even access civic initiation. Moreover, Minerva Medica is a deity of spiritual support for diseases and the worshipers prayed her to receive a suggestion of a good doctor or medicine to heal them. Together with Esculapio and Salus it belongs to the group of “therapeutic divinities”, who are prayed in order to find cures to physical and psychological illness. Minerva Medica is for us the divine intelligence that illumines the doctor, who can often act, unconsciously, by divine intuition rather than by his own. At the same time, considering that many diseases actually arise from internal imbalances (it is the case of somatization), Minerva Medica is that virginal intelligence, free from fears and negative impressions (the terror of Jupiter of being dethroned is the reason why he eats his wife Meti), which allows the achievement of an inner equilibrium, capable of making us stronger spiritually in the face of evil and more courageous, which also helps us destroying the inner monsters (Minerva suggests to the heroes how to win Medusa, the Chimera, etc.) to lead to a new equilibrium that avoids somatization. Everyone can pray her freely, whoever wants also at our temple.

What do you mean by civic initiation?

From the strands of popular activity, we “extracted” that civic initiation that made the man a priest of himself and his family, who began and founded his path on the cult of the Lares and Ancestors, followed by the refinement of the practice to the Gods; the Romans enacted very clear laws about this, with a well-structured sacred right. Therefore, in our temples, as is still done today in Crotone during the pilgrimage to the temple of Hera Lacinia (for families still linked to ancient traditions), the teaching of the cult of the Lares and of the Ancestors can be performed, as long as the precepts referred by the rectors and priests of the temples are followed.

Access to the cult of the gods and to the internal colleges is possible for all those members of good will who want to practice the Tradition of their lands and their own ancestors.

How often will activities be held at the temple?

The structure is today novel, but we will provide a regular development of activities, just like at the temple of Jupiter. Certainly, starting from September, the first rites open to the public will take place.

Currently it is already possible to contact and request meetings to visit the temple and deepen the cultual and cultural activities of our association. It is sufficient to write an email to info@tradizioneromana.org. To know the activities in the program just consult the event page from time to time on the site www.tradizioneromana.org or the official facebook page of the Traditional Pietas Association https://www.facebook.com/Traditional AssociationPietas

L'articolo Erected a Temple of Minerva Medica in Pordenone proviene da EreticaMente.

Reddito di cittadinanza: un progresso antico! – Giuseppe Barbera

$
0
0

Il polverone che sta alzando l’idea del reddito di cittadinanza è enorme. I poteri forti, secolari e millennari, si scagliano contro questo atto del governo giallo-verde come se fosse un’azione terribile e deplorevole.  La paura di fondo, manifestata pubblicamente, è che ciò accresca l’oziosità, l’evasione fiscale e le truffe contro il tesoro dello stato. Nella realtà dei fatti il reddito di cittadinanza non è un’idea nuova, ma appartiene ad un mondo antico: quello Romano! Cosa altrettanto curiosa è che non si tratta di un concetto maturatosi nel tempo, ma emerso in contemporanea alla fondazione di Roma. Plutarco, nella vita di Romolo, ci segnala che dopo la vittoria contro i Veientini, il primo Re di Roma non volle tenere schiavi, ma restituì i prigionieri di guerra agli avversari ed entrò in conflitto con i Patrizi fondatori perché evitò l’eccesso di crescita delle loro ricchezze rifiutando di distribuire loro nuove terre (oltre, appunto, a non fornirgli manodopera gratuita in forma di schiavi), bensì volle che ad ogni cittadino romano (i quali erano tutti impegnati a partecipare alle attività belliche) venissero equamente distribuite le terre conquistate. In ciò vi è un ideale sociale molto alto che vuole emancipare l’uomo dal dipendere dai ricchi dell’epoca.

A parere di alcuni storici Romolo (1) sarebbe stato eliminato fisicamente da una congiura di individui aspiranti all’accumulazione di ricchezze, e poiché egli era profondamente amato dal popolo, al punto tale che lo riteneva figlio di un Dio, venne sparsa la voce che fu visto ascendere in cielo: da ciò si sviluppò un’apoteosi di Romolo, assunto al rango di divinità col nome di Quirino, che evitò di ricercare il corpo del Re ed eventuali responsabili di un suo possibile omicidio. Nonostante ciò la politica romulea era oramai stata avviata nella città da lui fondata. Questo ideale sociale supererà i confini romani per divenire, due secoli e mezzo dopo, una ideologia comune al mondo italico: la causa di ciò sta nello sviluppo parallelo, nella pitagorica Magna Grecia, dell’intento della cancellazione della povertà tramite la distribuzione di terre (percepite come bene reale appartenente alla natura umana a differenza del denaro che invece la difetta) con la conquista di Sibari nel 510 a.e.v. da parte dei Crotoniati, guidati da Pitagora, il quale propose di distribuire le ampie campagne della città sconfitta alle classi sociali più povere. Anche qui si accese l’opposizione di una parte avida dell’aristocrazia, la quale organizzò una rivolta sanguinolenta nella figura di Cilone, che si concluse con la cacciata dei pitagorici e di un nulla di fatto per i meno abbienti. La cosa ebbe conseguenze pesanti per tutto il sud Italia perché Kroton era la polis di riferimento per le poleis Magnogreche. A riprese i Pitagorici riconquistarono il controllo della città, ma qui gli scontri sociali erano talmente intesi, tra le diverse fazioni, che si dovette fare di Taranto la novella polis a guida della “Lega Italiota”.

Osservando il fenomeno di nascita della prima Italia, risalta la presenza di un filo conduttore che ideologicamente vuole i cittadini liberi da ogni forma di servitù tramite un reddito pro capite che provenga dalla terra concessagli dallo stato. Il fenomeno è oltretutto meritocratico e spinge l’uomo allo sviluppo del concetto comunitario perché arriva alla conquista della sua “indipendenza economica” tramite la disponibilità d’impegno data alla comunità, vuoi servendo nell’esercito od in altre strutture statali. A questa linea ideologica si oppongono gruppi di latifondisti che ambiscono al controllo dello stato e delle ricchezze da esso reperibili.  Quando Roma arriva allo scontro con Taranto, nel 280a.e.v., ci si rende conto di come la Magna Grecia sia animata dalle medesime aspirazioni civili e sociali dei Romani, motivo per il quale questi ultimi elaborarono una leggenda che voleva Re Numa discepolo di Pitagora (cosa impossibile perché i due sono vissuti a circa due secoli di distanza), un motivo di propaganda che risultò credibile a causa delle medesime ideologie attive tra italioti e romani (2). La politica della libertà attraverso il possesso o reddito terriero si vide contrapposta all’ottica delle società fondate sul commercio, come quella punica, dove la ricchezza fondamentale non era la terra bensì il denaro. Gli scontri con la plutocrazia cartaginese si conclusero con la distruzione di Cartagine del 146 a.e.v.

Dopo tale evento le tensioni sociali italiche si accentuarono: i Gracchi proposero, per l’ennesima volta, la distribuzione di terre ai meno abbienti: con la crescita del dominio romano aumentavano i cittadini e le necessità ad essi connesse. I nobili intenti di questa famiglia romana trovarono la contrapposizione dei soliti “poteri forti” che, questa volta, li eliminarono spietatamente in pubblico. Dei terreni di Cartagine non si fece più nulla, ed una enorme ricchezza pubblica restava lì, bloccata ed improduttiva. Nel giro di mezzo secolo i contrasti sociali giunsero ad una terribile guerra dove le città italiane si allearono contro i poteri forti di Roma per vedersi riconosciuta la cittadinanza e poter prendere parte alle votazioni inerenti la gestione delle nuove terre: fu la guerra sociale. Silla ufficialmente vinse, ma dovette concedere la cittadinanza romana ai “socii” (alleati) italici, i quali, con ciò, furono i veri vincitori. L’identità italiana raggiunse finalmente la realizzazione del suo ideale sociale sotto Cesare: questi nel 59 a.e.v. concretizzò la riforma agraria, facendo ottenere ad ogni cittadino la quantità di terreno necessario all’indipendenza della propria famiglia.

Col tempo Roma si trasformò in un impero sempre più strutturato nella realtà statale, da ciò ne conseguirono la crescita di città sempre più grandi con forte intensità demografica: si sviluppò allora una nuova forma di reddito, dapprima consistente nella distribuzione di alimenti (farina, olio, vino) alle classi meno abbienti, fino alla distribuzione di somme di denaro da Augusto in poi: si tratta del congiarium pro capite, ovvero una somma di denaro minima considerata utile ad avere uno stile di vita dignitoso, che veniva distribuita alle classi meno abbienti per cancellare la povertà. La Res Publica dei romani fu la più longeva, nella storia dell’umanità, perché si fondava su un ideale sociale che voleva la cancellazione della povertà. Persino la schiavitù a Roma ebbe diritti che altrove non esistevano: lo schiavo romano riceveva un reddito che poteva essere fittizio (un credito segnato) o reale (in monete), grazie al quale poteva comprarsi la libertà una volta raggiunta la cifra dovuta. Certo Roma ha avuto molti elementi contrastanti, ma dall’antica italicità si possono trarre valori molti sani ed in alcuni casi risolutivi per problematiche attuali che i nostri antenati già affrontarono.

Nella società odierna non sono più i valori ad essere il centro della società, ma il denaro, ciò ha fatto sì che una riforma di diritto, come quella attuata dal governo di Lega e Cinque Stelle, è mal vista, quasi si subisse un furto, mentre a Roma il denaro non era concepito come obiettivo di vita ma come strumento per una vita dignitosa. Le nostre nazioni divengono moderne nel momento in cui si rifanno alla politica romana: lo stesso concetto di repubblica nasce nell’antica Roma e viene ripreso dall’illuminismo in poi. Il corpo dei diritti civici nasce a Roma e da Roma lo riprendiamo. Recuperare il concetto di “reddito sociale”, concepire lo stato come struttura agente super partes per la risoluzione delle differenze sociali, ciò è profondamente moderno, poiché la modernità trae origine dalla romanità: la repubblica francese, ricca di aquile e altri simboli romani, ricca di titoli ed istituzioni riprese dalla Roma antica ne è la dimostrazione concreta e reale. Questo processo di ripresa e sviluppo non è ancora terminato perché molte, delle istituzioni positive romane, sono da riprendere e svilupparsi, ed il nostro governo attuale sta affrontando una riforma moderna che appartiene alla storia del nostro paese, dove per secoli città e fazioni hanno lottato per poter vedere il loro ideale realizzarsi a discapito dei prepotenti e degli avidi.

Note:
1 – Sulla reale esistenza di un primo re di Roma l’archeologia ha fugato ogni dubbio. A tal riguardo si vedano le ricerche condotte dall’archeologo Andrea Carandini sul Palatino. Un primo re v’è stato, ha fondato la città ed ha eretto una cinta muraria sul Palatino. Certamente vi sono elementi mitistorici e propagandistici elaborati dalla storiografia romana, ma il fatto che si attribuiscano determinate riforme al primo re significa che per i romani, ideologicamente, esse erano importanti e che erano intenzionati a promuoverle;

2 – Vedansi gli atti del convegno “Il pitagorismo in Italia ieri e oggi”, Università La Sapienza di Roma, 2005.

Giuseppe Barbera, archeologo e presidente dell’Ass. Tradizionale Pietas

L'articolo Reddito di cittadinanza: un progresso antico! – Giuseppe Barbera proviene da EreticaMente.

Classical Renaissance: a new temple dedicated to Apollo is rising (english version)

$
0
0

At the end of the 5th of December 2018 of the vulgar age, the new temple devoted to Apollo is completed in its essential geometry.

This announcement came directly from the leader of Traditional Association Pietas, Giuseppe Barbera. The building is implemented inside a sanctuary at the gates of modern Rome, in the city of Ardea, where the myth set up the clash between the Troyans led by Enea and the Rutuli led by Turnus with the Troyans win upon these latters.

The sanctuary was founded and sacredly inaugurated the day 11th of November 2761 a.V.c. (2018 e.V.) at 11 o’clock. The founding stone was placed following the ancient rite. At the center of the sacred citadel the sacred Temple of Apollo arises (temple built up in less than a month thanks to the work of Pietas Association’s volunteers), solar god that join the Greek and the Italic people. It was because of the Delos oracle’s will that Enea started his voyage to land in Hesperia (ancient name of Italian peninsula), a promised land for the Troyans that reunited themselves with the homeland of their oldest ancestors. The temple was dedicated to the solar god Apollo, bringer of equilibrium and order, sovereign of harmony and father of Pitagora, by the members of Traditional Association Pietas.

Around the temple there are a welcome center for guests (the B&B “La culla degli Dei”), meeting halls, a gym where to practice arts inherent in the movement of inner energies, an esoteric library with a reading hall and rooms dedicated for refreshment. Flower gardens, fruit trees, green meadows and a pool of brackish water for catharsis decorate the house of Apollo. This sanctuary is a new place of light that comes from the darkness of the contemporary era to bring conscience and wellbeing to pious people, really interested in the rediscovery of that italian sacred world, once considered lost but now recovered. At this temple it will be possible to approach the classical sacredness, to the solar mysteries preserved within and preserved to worthy souls, to obtain oracular consultations and much more. The temple will now have to be decorated, for this reason the president Giuseppe Barbera invites all the people who adhere to the idea of the return of the ancient cult, to register or renew the card to the Traditional Association Pietas to support us in this titanic work. Every form of contribution, such as donations and practical help, is welcome. The temple will be active as early as December, at meetings there will be meetings related to the ancient myths and also here, as at the temple of Jupiter, will be based an headquarter of the Hermetic-Pitagorean Italic Schola, and there the next winter solstice will be celebrated.

Further information on the activities will soon be published on the website www.tradizioneromana.org and through the various official channels of the Traditional Association Pietas.

Another victory of conscience against the mental darkness of the contemporary era.

Signed, the Traditional Association Pietas.

L'articolo Classical Renaissance: a new temple dedicated to Apollo is rising (english version) proviene da EreticaMente.

La fondazione di Roma sui sette colli – Giuseppe Barbera

$
0
0

La fondazione di Roma è uno dei momenti cruciali nella storia dell’occidente se non addirittura in quella dell’umanità intera. Ma Roma non sorge dal nulla: essa è il percorso di un processo sociale che, con la fondazione dell’Urbe, raggiunge un suo apice. (slide 2) Le fonti letterarie antiche menzionano l’esistenza di un agglomerato di villaggi, sui sette colli, appellato Septimontium. Ogni villaggio era una entità politica a sé, con una propria organizzazione. Gli scavi archeologici hanno verificato la presenza di materiali risalenti a questi periodi precedenti, definiti come fasi laziali e vengono collocati cronologicamente dall’epoca del bronzo recente all’inizio dell’età del ferro (dal XII-X secolo a.C. fino all’VIII sec. a.C.). Tra i sette colli vi erano acquitrini e stagni, alimentati dalle continue esondazioni del fiume, mentre sulle vette olografiche si sviluppavano gli abitati umani di genti che vivevano prevalentemente dell’allevamento di ovini e caprini.

Intorno alla metà dell’VIII sec. a.C. si sviluppa la conurbazione tra questi piccoli agglomerati urbani; uno di essi diviene il centro amministrativo di tutti e sette: il Palatino. (slide 3) A ridosso di questo fatto viene costruito un mito: è il processo della miti-storia. Era abitudine degli antichi costruire un mito su di un fatto per potere, nel contempo, mantenere memoria degli eventi ed assieme ad essi trasmettere insegnamenti morali, etici, teologici. Così accadde che, in occasione dell’unione del “Septimontium” in un’unica città, venne innalzato il mito di Roma! Analizzando le raffigurazioni che gli antichi facevano di questo evento, ci è possibile intendere quali fossero gli elementi salienti, che più vennero recepiti dalla diffusione di questo mito.  Un affresco dalla casa di Marco Fabio secondo a Pompei mette in evidenza l’origine divina di Roma, quella di cui scrisse Plutarco: “Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire, agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile”. Questa città venne dunque percepita, nel mondo mediterraneo, come un luogo sacro. Qui il mito vuole che un dio sia sceso dai cieli (il dio Marte) per ingravidare una vergine vestale (Rea Silvia), dalla quale nasceranno due gemelli: Romolo e Remo. Nella teologia classica il dio rappresenterebbe lo spirito umano; la vergine, l’anima purificata; i gemelli il prodotto geniale dell’uomo; il Genius dei Romani corrisponde al Daimon platonico, ne consegue che Romolo è l’aspetto Agothodemonico dell’intelligenza interiore dell’uomo, ovvero lo spirito umano innalzato dall’etica sana; mentre Remo corrisponde al Cacodemone platonico, ovvero lo spirito deperito che deride il sacro e non crede nel suo valore, così come Remo non credette che il rito di fondazione di Romolo avesse valore e violò il solco sacro, per il quale dovette ricevere la punizione della morte: è il simbolo della volontà sana e positiva (Romolo) di abbattere gli elementi negativi (Remo) che vengono partoriti dall’animo umano (Rea Silvia). Sulle tematiche teologiche delle origini di Roma rimandiamo alla lettura di Macrobio (Saturnalia e Commento al Somnium Scipionis) e del lungimirante testo di Elio Ermete, Aspetti esoterici nella tradizione romana gentile . (slide 4)

Il mito del Lupercale mette in evidenza sia l’aspetto teologico romano, sia l’ambiente dei siti dove Roma ebbe origini: boschi, pareti rocciose, fiumi e paludi. In questi luoghi i popoli allevatori si raccolsero sulle cime dei colli, fortezze naturali difese dalle paludi che rallentavano sia predoni che nemici, consentendo agli abitanti di organizzare sempre in tempo le loro difese. (slide 5) Un antico specchio in bronzo proveniente dall’area del lago di Bolsena, oggi al museo Etrusco di Villa Giulia, mette in evidenza un apparato simbolico estremamente significativo, connesso alla fondazione dell’Urbe. Qui vediamo che Romolo e Remo vengono allattati dalla Lupa, simbolo delle energie fauniche, ovvero silvestri e naturali, per la loro crescita, all’ombra del fico ruminale, albero sacro a Mercurio, dio del silenzio e dei misteri “ermetici”. Accanto a lui vi è la ninfa Lara, la ninfa chiacchierona cui Giove strappa la lingua, così come racconta Ovidio nelle sue metamorfosi, trasformandola in ninfa del silenzio. Ciò evince che su Roma si fonda un culto “del silenzio”. Infatti i figli di Lara e Mercurio sono i Lari, spiriti che vengono a vivere nelle case degli umani, cui i Romani tributavano un perenne culto domestico. E difatti Roma ha molti elementi segreti, alcuni dei quali emergono dalle fonti: ad esempio alla città era legato un nome segreto, così come era segreto il nome del nume di Roma: il Romano che lo avrebbe svelato pubblicamente sarebbe stato appeso a testa in giù, per rimettere equilibrio ad un gesto interpretato come un “tradimento” al nume di Roma. Romolo è qui indicato da Latino, re degli aborigeni, ad indicare chi dei due gemelli sarebbe stato il futuro sovrano. (slide 6)

Quando la tratta degli auspici avrà decretato Romolo come sovrano designato dagli dèi, per la fondazione dell’Urbe, questi procederà all’esecuzione dei dovuti riti sacri, i quali sono tutti descritti dalle fonti letterarie antiche e risaltano l’origine indoeuropea della società Romana. Era il 21 aprile. Romolo scelse il Palatino come centro politico amministrativo del Septimontium ed appellò la nuova città col nome di “Roma”, riflesso speculare della parola Amor. L’archeologo Giuseppe Barbera, in un suo studio pubblicato sulla rivista scientifica Pietas, approfondimenti sul mondo classico, denota come Roma sia il riflesso speculare di Amor e sostiene che questo “Amore” consistesse nella esportazione dell’ideale Romano del diritto e della giustizia. Un autore bizantino, Giovanni Lido, nella sua opera De mensibus, racconta il rito compiuto da Romolo per inaugurare il nuovo nome: “Quanto a lui, postosi a capo dell’intera funzione sacra, presa una tromba sacra -… i Romani sono soliti chiamarla “lituus” da litè, “preghiera”- la fece risuonare sul nome della città. La città ebbe tre nomi, uno iniziatico, uno sacro ed uno politico: quello iniziatico è Amor, ossia Eros, in modo che tutti siano pervasi da un amore divino per la città, motivo per il quale il poeta nei carmi bucolici la chiama enigmaticamente “Amarillide”; quello sacro è Flora, ovvero “fiorente”, da qui la festa dei Floralia in suo onore; quello politico è Roma” .

Egli dunque prese due buoi e tracciò un solco dove sarebbero state erette le mura. Ogni volta che un masso fuoriusciva dal terreno, esso veniva consacrato come guardiano e reinserito nel solco primigenio. Terminato il solco Romolo disse: questo è il limite sacro di Roma, chiunque lo oltrepasserà, pagherà con la morte. Il mito vuole che Remo, deridendo la cosa, abbia scavalcato il solco e che Romolo, perché quel rito funzionasse e perché la legge fosse uguale per tutti, dovette uccidere il fratello. Le fonti non descrivono l’evento della colluttazione tra i due fratelli come un’azione malvagia da parte di Romolo, ma come un gesto necessario e dovuto perché quella sacralità cominciasse a funzionare sin dal primo momento. Quasi un sacrificio richiesto dagli dèi per la protezione di quel limite. (slide 7) Prima della tracciatura del solco era stato segnato il “pomerium”, il confine sacro della città quadrata, all’interno del quale sarebbe stato vietato portare alcuna arma e laddove sarebbero sorti i templi dedicati agli dei e le case degli uomini che stavano aderendo a questo nuovo e grande progetto. Attorno sarebbe sorto l’impianto murario di forma, approssimativamente, circolare. Questa metodica d’erezione delle città è un modello tipico del mondo indoeuropeo. (slide 8) Esso compare in Iran e nelle antiche città della Turchia, come ad esempio ad Hattusa, l’antica capitale ittita. Qui notiamo che le mura tendono ad una forma circolare (seppure ovoidale), mentre gli impianti interni della città si sviluppano su reticolati quadrati anziché a raggiera.  (slide 9) Fino a poco più di venti anni fa si pensava che Roma fosse sorta con i Re Etruschi e che, i dati precedenti, fossero pure fantasie elaborate dai Romani per mere finalità propagandistiche. Il rinvenimento sulle pendici del Palatino, durante gli scavi dell’Università di Roma “La Sapienza”, di alcuni blocchi di un muro di cinta risalente alla metà dell’VIII secolo a.C., ribaltano la situazione delle considerazioni e dimostrano l’esistenza del Regno di Roma nelle epoche indicate dalle fonti. Quale fosse il nome del primo Re di Roma, se egli avesse veramente un gemello o meno, diviene irrilevante di fonte a questo fatto; inoltre, prendendo in considerazione il fattore della miti-storia, comprendiamo che la città venne erette come descritto dalle Fonti e che su questo fatto venne inserito un sistema mitologico tipicamente italico finalizzato alla sopravvivenza di determinati mitologhemi: sappiamo che anche presso i Piceni ed altri popoli dell’Italia antica si parlava di gemelli fondatori di città. E’ come se le città fondate con un determinato rito dovessero essere accompagnate da una determinata leggenda per convalidarne l’aspetto sacrale. (slide 10)

Nel mondo Romano questo aspetto della sacralità è perennemente congiunto con quello della quotidianità! Così ogni porta era considerata pari ad un aspetto del dio Giano, il dio dei passaggi, tanto da essere chiamata Janua. Su di essa si elaborava un apparato sacrale che venne applicato nelle mura di Romolo. Esso considerava la soglia come il demone caotico dei boschi, Fauno, gli stipiti come i due guardiani Picumno (dal dio Pico, rappresentato con l’ascia) e Pilumno (dal dio Pilum, rappresentato dal pilum, la lancia/giavellotto dei Romani) che bloccano l’energia caotica, non consentendole di entrare, proteggendo così la città. In India le porte templi hanno dei demoni scolpiti sulla soglia, che si richiamano allo stesso Caos esterno rappresentato dal Fauno, sugli stipiti sono scolpite delle divinità guerriere che con la loro “fermezza” bloccano l’energia silvestre proteggendo la sacralità del tempio. Questa comparazione dimostra l’origine indoeuropea di questo apparato sacrale. (slide 11) Gli scavi sul Palatino, condotti dall’archeologo Andrea Carandini per l’università di Roma “La Sapienza”, hanno portato in luce dei buchi di pali in stratigrafie risalenti a metà dell’VIII sec. a.C., essi lasciano intendere la presenza di una grossa capanna interpretata come capanna di un personaggio importante. Il fatto che, a ridosso di questo luogo, Augusto abbia realizzato una monumentalizzazione dell’area, proprio lui che simbolicamente voleva rifondare Roma riallacciandosi all’ideologia del suo fondatore, lascia intuire che doveva esistere una coscienza che individuava questo posto come prima residenza di Romolo, tanto che a ridosso di essa Augusto innalzò la sua dimora. Del resto un sistema murario come quello individuato non poteva che indicare la presenza di una città o di un luogo importante da difendere, questa grande capanna sul Palatino doveva essere il centro di questo abitato, dunque la dimora del sovrano. Poiché le stratigrafie archeologiche riescono a definire la collocazione cronologica di questi eventi, rapportandoci alle fonti non possiamo interpretarli differentemente da esse, anzi grazie agli scritti degli storici antichi riusciamo ad interpretare ciò che è emerso dalle indagini archeologiche. (slide 12) I risultati di queste ricerche hanno permesso di effettuare una ricostruzione ideale dei luoghi abbastanza dettagliata: emerge un semplice villaggio di capanne, protetto dalla cinta muraria individuata sulle pendici del Palatino, di una semplice comunità di allevatori e agricoltori, la quale è stata capace di segnare i destini del mondo. (slide 13)

Dobbiamo immaginare simili paesaggi sugli altri colli. Sul Campidoglio era presente una forma di culto primitivo attorno ad una grande quercia: l’albero di Giove. Su questa rocca, facile da difendersi grazie alla sua olografia, i Romani eressero il più grande tempio del mondo antico: quello a Giove Ottimo e Massimo. Durante l’assedio dei Galli del 390 a.C. ad opera di Brenno, la rocca del Campidoglio fu l’unica a resistere grazie alle sue qualità naturali e consentì ai Romani di giungere ad un compromesso con il generale nemico Brenno. Mentre il Palatino rimase il centro politico amministrativo della città, il Campidoglio mantenne la funzione di monte sacrale: qui gli auguri traevano auspici, qui i generali vittoriosi donavano al Dio Ottimo e Massimo le armi e le insegne dei vincitori, qui i giovani Romani venivano iniziati al culto dei padri nel giorno dei Liberalia (17 marzo). Il Campidoglio divenne il simbolo della legge che “per amor” i Romani decisero di esportare al mondo per trasformarlo e per diffondere la giustizia, infatti nei locali dell’attuale sala consiliare, nel palazzo del Tabularium, erano conservate tutte le leggi emanate nel corso dei secoli dai Romani, i quali ebbero il merito di dare avvio al grande processo di sviluppo del “diritto” nel campo umano. (slide 14)

Poiché la fondazione di Roma non è un semplice gesto politico, ma anche una volontà di affermazione sacrale, non possiamo tralasciare l’importanza simbolica della consacrazione della città: gli antichi credevano che l’uomo fosse composto di quattro elementi (vedansi i riferimenti di Macrobio e degli altri autori neoplatonici, quelli di Pitagora e quelli espressi da Ermete Trismegisto nel Corpus Hermeticum), ovvero terra = corpo fisico, acqua = anima, aria = intelligenza/mente, fuoco = spirito; questi erano considerati mischiati caoticamente in un cerchio e la loro unità determinava l’identificazione e la difesa dell’individuo, che però col sistema spirituale doveva arrivare alla quadratura del cerchio ovvero a distinguere dal fisico: l’anima, l’intelligenza e lo spirito. La città sacra dello schema indoeuropeo replica questo motivo con la consacrazione di una cittadella quadrata circondata da mura circolari. La città è dunque come un individuo sul quale si applica un intero sistema sacrale per la sua evoluzione e difesa: il rito pubblico. I sette colli hanno ospitato la nascita di una città dal fascino misterioso, dove chiunque ha volto i suoi sguardi, tanto che essa ospitò mitrei, isei, templi alla Grande madre d’Oriente, oltre a quelli che già erano gli dèi atavici del luogo. Non per ultima la chiesa cattolica, che ha scelto la Sacra Roma come sua sede per potersi affermare.

Giuseppe Barbera, archeologo e presidente Associazione Tradizionale Pietas

 

[metaslider id=32106]

L'articolo La fondazione di Roma sui sette colli – Giuseppe Barbera proviene da EreticaMente.

Il Primo Re: la fondazione della Roma … coatta! – Umberto Bianchi

$
0
0

Se uno lo va a vedere senza alcuna profondità d‘intenti, che non sia quella del puro svago, allora “Il Primo Re”, il film italo – belga da qualche giorno in proiezione nei cinema italiani, altro non passa che per un bel brogliaccio d’azione, dal ritmo sicuramente avvincente, accompagnato da alcune panoramiche e da una fotografia niente male, ma se, invece, qualcuno pensa di ravvisare un qualche, sia pur lontano elemento della vicenda della fondazione dell’Urbe, allora si sbaglia di grosso. Quella di Matteo Rovere costituisce un’evidente ed indebita falsificazione e deformazione della storia dei primordi di Roma, lontana anni luce da quel contesto di cui pretenderebbe narrare le vicissitudini.

Tanto per andare sul concreto, esaminando più da vicino la trama del brogliaccio. La vicenda inizia con l’immagine bucolica di due bruti, nei panni dei gemelli Romolo e Remo che, barbe e capelli incolti, alle prese con il proprio pecorume, sono presi dall’improvviso sopraggiungere di una piena del Tevere nel proprio alveo, che tanto ricorda un Universale Diluvio in versione laziale. I due giovanotti, sbattuti qua e là dalla furia di quello “tsunami”, riescono a sopravvivere non si sa come ed, in un contesto di abbandono e desolazione, tra carcasse di armenti e masserizie varie, vengono raccolti, legati e caricati come salami su un carro bestiame, dopo aver ricevuto una scarica di legnate dagli abitanti di Alba Longa, ivi sopraggiunti a saccheggiare i resti di quel disastro.

Condotti in una preistorica Alba, i due gemelli, rinchiusi in gabbia assieme ad altri disgraziati, vengono costretti a prender parte ad un mortale torneo di lotta, all’insegna del “vale tutto”, sotto gli occhi di una turma di sporcaccioni, barbe e capelli lunghi, in un perfetto “rastafari style”, ricoperti di laidi perizomi e di una allucinata Vestale che inaugura le tenzoni in nel nome di una fantomatica “Triplice Dea” (?????). Il racconto prosegue incalzante, con la ribellione dei prigionieri che sopraffanno i propri carcerieri e fuggono attraverso un’oscura foresta, portandosi appresso Romolo ferito in modo quasi mortale e la scalcinata e nevrotica Vestale, con tanto di fuoco sacro in versione da viaggio, rinchiuso in un bel vaso a tracolla, tipo borsa di Tolfa, (tanto per non smentire le neorealistiche aspirazioni del film).

Tra vicissitudini varie, tentativi di tradimento e quant’altro, Remo assume il comando della lieta brigata e dopo un feroce scontro con i guerrieri della tribù che vantava la proprietà e l’esclusivo diritto di accesso a quella oscura foresta, si erge a signore e re del villaggio di questi ultimi. A seguito di una profezia della Vestale, proferita leggendo le interiora di un agnello (???), Remo viene informato che, per assurgere a grandezza, uno dei due fratelli avrebbe dovuto uccidere l’altro. Sconvolto da quanto udito, il nostro combattivo gemello, va letteralmente “nel pallone”. Dopo aver lasciato la povera Vestale incatenata nella foresta, alla mercè delle fiere, incendia e distrugge il villaggio conquistato e si allontana con i suoi. Nel frattempo Romolo, ritornato non si sa come in salute, si erge a rappresentante della primigenia “pietas” latina, offrendo onori religiosi alle vittime della furia del fratello e riaccendendo il fuoco sacro, spento dalla furia iconoclasta di questi.

Il film si conclude con una battaglia in riva al Tevere tra gli uomini di Alba ed il gruppetto degli accoliti di Remo. Romolo, ivi giunto per un senso di gratitudine fraterna, a conclusione della battaglia e dopo l’ennesima alzata di capo del fratello, dopo aver dichiarato la sacralità di quel sito e la inviolabilità di un “limes”, da lui identificato in un pezzo di legno (???), di fronte all’ennesimo atto di tracotanza del Remo, da questi aggredito, dopo aver passato il sacro “limes”, si trova costretto ad ucciderlo. Un bello e commovente discorso finale di Romolo sulla futura grandezza di quel primigenio sito, chiude un film, stracarico di inesattezze e totalmente campato in aria, in relazione alle vicende della nascita di Roma.

Punto primo. Il fatto che, all’epoca della fondazione dell’Urbe, il Lazio fosse sicuramente più selvaggio di quanto non lo sia oggidì, è innegabile. Ma che nella regione attorno al Campidoglio, vi fossero capanne, non significa che i popoli laziali fossero totalmente primitivi o degradati, anzi. Attorno a quell’epoca l’Italia Centrale pullulava di città autonome e civilizzate, Latine (Tibur, Praeneste, etc.), Etrusche (Tarquinia, Pyrgi, Caere, Chiusi, etc.), senza contare la presenza di Umbri, Volsci, Sanniti, Ernici, Sabini, ivi presenti a vario titolo con tradizioni e civiltà consolidate. Le testimonianze, i riscontri archeologici ad oggi in nostro possesso, ce la dicono lunga, a riguardo. Ora, fare dei primitivi Latini una manica di sudici e sanguinari pezzenti, privi di quel senso di “pietas” che si sarebbe trasmesso quale valore aggiunto ai Romani, ci pare una grossolana ed offensiva inesattezza.

Punto secondo. Dalle raffigurazioni in nostro possesso l’intera “koinè” greco-italica, già a quell’epoca, possedeva una certa foggia nel vestire e nel curarsi, non assolutamente riscontrabile nel film. Qui ci sembra, piuttosto, di aver a che fare da una parte, con un insieme di rasta-hippy, abbrutiti e degradati. I volti della turma al seguito dei due gemelli, tra orecchie mutilate, sorrisi da deficienti e minus habens dai tratti fisici lombrosiani, non corrispondono affatto alle rappresentazioni del mondo classico. A tal proposito, fa bella mostra di sé, un esemplare della turma, un ciccione basso, brutto e pelato, tale “Cai” (???? Nome mai sentito in Latino, sarà forse una versione onomatopeica di un latrato canino???). Il ciccione, in mezzo alla foresta, preso dallo sconforto e dalla paura assieme ai suoi compari, cerca per la seconda volta (dopo un primo tentativo concluso con l’accoppamento, da parte di Remo, di un componente di quella allegra comitiva …), di far fuori il Romolo agonizzante, perché costui, nel toccare ed essersi fatto toccare dalla premurosa Vestale avrebbe, a loro dire, attirato l’ira degli Dei e la sfiga più nera.

Al pari del primo tentativo di far fuori Romolo, anche questo, però, grazie alle maledizioni lanciate dalla Vestale dal terreo sguardo, non riesce e, non si sa come, passa sotto silenzio. Remo, al rientro da una fortunata caccia, di tutto ciò non verrà informato ed il nostro “Cai” continuerà impunemente nella sua opera molesta, stavolta però contro le donne del villaggio occupato, sinchè, a fine film, dopo l’ennesima sbrasata, non finirà infilzato da Romolo. A ben guardare, gli stessi abitanti del villaggio, tra capelli ricci a palla e pelli di capra, hanno molto più a che fare con una versione miserella dei rispettabilisssimi indigeni della Papua Nuova Guinea, che non con gli antichi Latini.

Punto terzo. Tutte le vicende narrate sono inventate di sana pianta. Nella leggenda, il Tevere non ha mai travolto Romolo e Remo, né il primo risulta esser mai stato ferito, né Remo ha mai ucciso una Vestale o incendiato villaggi e così via dicendo. La religiosità latina e centro-italica dell’epoca, che vedeva i vari pantheon intersecarsi vicendevolmente e già in possesso di determinati requisiti, (ricordate la Triade di Iguvium, etc.?) è qui volutamente ignorato e distorta, in favore di improbabili invocazioni a Triplici Dee (???) o a remoti e quanto mai generici”Dei”. Né si capisce chi sia il tizio pelato avvolto di fiamme che il Remo, forse in preda a cattiva digestione, dopo aver mangiato la carne cruda di un cervo da lui ucciso, vede far capolino da non si sa dove, durante una sosta nella oscura foresta. Forse un inconscio presagio o un mortifero augurio nei riguardi del molesto “Cai”, anch’egli pelato e robusto, al pari della figura che appare al Nostro…

Assolutamente surreali e privi di fondamento i tentativi di approccio del Remo con la Vestale e la lettura che costei, a sua volta, fa delle viscere di agnello (pratica, questa, l’aruspicina, di stretta competenza dei Lucumoni Etruschi, sic!), Né vi è traccia o menzione alcuna, di Giano e Saturno, di Pico, di Marte e Rea Silvia, di Amulio, della Lupa, della fondazione della Roma quadrata, dell’omicidio rituale di Romolo e così via dicendo… l’aver voluto ignorare l’intero corpus mitico romano, in favore di una versione all’insegna di un presunto e belluino “storicismo” d’accatto, a proposito della genesi dell’Urbe, significa non aver capito assolutamente nulla dell’intera vicenda e dello spirito che ne anima lo svolgimento.

Qui, mito e storia sono strettamente interrelati e assolutamente non disgiungibili, almeno sino al settimo ed ultimo Re di Roma. L’Urbe, al pari di Atene ed altre famose città dell’antichità, nasce nelle nebbie del mito, facendosi essa stessa archetipo vivente ed il cercare di dare un’interpretazione prettamente storica alla cosa, è insensato ed inutile, al pari dello stesso lavoro, volto a ricercare un riscontro razionale e quasi matematico al mito ed all’archetipo. Questo perché, vi sono realtà che nel loro manifestarsi presentano degli insondabili limiti, dati proprio dalla analogica “circolarità”, dal continuo rimando, tipici della forma-cultura tradizionale, che invece, la attuale cultura di matrice illuminista, non può, se non minimamente, penetrare, a causa dei diversi parametri, su cui ambedue sono imperniate. Eppure, il mito è in grado di fornire emozioni al pari e molto più, di una storia cinematografica inventata a tavolino.

Mi si permetta. Detesto i Kolossal americani, ma stavolta, un Ridley Scott o il regista de “Il Signore degi Anelli”, avrebbero saputo far di meglio. Meglio sicuramente, della nostra cinematografia afflitta da un complesso di inferiorità che trova la sua origine, nel post bellico catto-comunismo e nei suoi pasoliniani “accattoni”. Se le nostrane squallide versioni televisive anni ’60 e ’70 dell’ “Odissea” con Bekim Fehmiu e dell’”Eneide”, ci trasmisero l’immagine di un’antichità di Dei ed eroi vestiti da hippy pezzenti e stravaganti, il Remo de “Il primo Re”, ci riporta all’immagine di un bell’esemplare di “coatto” di periferia, dagli occhi sbarrati da un bel mix di coca ed anfetamine, un tizio che urla e mena di coltello senza tante storie, affiancato da un Romolo che, più che l’eroe-fondatore di Roma, sembra riportarci ad una versione giovanile di Massimo Ferrero, il presidente della Sampdoria, dal Crozza nazionale rappresentato sempre barcollante e semi ubriaco, qui infilzato a mò di tordo ma, egualmente in grado di sopravvivere e combattere non si sa come, circondato da una turma di ragazzini in abito rasta-papuasico.

A ben guardare il film, c’è da chiedersi come una sgangherata combriccola del genere, sia riuscita a sconfiggere un’orda di cavalieri armati di tutto punto ed abbia poi potuto addirittura fondare l’Urbe…Domanda inutile e capziosa. Film come questi, sono fatti apposta per deprimere, distorcere ed offendere una vicenda che, con tutto il suo portato mitico, dovrebbe rappresentare orgoglio e vanto per un paese, le cui origini affondano nelle radici di un pluri-millenario archetipo. Il risultato invece, è stato un truculento canovaccio, una via di mezzo tra l’ “Apocalypto” di Mel Gibson, i recenti film americani a base di una mitologia greca totalmente sfalsata, con un briciolo di italico e pezzente neo-realismo…E quel che, in tutto questo, fa più male, sono alcune entusiastiche recensioni cinematografiche, scritte da giornalisti professionisti, pertanto da gente che si suppone abbia studiato e che, in questo caso, invece, ci dimostrano un’ignoranza ed una mala fede, veramente senza limiti né vergogna.

UMBERTO BIANCHI

L'articolo Il Primo Re: la fondazione della Roma … coatta! – Umberto Bianchi proviene da EreticaMente.

Viewing all 60 articles
Browse latest View live